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In ricordo di Klaus Byron…

Se state leggendo questa pagina probabilmente avrete già saputo la notizia che ha scosso la comunità metal italiana nel tardo pomeriggio del sabato: Claudio Alberti, in arte Klaus Byron, si è spento improvvisamente all’età di 58 anni. Il primo che viene a mancare tra i grandi pionieri del giornalismo metal nostrano. Quello che segue è il ricordo di Sdangher.

Mi fa sempre un po’ sorridere quando muore qualcuno di famoso e tutti coloro che l’hanno anche fuggevolmente incontrato si precipitano a commemorarlo sui social cogliendo l’occasione per parlare di sé.

Trovandomi in questa condizione mi accorgo però come sia difficile evitare i riferimenti autobiografici parlando di qualcuno che mi piacerebbe definire come un amico, per quanto non lo vedessi da mesi pur abitando a pochi chilometri da lui. Ma dopo i trenta-quarant’anni è così difficile coltivare le amicizie per gli uomini…

Soprattutto: Klaus era “famoso”? Limitatamente al piccolo mondo della stampa heavy metal italiana sì, per almeno un paio di generazioni ha rappresentato un punto di riferimento. Il volume Shocking Metal del nostro Padrecavallo lo mette bene in evidenza nel generoso spazio dedicato a “Flash”.

Io non faccio una grande figura in quelle pagine, nelle quali viene pubblicata una mia confidenza un po’ irriverente sulle copertine sexy che caratterizzarono l’orientamento al femminile degli ultimi anni della rivista.

Fortunatamente ho avuto l’occasione di verificare come Klaus non se la fosse presa per niente. Anche perché io stesso ne ero stato complice, con recensioni e interviste a Crucified Barbara, Hydrogyn, McQueen…

Klaus si rivolgeva spesso a me in quegli anni: ero veloce, affidabile, puntuale nelle consegne. Scrivevo tanto e correttamente. Come tutti i collaboratori mi incazzavo quando mi tagliava i pezzi, salvo poi riconoscere che perlopiù i suoi tagli erano motivati: via gli svolazzi e le prolissità, dritto al punto come faceva lui negli anni ottanta e novanta, quando ancora scriveva.

Scriveva bene, Klaus: non aveva studiato oltre il diploma superiore e non leggeva nemmeno tanto, però aveva lessico variegato e sintassi fluida, a esaltare concisione e arguzia tipicamente toscane.

Nelle recensioni principali non si distaccava molto dal modello track-by-track, ma lo nobilitava con descrizioni precise ed evocative, tanto che da adolescente mi sembrava di aver già ascoltato Master Of The Rings o Handful Of Rain prima ancora di trovarli nei negozi.

Mi sentivo privilegiato ad aver già conosciuto di persona, credo intorno al ’92, quel nome esotico protagonista delle riviste che in quegli anni stavo iniziando a collezionare. Dopo il primo incontro in compagnia di Stefano Giusti nel leggendario studiolo domestico di Klaus, per tutto il decennio frequentai i negozi di dischi viareggini in cui lavorava quel tizio biondo e paffutello dall’indole un po’ burbera ma raramente avaro di consigli e di sorrisi, finché a cavallo del millennio mi diede l’occasione di iniziare a scrivere.

Peccato che proprio nello stesso periodo avesse smesso lui, di scrivere, preda di una crisi di rigetto per il genere che mai si risolse del tutto.

Quindi il ruolo di Klaus nella storia del metal italiano si esaurisce intorno ai suoi quarant’anni? Non proprio, perché il genio autarchico e artigiano con il quale compilava ogni mese il suo “Flash” (ben descritto dal Fuzz in Shocking Metal) restò operativo sino all’ultimo numero, e la sopracitata ultima versione della rivista resta un vivace – ancorché folle e un po’ confuso – tentativo di uscire dalla mortifera routine interviste-recensioni.

Klaus ne andava ancora molto fiero, soprattutto sul piano grafico. Ne parlava poche settimane fa in un post su facebook commentato con grande affetto da molti suoi ex collaboratori, alcuni nel frattempo diventati celebri.

Ma certo il segno maggiore lo ha lasciato il Klaus più militante e belligerante dei primi decenni di attività; dapprima come manager della Strana Officina e firma tra le più riconoscibili del primo e leggendario Metal Shock, poi con la creatura per la quale verrà ricordato: il “Flash” della prima metà degli anni novanta.

