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Quando gli Aerosmith finirono nel mondo degli specchi – Speciale su Done With Mirrors

“Pensavamo, adesso facciamo uscire Done With Mirrors e torniamo grandi come una volta. Poi il disco uscì e capimmo che non sarebbe successo” Steven Tyler (o Joe Perry, uno dei due l’ha detto, lo giuro)

Ehi cazzo, è la prima volta che parliamo di Aerosmith su Sdangher, mi sa. Sì, dovrebbe esserci un pezzo su Steven Tyler caduto dalla vasca ma non so più nemmeno se è rimasto in archivio. Di sicuro non abbiamo mai scritto sulla musica degli Aerosmith e cominciamo con uno dei momenti più controversi della loro storia, come è tradizione della nostra stalla rumorosa.

Nella rete è tutto un pianto collettivo su quanto Done With Mirrors sia stato sottovalutato ma bisogna ammetterlo, sì, ha un suo fascino malandrino però è un disco minore.

Minore rispetto a cosa? Ai dischi di grande successo che sono venuti subito dopo (il filotto con Fairbairn, avete presente?)

Lasciamo stare le vendite e badiamo alla qualità?

Ok, anche qui c’è poco da discutere: con i grandi classici del passato come Toys In The Attic e Rocks (ma pure Night In The Ruts) Done With Mirrors davvero non può competere. Forse l’unico pezzo che riesca a fare i conti con i vecchi tempi è il singolo Let’s The Music Do The Talkin’, ma il fatto che sia riciclato dal primo disco della Joe Perry Project band la dice lunghissima sullo stato di salute creativa degli Aerosmith nel 1985, o no?.

Cazzo, persino l’album senza Perry e Withford è meglio di Done With Mirrors. Quello sì che è un lavoro ingiustamente sottovalutato. (Rock in a Hard Place, esatto).

Wikipedia dice… (non fate quella faccia, tutti usiamo per i nostri articoli le minchiate di Wikipedia, bisogna vedere come). Wikipedia dice che al tempo la critica si esaltò per il ritorno degli Aerosmith in studio. Non so provarlo ma persino su un vecchio Metal Shock!, Heintz Zaccagnini scrive che quel disco è ottimo, (lo sostiene nel 1988, tre anni dopo la sua uscita, successivamente quindi al miracoloso matrimonio officiato da Rubin con i Rm DMC e il pluridecorato Permanent Vacation, di cui Zaccagnini parla anche meglio, sia chiaro).

Per Heintz. Done With Mirrors era fico perché mostrava “palle rock and roll che gente come Poison e Motley Crue, giudicati gli eredi degli Aerosmith, non possedevano proprio”.

Anche io, Padrecavallo, direi che l’album sprizzi quel fascino puzzone e impresentabile, innegabilmente loser del vero rock che se ne frega e piscia sulle scarpe di Beau Hill.

Qualcuno langue sostenendo addirittura che si tratti dell’ultima testimonianza di quanto “menavano” gli Aerosmith veri, quelli degli anni 70, prima della rigenerazione bombastica e la promozione alla selettivissima riserva rock della MTV anni 90.

Un fondo di verità c’è, dai. A sentirlo ora, Done With Mirrors, io ci trovo molta coc… ruvidezza e sregolatezza chimica, ecco.

Il problema degli Aerosmith fu lo stesso di Alice Cooper, le droghe li mandarono fuori gioco e persero qualche appuntamento con le classifiche. Quando si ripulirono ecco che il mondo era cambiato da così a così. Si ritrovarono a dover cominciare quasi da capo, nel mezzo di una scena heavy commerciale che gli doveva molto (sia gli Aero che Alice) ma con un pubblico di pischelli che si scaldava le palle al suono dei Poison e dei Ratt e non sapeva chi diavolo fossero quei tipi degli anni 70.

