No, non è un articolo su Tiger King, l’incredibile documentario che potete e dovreste vedere su Netflix. Qui parliamo dei Lion e di Dangerous Attraction. Un disco che mi ha accompagnato dal 1996 a oggi, finendo per essere la colonna sonora di alcuni momenti salienti della mia vita ed emblema della costante dissociazione col mio proprio tempo (my own time).
Il mio tempo, già. Quando diciamo una cosa del genere di che cavolo parliamo? Tradizione vuole che nel 1996, se hai diciotto anni e non sei ancora riuscito a scopare, ti ascolti Jeff Buckley, gli Smashing Pumpkins o magari qualcosa di più heavy-romantico-necrotico, come i Type O’ Negative o i Paradise Lost.
Se decidi di sublimare l’autoerotismo vai su un live dei Manowar e se concludi che la tua castità è colpa delle donne, ecco Domination dei Morbid Angel. Se invece sei uno davvero tagliato fuori da tutto e non cerchi giustificazioni ma vie di fuga, allora ascolti Dangerous Attraction dei Lion e ne trai energia che nutra il tuo bisogno disperato di riscossa e di un futuro cristianamente migliore.
Non scherzo. Ho ascoltato quest’album in uno dei momenti più difficili della mia processione ormonale (1996-1999); ci sono tornato subito dopo che mi hanno spezzato il cuore per la prima volta (2005) quasi dieci anni dopo. L’ho risentito mentre mi facevo coraggio lungo la strada per l’Università (2000) e l’ho recuperato ancora dopo essermi licenziato (2017); per non parlare delle infinite ore in cui canzoni come Fatal Attraction o Powerlove hanno ampliato la forza motrice motivazionale durante le mie sedute in palestra (2012-2018).
Sono grato a questo album e amo i Lion, ma non sto qui a raccontarvi quale miracoloso diamante heavy metal abbiate ignorato per tutti questi anni. So che la band non ha avuto successo, oggi si gode una specie di piccolo culto più che meritato, esattamente come è meritato l’oblio in cui è caduta già all’inizio degli anni 90.
I Lion erano destinati a scadere, a morire e rinascere in questo folle tempo di revivalismi internettari. Ma io li sentivo nel 1996, quando la sola rete possibile era quella dei copiatori di cassette che mettevano gli annunci nella rubrica postale di Metal Shock.
A proposito di Metal Shock… I Lion io li ascolto dal 1996 ma li conosco da diversi anni prima, per via della raccolta pubblicata dalla rivista Trombettiana. Nella track-list c’era anche Fatal Attraction, esatto. Ricordo poi che Trombetti, chiamato a commentare la storia dei primi cento numeri del magazine, riguardo quell’antologia si lagnò che ci fossero pure gli “scadenti Lion”, ma va beh, Trombetti è Trombetti, non si discute, nel senso che sarebbe perdere tempo farlo con lui.
Negli anni 90 io non sopportavo il metal degli anni 90. Era più forte di me. Allora iniziai a esplorare la decade precedente e ne trassi gioia e godimento perché quei dischi del 1987 o del 1984, mi ricordavano quando ero piccolo, mi cagavo ancora addosso di tanto in tanto ma ero lieto e socevole, innamorato della mia mamma, feticista con le sue calze, guardavo in TV degli stupidi filmetti americani che mi turbavano l’inguine e la mia vita era davanti, come un camion che fa marcia indietro e non ti ha visto, ma era davanti. Ora il camion mi insegue e io ho sempre meno fiato per tenerlo a distanza.
I Lion, se tiriamo in ballo i filmetti anni 80 erano presenti: nella colonna sonora de Il replicante, con Charlie Sheen, di cui scriverò tra qualche tempo sempre su Sdangher, facevano capolino anche loro con due brani.
Ehi, non prendetemi per un fissato con gli anni d’oro del metal, un reazionario che non va oltre il 1991. Sono solo un dissociato generazionale. Un ribelle nei confronti del mio presente. Per la stessa ragione ribellista del 1996, durante gli anni del nu metal e del metalcore, riscoprii, con giubilo e soddisfazione spintissima, tutti quei gruppi vissuti nella decade alternativa, tra goth metal e industrial, black morboso e sperimentazione. Ho rivalutato persino il grunge nel 2006 e dieci anni fa ho iniziato a esplorare il metalcore dei Today Is The Day e i Dillinger Escape Plan.
Ora sto di nuovo tornando indietro agli anni 80, ma credo che sia perché voglio riconciliarmi con un genere che negli ultimi dieci anni ho recensito molto e amato pochissimo.
I Lion di Dangerous Attraction sono grandi, secondo me. Quel disco mi accende ogni volta. Ha un suono grosso come le palle di un tirannosauro, almeno per i livelli easy e scatolanti del metallo neomelodico anni 80. Non li sopravvaluto. So che sono sempre stati dei figliocci dei Whitesnake di 1987. Solo che loro hanno iniziato un paio di anni prima a fare quel disco.
