Le dinamiche del mercato discografico odierno impediscono di avere un disco completamente inedito tutto insieme. Anche di questo omonimo lavoro dei Lamb of God avevamo già avuto il piacere di ricevere le prime due tracce (Memento mori e Checkmate) come gustosa anteprima su YouTube e lasciavano presagire un discone. Ma non si può mai stare tranquilli su questo: spesso le preview vengono selezionate fra le tracce migliori di un album e poi magari il resto lascia a desiderare. Vuoi perché oggi un album deve superare ampiamente i quaranta minuti canonici e tante band sono costrette a usare riempitivi, vuoi perché alcuni dischi dovrebbero essere EP e le b-side dovrebbero essere lasciate al lato b. Ah già non esistono più i vinili.
Riguardo Lamb Of God le premesse sono invece ampiamente soddisfatte per quello che mi riguarda. Già quando esce un disco che si chiama come la band si percepisce un certo orgoglio e la voglia di fissare un’istantanea su un momento storico decisivo. Beh, nel caso ci sta perché i Lamb of God del 2020 sono una forza della natura.
La sensazione è quella di un vero duro, un badass da film, che si è fatto un po’ tutta la trafila sabatica, galera inclusa (ogni riferimento a fatti reali è puramente voluto) e che però non ha difficoltà a dimostrare la sua sostanza e i suoi attributi quando vuole tornare a farlo.
Come questo badass da film, i Lamb of God possono permettersi di sbagliare, cambiare formazione, starsene cinque anni senza far uscire roba buona (che per il mercato frenetico di oggi non è un suicidio ma poco ci manca) e poi appena si muovono, zitti tutti.
Il disco suona grezzo ed elaborato al contempo, così come senza dubbio la band sembra aver realizzato quel connubio apparentemente impossibile tra il conservare il sound classico che la base dei fans si aspetta e dare un’idea ben radicata di evoluzione.
Il tutto senza mai cedere al tecnicismo fine a sé stesso (in cui i nostri pure eccellono). Lamb Of God è un lavoro maturo e non cala mai né sul piano dell’intensità (soprattutto nelle parti vocali di Randy Blythe) o su quello più insidioso del songwriting.
Menzione a parte meritano le collaborazioni di personaggi di tutto rispetto quali Chuck Billy dei Testament su Routes (il thrash metal è finito negli anni 90? Sul coro mi si è accapponata la pelle, sul serio!) e niente popodimeno che James Jasta dei miei adorati Hatebreed su Poison Dream.
Per chi poi ha avuto come me la fortuna di vederli dal vivo, c’è la consapevolezza di una band che suona su disco con la stessa cattiveria che mette live.
Inutile che perdiate tempo a leggere ancora le mie considerazioni. Andate a sentirvi Lamb Of God sulla vostra piattaforma di streaming preferita o su YouTube, esaltandovi coi commenti dei fan accaniti o prendendovela coi pochi haters malaysiani, mai come questa volta a corto di argomenti.
Di argomenti oggettivi contro questo disco ce ne sono ben pochi. Per trovarne uno dobbiamo metterci a fare i critici d’arte sul concept grafico della copertina, ma, si sa, i dischi di oggi non ci spendono più di tanto, fatte salve poche eccezioni. Sì perché un tempo vedevi la grafica stampata sul 12 pollici, oggi (a meno che non siate ricchi da potervi permettere un radical vinyl ultra limited) è un quadratino di 150 pixel di lato sullo schermo di uno smartphone, ‘cazzo ci vuoi vedere? Però si potrebbe avere qualche idea più originale di un orologio da tasca col vetro rotto per simboleggiare la fine dei tempi, i riferimenti alla cultura underground di questo 2020 che per essere distopico lo è alla grande, e così via.
E altre considerazioni, pure oggettive, ma di cui ormai non interessa nulla a nessuno, potrebbero riguardare il suono da plugin delle chitarre (pecca esibita anche dalle postproduzioni più all’avanguardia) con livelli di volume inimmaginabili fino a pochi anni fa, il rigoroso compressore con attacchi minimi sulla cassa della batteria (che però ci permette di apprezzarne meglio i virtuosismi) e quella punta di distorsione sulla voce di cui il già citato Blythe non avrebbe proprio bisogno. Ma sì, lo sappiamo che il livello di loudness richiesto è questo qui altrimenti skippate voi per primi e, si sa, oggi si rinuncia alla dinamica e questo va contro le band più tecniche, proprio come i Lamb of God.
Dischi come questo mi fanno sentire irrimediabilmente vecchio, perché mi ricordano quando mi divertivo a scovare pecche nell’esecuzione di un brano (che qui non ci sono) o magari un suono fuori posto (che qui è impossibile).
Il genio della critica a ogni costo aveva trovato rifugio nell’irredentismo spicciolo dei nostalgici tutti esperti dell’“Heel-toe” di Chris Adler e del suo stile seminale (si usa ancora “seminale” nelle recensioni?). Certamente Art Cruz, che ne ha preso il posto, ha qualcosa in meno dal lato tecnico, oltre che molti fan in meno sui social, tanto per cominciare, eppure in questo disco riesce a dare tanto: la parola magica è modernità. Modernità unita a un lavoro mostruoso ai pedali: in particolare un piede destro che ha tutte le caratteristiche per diventare leggendario.
La bellezza del lavoro (e del suo volume) causa indubbiamente un senso di shock ma queste stesse qualità possono stancare presto. Dopodomani uscirà un disco altrettanto perfetto di questo, super prodotto e senza difetti che ne prenderà il posto nelle nostre playlist. Si tratta del “dark side” della modernità a consumo dello streaming.
Vorrei ascoltare quanto prima questi pezzi dal vivo, anche se ultimamente la dimensione live è ugualmente iper-prodotta e artificiale, però accompagnare questi pezzi con un bagno di sudore, polvere o fango, nel mezzo di un pit, acciaccati e ubriachi sarebbe davvero perfetto, se mi perdonate certe nostalgie da lockdown.