Alice Cooper interpretò i tempi in modo abbastanza efficace, ma gli ci vollero comunque tre dischi per arrivare a “tradurre” finalmente al pubblico nuovo le prodezze del passato. Bad Of Nails è un hamburger sintetico della vecchia carne. Alice cercò pure di creare un equivalente dei suoi concept malsani ma, tolto il tentativo abbastanza timido nella seconda facciata di Rise Your Fist And Yell, dovette aspettare il 1994 per osare davvero ai livelli di Welcome To My Nightmare o Alice Cooper Goes To Hell. Per le sue robe più malate, la decade delle trasgressioni liofilizzate non poteva accettare qualcosa come I Love The Dead.

Il massimo della necrofilia che si potesse fare in cima alle classifiche degli anni 80 era stato il video di Thriller. Dai, tutti insieme, balliamo con gli zombie. Avete notato come negli anni 80 finisse sempre a balli e taralli? E nemmeno i 90s, con la necrofilia condensata e stipata nel reparto death metal e lontanissima dal bancone generalista del grande rock, le cose furono tanto meglio. Solo dal 2000 la necrofilia rock è divenuta la misura ufficiale di tutto quello che è davvero cool and respect!

Ma tornando a Done With Mirrors, come la mettiamo se vi dico che persino gli Aerosmith lo considerano robetta? Per Joe Perry è senza dubbio il loro disco peggiore. Steven Tyler neanche si spreca a commentarlo. So che nel 1985, alla presentazione, l’etichetta organizzò una festa che finì in un imbarazzato mortorio. Tutti erano sicuri al duecento per cento (tranne MTV) che gli Aerosmith riformati fossero destinati a incidere un grandissimo successo. Si aspettavano un rientro da paura e invece… “Ehm, si è fatto tardi, ragazzi. Bello riavervi con noi. Alla prossima!”

Gli invitati non sapevano come mascherare il disagio dopo che canzoni come Shena o Gypsy Boots erano passate nel grosso impianto stereo a ripetizione.

Ok, ascoltando e riascoltando Done With Mirrors ho finito per farmene una passione, ma sapete cosa, io adoro i dischi fallimentari e mi tengo istintivamente alla larga dalle stagioni felici, specie con i nomi grossi. Diciamo che questo album, come scrive non ricordo chi, fallì solo nel tentativo di avvicinare le nuove generazioni del rock metal alla band, ma non danneggiò gli Aerosmith: il vecchio pubblico ancora in fissa con loro, accorse in gran numero ai concerti, si gustò il rientro del gruppo e la riproposizione dei vecchi classici come Sweet Emotion o Dream On.

Insomma, immagino che Done With Mirrors sia un album da convalescenza pura. Solo un anno prima Alice Cooper e Joe Perry avevano tentato di scrivere qualche canzone insieme senza riuscirci. Le gambe tremavano a entrambi, non riuscivano a stare in piedi, erano così deboli per i postumi della disintossicazione che finirono per rinunciarci.

Poco tempo dopo, Steven Tyler e Joe si erano chiusi in studio con Rick Rubin. Speravano di tirar giù una canzone insieme a lui. Non avevano idee ma erano sicuri che bastasse attaccare la spina, scolarsi qualche birra e aspettare che la magia “accadesse”.

I due ricordano ancora il momento prima di vedersi con Rubin, quando si fermarono in un negozio di alcolici per comprare qualche bottiglia. Poi è un buco nero fino al risveglio del giorno dopo. Tornarono in studio per sentire cosa avevano creato e si accorsero che era una tale merda, una cosa tanto schifosa da non poterne salvare una nota. Da lì capirono che dovevano smetterla di buttar giù alcolici, perché prima era vero, loro si distruggevano ma le canzoni buone continuavano a uscire. Nei primi anni 80 invece si trovavano a un livello tale di intossicamento che anche la creatività era andata affanculo.

Done With Mirrors non fu il disco realizzato da “puliti”. Diciamo che fu il disco in cui gli Aerosmith cominciarono a ripulirsi.  In quelle condizioni però non si poteva pretendere che facessero miracoli.