Kal Swan, grandissimo cantante, ma ha fatto troppo il verso a David Coverdale. Sul primo disco lungo (non mi piace scrivere full lenght, ok?) lo imita, ma la cosa mi pesa poco perché nel mio scroto, alle mie meningi, sul pelo che mi copre l’addome, canzoni come Powerlove o Death On Legs, scatenano una specie di eccitazione erotica e mi spingono all’azione, anche se non so bene come concretarla in qualcosa di utile e coerente.
Il segreto, quando la musica ci inietta il proprio succo, è di trovare un contesto in cui ottimizzare scopo e sprone. Per dire, oggi dovevo pelare un quintale di carote viola e grazie a Dangerous Attraction ho finito in un paio d’ore. Mi sono tagliato due volte alle dita, ma è per via dell’impeto scaturito dalla musica; sono effetti collaterali che ci stanno.
Una delle cose che amo di meno, paradossalmente, è che in questo disco si usa troppo la parola Love. Basta guardare i titoli. Powerlove; In The Name Of Love… ma pure in brani come Fatal Attraction, che è sempre stata la title-track morale, nonostante fuori ci abbiano messo “Dangerous” chissà perché, anche lì Swan comincia con: I Need Your Love.
Credo che il testo di questo primo brano sia un po’ il tipico esempio di come contesto e musica possano stravolgere il senso dei versi.
Se strofe come:
I need your love
You can see it in my eyes
You’re in danger
And its time to realize
That your the one I’m looking for
The one I need
Just got to have you next to me
Se queste parole le dicesse Chris Barnes in un pezzo dei Cannibal Corpse probabilmente esprimerebbero in pieno il lato maniacale del protagonista. Siccome siamo negli anni 80 e c’è già stato Sting con la prima “stalker song” Every Breath You Take, su un riffone class metal da sfondamento, la voce sensuale del maschione Swan può permettersi questa foga e risolutezza.
Lui è l’uomo che non deve chiedere e ha deciso chi avere. Lei non può far altro che soccombere alla sua determinazione, che poi è quella biologica della specie. “Ti ho riconosciuta, sei l’ideale agglomerato di cellule da inseminare e il mio corpo una volta attivato non si ferma finché non ti avrò accanto. Per mettere su famiglia e invecchiare insieme, più o meno”.
Questo eccesso di determinazione, conduce Swan, o il personaggio che interpreta, a eccedere, appunto. L’attrazione fatale, non è come nel film di Adrian Lyne, quella di Glenn Close, matta scatenata, per Michael Douglas. Qui il pericolo nasce proprio dal pene troppo reattivo di Kal Swan!
In Army And Dangerous, per esempio (dove la parola Dangerous del titolo di copertina, arriva giusto un pezzo più tardi di quella con la parola Attraction) anche qui, stesso discorso dell’altro brano. Cantata con il growl potrebbe essere un pezzo temibile dei Cannibal Corpse post-Vile e invece è solo un metaforico auto-training di uno che non è nato sotto una buona stella ma è determinato a cavarsela, anche a costo di trasformarsi in un pericolo per gli altri. Narcisismo a palla, insomma.
Ma è un narcisismo innocuo, quello che siamo abituati a percepire nel metallone anni 80, dove ciò che conta è fare le cose “hard and heavy” (titolo del terzo brano). Ovvio che usando certi suoni, l’attitudine e le parole devono adeguarsi, quindi le dichiarazioni d’amore saranno un po’ più veementi e i pezzi programmatici scivoleranno verso le minacce di violenza e teppismo, ma si tratta di pose.
Kal Swan è un ingenuo guascone, così come il romanticismo anabolico dei Lion. Del resto nel 1987 (il disco è terminato tecnicamente un anno prima e finito commercialmente nello stesso periodo) i Dokken avevano detto tutto quello che c’era da dire sul class metal e di là il thrash era stato ucciso con un frontale a 180 bite sul grugno dei metalhead, dagli Slayer di RIB, quindi chi dovevano intimidire i Lion? Che trippa speravano di trovare ancora, questi gattoni?
Sentendo Dangerous Attraction io percepisco la voglia di spaccare, di sfondare e fare la grana, e sapendo l’esito dell’album e della band, acquisisce una sorta di alone poetico.
Le imprese fallimentari sono più appassionanti di quelle che, secondo alcuni, sarebbero riuscite. Come se qualcosa, in questo caduco mondo, non fosse infine destinato a perire e scomparire in un buco di merda… ma i Lion ci piombarono a pesce in quel pozzo nero, poco dopo, nonostante Swan intoni convinto un pezzo come Never Surrender.
Forse parla a se stesso, non tanto della band. Mai arrendersi, Kal! C’è un fondale di individualismo nei Lion. I brani non parlano mai a nome di lui e il resto della band, nemmeno su un pezzo come The Transformers, presente come bonus track in un’edizione remasterizzata del disco. Esatto, la band l’ha scritta come colonna sonora del cartone che ha segnato i bimbetti vissuti negli anni 80, e quindi me.
Transformers, More Than Meets The Eyes
Transformers, Robots In Disguise
Sublime.
