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Dark – La serie che incrina davvero le vostre certezze

Dark è il tipico prodotto di intrattenimento che ti incrina le certezze. Mi metto lì, lo guardo con l’usuale piglio di quello che probabilmente non finirà nemmeno la serie, convinto che i metri di paragone e i criteri di giudizio per misurarne il valore siano gli stessi usati sin qui per tutte le altre millemila su Netflix, piene di filler, brodi allungati e dialoghi da soap opera. Sbaglio clamoroso. Non solo mi è piaciuta un bel po’, ma mi ha anche un tantino scosso nelle fondamenta, cosa che non mi capitava da tempo, guardando la TV. Il minutaggio va avanti, tutto si incasina a dismisura e di pari passo capisco che, una volta tanto sono curioso di proseguire la visione per capire davvero dove minchia voglia andare a parare, per pura e semplice curiosità: mica male in un panorama televisivo dove, bene o male, sai già cosa aspattarti la puntata seguente.

Quando spengo, tra una sessione e l’altra, esco, vado a fare la spesa, mi solletico i testicoli aspettando che si smuova qualcosa nella mia vita lavorativa, mangio, bevo e (non) dormo come sempre. Poi mi rendo conto che in tutte queste noiosissime attività umane si è andato sottotraccia a insinuare un pensiero o, meglio, un sospetto terribile, per cui quello che avevo visto poco prima su Dark parlasse anche della mia vita e dell’esistenza tutta. Non solo perché, una volta tanto, qua dentro c’è spazio anche per il metal.

“…the more the better I feel.”

Potrei stare qua a parlare di trama (trama?) e di sviluppo psicologico dei personaggi come fanno gli universitari che sbrodolano saggi di psicanalisi sui blog di serie TV, ma secondo me è l’approccio più sbagliato per parlarvi di una roba del genere.

Dark, più che di voler raccontare una storia e di cercare la vostra empatia con il vissuto di qualcun altro, si occupa prevalentemente di rappresentare un concetto metafisico, di consegnarvi una chiave di lettura per qualcosa di ben più profondo di quello che appare in superficie e di spappolarvi, come dicevo, le certezze, in questo caso relative al vissuto e alla memoria.

Un po’ come a volte fanno i film di Nolan, ma con meno secchionaggine e più pessimismo cosmico, o come facevano certe perle della fantascienza in bianco e nero in modo non sempre consapevole (avete presente The Twilight Zone?).

“Vertigo” on steroids?

In questo caso l’idea di fondo è che l’universo e il tempo non funzionino come siamo abituati a sperimentarlo nel quotidiano, ma che vi siano meccaniche e implicazioni che in qualche modo ci sfuggono e sono però in grado di rendere la necessità di formalizzare le usuali relazioni di causa-effetto un esercizio mentale totalmente futile.

La serie ci prova anche a sfruttare una qualche vaga allusione razionale e scientifica ai suoi viaggi temporali – mi pare si tratti del ponte di Einstein-Rosen, e siccome io sono un troglodita in materia, non voglio approfondire in questa sede – ma dopo si va sempre dritti verso la percezione dello scorrere del tempo, l’esistenzialismo e il simbolismo. In pratica: se il principio di causalità va a puttane, che senso ha l’esistenza stessa?

Tutta la serie si concentra proprio su questo, e lo fa portando gli usuali paradossi dei viaggi nel tempo a un livello superioriore rispetto a tutte quelle serie e film che hanno affrontato lo stesso tema in precedenza

Ok, al momento ci sarebbe anche Future Man a fare anche di peggio, ma così non vale…

Solo che, poveri noi, agli autori non interessa minimamente sbrogliare la matassa in modo naturale, per accompagnarci con mano verso un finale elegante o moralizzatore. In fondo, non siamo più dei bambini; anzi, pare essere una precisa volontà quella di accatastare mattoni su mattoni narrativi per mettere in piedi un’architettura impossibile, una di quelle robe terribili e affascinanti, capaci di reggersi in piedi per uno strano scherzo del destino, secondo logiche che si muovono nel campo dell’indeterminato. Non a caso la terza stagione ci tira fuori pure Schrödinger. Insomma, in parole povere, Dark ti obbliga a ragionare quadrimensionalmente.

Apocalisse 22:13-21?

Ho letto in giro un sacco di commenti non proprio entusiastici sul come e sul perché sia finita in quel modo. Ora, al netto delle più che giustificabili sensibilità divergenti di tutti noi, mi domando come sia possibile parlare di un inizio e una fine per una serie come questa.

In un universo narrativo che prende a calci Aristotele, che allude alla potenza della simbologia biblica della creazione, seppur privandola completamente di ogni necessità esegetica, e che sostanzialmente ci parla della ciclicità del tempo come galera per l’animo umano più che come un motore per l’eroismo di un Superuomo di un qualche tipo, che cosa ti aspettavi? l’Apocalisse in cui Randall Flagg muore?

Ma per piacere: in fondo, se cerchi l’alpha e l’omega in un racconto dove l’Apocalisse è rappresentata come un evento aleatorio, probabilmente hai sbagliato canale. Certo, con questo non voglio mica dire che Dark sia perfetta o che centri in pieno il bersaglio, anzi: io stesso ho appallottolato caccole sullo schermo quando si dilungava su tutte quelle inutili frasi fatte o quando gli occhi lustri di Jonas duravano dieci minuti di troppo…

Insomma, mi parli di cose gigantesche e fondamentali come la natura del tempo e dopo pochi istanti mi cadi sugli sturbi semi-adolescenziali alla Donnie Darko? Mi rendo perfettamente conto di quanto questo sia spesso fastidioso. Tuttavia, in una ben tarata somma delle parti, Dark funziona alla grande, e secondo me è anche la conferma che, a meno che tu non ti chiami Vince Gillian (o con il nome di qualche altro sceneggiatore schifosamente dotato) è sempre preferibile chiuderla prima, una storia, non tirare avanti novemila stagioni fatte di nulla.

Trentacinque ore di puro delirio bastano e avanzano per farti credere di essere stato all’ufficio postale questa mattina a pagare un bollettino, magari non ancora emesso, ma domani, dopo che ieri sarai stato qualcun altro. Altrove.