One Man Metal. Un uomo, una band. Partendo da Bathory che lo fu per varie ragioni personali (ma piuttosto pratiche e non ideologiche) e Burzum che invece scelse di fare tutto da solo per via di uno spirito elitario o se volete una pesta tremenda per la fase anale (in senso freudiano), siamo arrivati a una serie di esempi via via più numerosi. Questo documentario ne analizza tre: Leviathan, Striborg e Xashtur. Dietro questi progetti black metal si celano tre individui con storie molto particolari, una vita al limite dell’emarginazione e un bisogno estremo di sprigionare, esorcizzare e canalizzare il disagio mentale autentico in cui sono invischiati.
Non stiamo parlando di gente che assume posture da outsider e che finge un’inquietudine d’occasione. Se escludiamo Leviathan, ovvero Jef Whitehead, che, per quanto siano uscite notizie piuttosto inquietanti sulle sue difficoltà nel gestire la condivisione domestica, ha sia un lavoro che una famiglia, gli altri due stanno semplicemente fuori. Da tutto, da tutti e anche da se stessi.
Lo dico senza volerli sfottere o altro. Vi basterà guardare il documentario, che non dura neanche tanto, solo 45 minuti, per capire che siamo di fronte a casi limite in cui il black metal fluisce davvero da qualche buco nero, fin nelle vostre camerette dissocialiste.
Dobbiamo ringraziare che esista una forma musicale in grado di canalizzare il disagio e la disperazione di questi individui, perché se non avessero un tale sistema di decompressione, forse adesso conteremmo qualche centinaio di morti in più fuori da un cinema o al supermercato di un paesino. Non sto accusando nessuno. Non c’è bisogno di allarmarsi. Finché hanno un piccolo studio in casa, una batteria, delle chitarre e un sistema per incidere, questi tizi sono innocui. Possono suscitare qualche perplessità, ma penso che si debbano lasciare in pace.
Sin Nanna (Russel Menzies) è l’ente dietro al monicker Striborg. Lui vive in Tasmania e passa il tempo a decifrare il messaggio della natura, trasformandolo in musica per tutti noi. Per intendere cosa dicono gli alberi e i sassi, lui si maschera e va nelle grotte, si accuccia nelle cavità di giganteschi quercioni e gironzola tra i rovi, estate e inverno.
Gli strumenti che usa: basso, chitarre, batteria, sono le traduzioni sonore di alberi, rami, tronchi. La voce gutturale urlata è invece quella della foresta che comunica al cuore nero dell’umanità, cose silvane.
Sin Nanna Menzies è un drummer da paura ma non vuol proprio saperne di entrare in qualche band normale. Lui vive solo, tagliato fuori da tutto, ha le sue passeggiate nel bosco, il suo facepaint e le sue capre. Esatto, capre. Se ne vedono spesso nel film, e penso appartengano a lui.
Quando si pittura la faccia, indossa un mantello nero in stile “Il piccolo prestidigitatore maligno” e si introduce nei cunicoli silvestrini, gli muta qualcosa negli occhi. Avviene come un processo di spersonalizzazione. Diventa una specie di strumento degli spiriti elementali o cose del genere.
Si aggira nel fitto della boscaglia tansmana, magari rischiando grosso con qualche cinghialone o non so quali altre belve girino da quelle parti, ma evidentemente Sin non ha paura, non teme per il proprio corpo, dal momento che non è lui ma qualcosa d’altro ad avvicendarsi nel buio della foresta e tornare poi al suo otto piste, con quelle gemme preziose che squaglia in note e riversa nei dischi che, si spera, voi compriate.
Dietro Xashtur c’è Scott Conner (Malefic), un tipo abbastanza ordinario, crapa pelata, pancetta e discreta pappagorgia. Se Sir Nanna, piccolino e quasi tenerello può suscitare la vostra simpatia, specie dopo averlo visto che urla dentro una caverna con il trucco in faccia, Scott è davvero l’ultimo uomo a cui vorreste chiedere ospitalità durante l’apocalisse. Ho pensato a quello appena il regista del documentario entra in casa sua per intervistarlo. Ho immaginato la fine del mondo e una ragazza sopravvissuta che si ritrova a domandare rifugio nel covo di questo antisociale che passa il tempo a suonare melodie tristi e rimuginare su se stesso. Sarebbe una bella storia, senza dubbio.