C’era di buono nel metal anni 80 questa convinzione di poter cambiare le cose con le proprie forze. Conquistare un cuore, un posto al sole, grazie alla potenza della determinazione e l’onestà di fondo. Come Ralph Macchio…
Esatto, lo vedete qui sopra. Per tanto tempo è stato una fasulla ispirazione, per me. Si può fare il culo a un’intera scuola di terribili karateki se è questo che dentro si desidera più di tutto. Con la volontà è fattibile pure stracciare Steve Vai in una gara di chitarrismi spinti.
Puttanate, ovvio. Anche se Ralph Macchio imparò davvero a suonare la chitarra ed eseguì quelle svise alla grande. Immagino sia stato pure un discreto menatore, ma il punto non è quello che riesce a combinare un attore quando deve interpretare una parte, è spacciare per possibile l’impossibile. Credi nell’impossibile e diventerà possibile! Anche tu puoi essere come Ralph Macchio, se ci tieni tanto.
Ora che ho quarant’anni so che non avrei mai potuto avere qualsiasi donna e tantomeno il successo. Oltre tutto, Ralph Macchio è praticamente disperso. Qualcuno sa che fine abbia fatto? Sì, c’è la serie Cobra Kai, ma quella è l’ennesimo rigurgito revivalista in cui stiamo annegando. Di fatto, il ragazzo più in gamba degli anni 80 non è mai uscito dal carcere cinematografico da cui cercò di salvarlo suo cugino Vincenzo.
Certo, non porsi limiti e crederci di più mi avrebbe potuto aiutare a provarci con la bella fica della classe. Magari questa ci sarebbe stata se non avessi dubitato delle mie qualità e chissà, insistendo oltre il raziocinio, sarei riuscito a laurearmi e scopare prima dei 30 anni. Invece ho mollato tutto e ho trascorso decadi di decadenza come una larva sociale.
Hai voglia a sentire i pezzi grintosi e prorompenti dei Lion negli anni 90, quei riff e melodie corali, si infrangevano con il grigio olezzante della Città Universitaria e sul culo scodinzolante di qualche bella ragazza vista in metropolitana.
Io la seguivo senza preoccuparmi che lo notasse, con i Lion nelle orecchie e le dita sudate a stringere il walkman. A quel punto, Kal Swan avrebbe smesso di fare il vago e puntando un dito verso di lei, frapponendosi tra le sue assurde gambe e il resto del tutto si sarebbe lanciato a pieni polmoni in una considerazione ineccepibile sul potere dell’amore e sul fatto che lei doveva, per dio, “doveva sentirlo strisciare verso le sue caviglie, quell’amore”
Ma mentre tutto questo avveniva nelle mie orecchie, la ragazza se ne andava lasciandomi con il mio walkman in mano, che fissavo sperando diventasse una rivoltella con cui spararmi.
Ma torniamo al disco e smettiamola con questo patetico biografismo. Trovo che la seconda parte sia più realistica. La lunga e cavallosa In The Name Of Love parla di quanto un amore possa far male e After The Fire, invece tratta l’epilogo doloroso e squallido di una relazione finita male, mentre la conclusiva Shout It Out, incita a buttar fuori l’urlo del leone, che spezza le catene e libera dalla sofferenza e le costrizioni della vita.
Ingenuo quanto volete ma così rinfrancante, perché diciamolo sinceramente, nel 2020, la vita è una merda esattamente come nel 1986 dei Lion, ma allora si credeva ancora alla crescita infinita delle risorse e da tutte le parti era un “dai che ce la fai” o “scopiamoci”. Credere a un futuro di ricchezze e fortuna era già qualcosa, no? Quasi che i ritornelli sbarazzini e da fitness dance non fossero necessari. La vita era gioiosa e bella. Si potevano ammazzare i genitori e sognare una fuga a Miami o magari era plausibile sperare di incontrare De Michelis in disco e pippare la sua forfora al volo al ritmo di Pedro Pedro Pe.
Oggi non c’è più nessuno che tenti seriamente di infondere coraggio e voglia di lottare, ora che ci sarebbe davvero bisogno, perché il futuro è fatto di ghiacciai che si sciolgono e allarmi che rientrano, per ora.
Almeno io, che sarò pure un vecchio disperato prossimo alla sostituzione nichilistica del turbo-consumismo, non avverto più il sound tondo e peso di gente come Lion, che quel suono se lo produssero da soli e, aiutati da Bill Freesh e Jamey Dell all’ingegno del suono e Jim Isaacs addetto alla coordinazione di produzione (che non so proprio che cosa voglia dire), tirarono fuori una roba grassa e piena come una mano di Bud Spencer che ti batte sulla spalla e ti dice, “occhio alla penna!”.
La penna nel 1996, nel 2006 e nel 2016 è sempre finita sul mio culo, ma quella botta che ancora sento alla cassa toracica, ogni volta che attacca il riffone squadrato di Hard And Heavy, mi fa stringere i denti e sopportare un po’ di più il dolore e lo smacco.