Un po’ per fedeltà ai propri gusti, un po’ per intelligente intuizione editoriale, in quegli anni Byron riempì una casella mancante nelle edicole: quella di una rivista fedele alla linea true metal, che in copertina continuava a mettere i Manowar relegando a spazi secondari Nirvana, Ministry e Smashing Pumpkins.

Mentre le altre riviste si aprivano con lodevole curiosità e qualche ingenuità da parvenu alla generazione Lollapalooza, Klaus restava in trincea contro trend e contaminazioni, a polemizzare con Pera e Trombetti, Sorge e Signorelli (ribattezzati Tramonta e Poverelli in uno storico editoriale), salvo poi far venire a sapere che era in buoni rapporti personali con tutti loro – la dialettica finto-aggressiva ma in realtà scherzosa, anche in ambito politico e calcistico, era il suo tratto caratteriale più guascone.

La scelta di campo di quel periodo lo portava anche a sopravvalutare coloro che sentiva dalla propria parte, cioè gruppi progressive-metal quali Ivanhoe, Mind’s Odissey, Glenmore, e certo se uno pensa al ’94 appare storicamente miope anteporre – che so – Material Sanctuary dei Veni Domine al primo dei Korn, eppure quello che ai detrattori dell’epoca pareva un posizionamento di pura retroguardia si è dimostrato non solo necessario, ma a suo modo anche lungimirante. Corsi e ricorsi dei decenni successivi hanno infatti declassato a crisi temporanea l’annunciata morte del metal classico, confermando peraltro l’insufficienza del concetto di superamento in campo artistico.

Il comprensibile senso di rivincita che visse col successo di dischi come Glory To The Brave o Land Of The Free lo portarono infatti a entusiasmarsi sin troppo per l’ascesa del power metal: fu il periodo delle valutazioni fuori scala che non giovarono alla reputazione della rivista, per quanto vada detto che quei dischi di Rhapsody, Labyrinth e Stratovarius nel frattempo siano davvero diventati dei classici.

Ma – come dopo una sbornia metaforica, giacché in quel periodo era astemio – all’esaltazione subentrò ben presto un senso di nausea che lo portò a ritirarsi dall’agone delle recensioni per dedicarsi unicamente al lavoro redazionale.

Tutti i collaboratori passavano settimane a soppesare le scelte per quel piccolo brivido di ego-gratificazione pre-social che erano le top 10 annuali e lui – sublime sprezzatura –  se ne usciva con 1- Oro 2- Argento 3- Bronzo 4- Stronzio. Cinismo e disincanto divennero la sua cifra distintiva, finché a metà anni zero non ritrovò nuove motivazioni e anche un pur limitato ritorno alla musica: apprezzò alcuni singoli dei Placebo, riscoprì il suo vecchio amore Faust’ò, fino alla fine ascoltò i classicissimi Sabbath, Kiss, Maiden, Metallica.

Purtroppo quel periodo coincise con l’inopinata fine, indipendente dalla sua volontà, della sua creatura editoriale. La chiusura di “Flash” fu un brutto trauma per lui anche a livello economico, oltretutto in contemporanea alla crisi post-Napster che portò alla scomparsa dei negozi di dischi.

Uscì da quel difficile periodo personale con la felice scelta di aprire un negozio di abbigliamento rock, sempre col fedele socio e amico Marco Petti. Sempre sul posto di lavoro nel suo Silverado, negli ultimi dodici anni ha accolto con piacere chiunque passasse da Viareggio a parlare dei vecchi tempi.

Si è reso conto di essersi conquistato il posto in una piccola nicchia di storia settoriale?

Non lo so. Il suo toscano disincanto – che forse col tempo è diventato anche il mio – lo ha sempre portato a fare spallucce se posto di fronte alla questione.

Mi disse di aver risposto alle domande che gli furono rivolte in occasione di Shocking Metal, però non inviò mai la mail. Ma quando accompagnai Ceccamea a parlare con lui fu molto aperto e disponibile.

Credo che in cuor suo sapesse di aver lasciato una traccia significativa. Credo che sarebbe felice di leggere le dimostrazioni di affetto che gli stanno arrivando in queste ore. Ma io non sono tipo da finire le commemorazioni immaginando che qualcuno legga da lassù.

Penso anzi che Klaus mi avrebbe tagliato questo pezzo di almeno metà dei caratteri. Per questo, come per tutto il resto, avrei tanto voluto avere l’occasione di ringraziarlo.