Scott non è un cattivo ragazzo, quando non suona, di notte, si aggira per un giardino pubblico californiano, nascondendosi dietro qualche platano. È il massimo della foresta nordica che possa rimediare dalle parti di Alhambra, Los Angeles.
La cosa della foresta è importante, non crediate, il black metal è praticato in tutto il mondo, ma ogni artista deve rintracciare una qualche zona boschiva da cui trarre linfa creativa. Per dire, se decidessi di tirar su un progetto depressive ambient dark black, mi rivolgerei alla sparuta pineta che ho vicino casa. Una volta ricordo che tra quelle conifere c’era una sedia che un vecchietto un po’ tocco aveva portato nel fitto del bosco e su cui andava a sedersi, stando delle ore senza muoversi. Forse è ancora lì a marcire, ora che lui è morto. Direi che è molto black metal, questa faccenda, no?
Tornando a Scott Conner, è un tipo davvero molto complicato ma quando dice che non ha mai capito davvero gli esseri umani e non crede che altri possano mai aver intuito compreso qualcosa di lui, io abbasso le armi della smargiasseria e delle battute e penso: costui è messo peggio di me e quindi lo rispetto, la scismmia esistenziale che l’ha portato via dal mondo, almeno finché il sistema economico americano gli permetterà di mantenersi nel limbo del diniego, non è una scelta. Costui ha le conifere sul cuore fin dalla nascita.
Leviathan, per concludere, è il più celebre dei tre One Metal Man, e quello che sembra non solo capace di far del male all’intervistatore, una volta che questi abbia emesso la domanda sbagliata, ma è anche uno che ha una vita sociale comprovata e un certo charme a livello fisico. È il più virile dei tre ma di sicuro, tra i suoi occhi strizzati e le smorfie alla velocità della luce, penso che nel suo letto ci finiscano quel genere di donne che poi si fidanzano con i serial killer nel braccio della morte.
Sono tre musicisti di talento? Difficile dirlo, di sicuro sono tre tipi molto particolari. Nonostante si sappia che dietro questi nomi vi è un solo individuo, continuiamo tutti a usare la denominazione band, come se fossero un gruppo di persone.
Nessuno si è mai sognato di inventare qualcosa che definisse una one man band. Tanto è vero che il documentario si intitola One Man Metal, proprio perché manca un nome ufficiale per dei fenomeni autarchici come questi.
È gente che si accontenta di ciò che ha e crea facendo da sola. Scegliendo un’entità collettiva è come se dividessero schizofrenicamente se stessi in un equipaggio creativo all’insegna dello sdoppiamento. Il batterista, il chitarrista, l’autore dei testi, l’arrangiatore sono sempre uno.
Il black metal di questi individui è musica fatta in casa e risponde a un bisogno di controllo totale. In effetti quanti di coloro che hanno una band e hanno sempre suonato in una band, non si sono almeno una volta trovati a sognare di dire fanculo al batterista, faccio da solo.
Tutti e tre questi one metal man sanno gestire benissimo la sezione ritmica, strimpellano abbastanza le chitarre da scrivere quello che gli passa in mente. Per il cantato basta che urlino fino a farsi uscire le pupille dalle orbite. Come dice Jef Whitehead, ammesso che il succo del metal sia nell’atto di ululare come dei pazzi e suonare chitarre pesantissime, c’è un fondo di autenticità in quello, e per quanto si pigli in giro il trucco e la postura, ci si deve arrendere alla sincerità che c’è dietro il metal.
Questa musica potrà essere ridicola in alcuni aspetti, ma nessuno può negare che sia schietta. Non ti va di fare una vita al limite dell’inedia per piacere e non ti uccidi la laringe per essere fico ma perché è l’unico modo di non ammazzarti. Diciamo quindi che Striborg, Leviathan e Xashtur riducono all’osso un’attitudine elitaria e indipendente prendendo le distanze da se stessi trasformandosi in un collettivo psicotico.