Dentro ci ho trovato attitudine pura ma quasi nulla che al tempo fosse adatto per i fan dei Motley Crue. Si sente che c’è un’energia sanguigna, ruvida. Ted Templeman non era l’ultimo degli stronzi. Aveva prodotto i Van Halen, i Montrose. C’era lui dietro 1984, ma se si guarda la sua carriera dal 1985 in poi, non è che abbia combinato più questo granché, a parte il grandissimo Roth solista di Eat’ Em And Smile, i Bulletboys, Atomic Playboys di Steve Stevens.

Templeman cercò di restituire gli Aerosmith al mondo nel modo più discolo e virulento, dando la stura alle chitarre ma qualcosa non andò granché bene. A sua discolpa ha poi raccontato di aver registrato il disco a Berkeley, California e non dove era abituato a lavorare. Questo per via delle dipendenze della band. Era tassativo tenerli alla larga da L.A. e San Francisco. Registrare lì non fu  il massimo per nessuno e pure il produttore ammette che avrebbe potuto rendere meglio la batteria.

Beh, vero, mettetela a confronto con quella di Permanent Vacation. I ritmi di Kramer sono sempre gli stessi, solo che nel primo caso sembra che qualcuno stia tirando giù un muro a picconate e nel secondo è Godzilla che vi cammina sulla casa.

Insomma, la colpa di Done With Mirrors, è una crudezza che negli anni 80 si rifuggiva come il piscio di gatto,  completamente fuori tempo, mentre un decennio dopo, tutti sarebbero tornati a cercare il realismo; persino i Ratt, che non l’avevano mai avuta ai loro tempi migliori.

In quegli anni le produzioni erano elaborate, ricchissime e molto lunghe. Done With Mirrors invece sembrava scritto troppo di corsa. Come mai questa fretta?

Forse paura di restare troppo a lungo in uno studio a cercare di tirar fuori dei pezzi nuovi. Kramer una volta ha ammesso che il gruppo, quel disco non l’ha praticamente mai finito davvero. Templeman e il tecnico del suono Jeff Hendrickson optarono per “catturare” il gruppo, farlo suonare e suonare e registrarlo a sorpresa, senza avvertire.

Questa tecnica mirava a beccare il sound puro del gruppo, yeah?

No, era un espediente penoso per liberare gli Aerosmith da una tensione nervosa quasi ingestibile. In fondo Done With Mirrors venne fuori come poté. Il gruppo entrò in studio ai primi di luglio con una manciata di riff e ne uscì ad Agosto con l’ottavo album della propria carriera. Che arrivò nei negozi a Novembre. Vendette quattrocentomila copie. Centomila in meno di Rock In A Hard Place. Diversi milioni di copie sotto Toys In The Attic.

Qualche anno più tardi, Steven Tyler, durante un’intervista disse questa cosa: Let The Music Do The Talking è il tipo di brano che rappresenta davvero gli Aerosmith, quella è la musica che amo davvero fare.

L’intervistatore allora gli fece notare perché non suonasse solo quel genere di canzoni e lui rispose che pubblicarono il pezzo e ci fecero anche un video ma non vendette nulla, allora il gruppo si rivolse agli stregoni e i produttori giusti per realizzare quel genere di hit pop in grado di far vendere i dischi.

In pratica album come Permanent Vacation o Pump hanno quelle quattro o cinque canzoni fatte apposta per i soldi e il gruppo si accontenta delle restanti quattro o cinque per realizzare ciò che davvero ama. Ergo, la musica genuina degli Aerosmith è ciò che succede tra una hit e l’altra, almeno negli anni 80.

Siete ancora qui a leggere? Ma per quale cacchio di motivo? Siete dei disperati come me, eh? Bene. Se non ne avete abbastanza, vediamo un po’ insieme, in dettaglio, qualche canzone di Done With Mirrors.

Shame On You è un rifacimento dei Led Zeppelin un po’ più spinto per i tempi e la “grezzata” del testo è una roba che probabilmente su MTV non sarebbe mai passata.

Tua sorella maggiore

È molto simile a te

Le piace prendere il mio microfono

Ora non c’è molto che non farà

Soprattutto quando siamo soli

Microfono cazzo, capito la sottile metafora?

Ma sì, che avete capito.

Shela è, come dice un tizio su you tube, una delle tante inimmaginabili donne oscure che emergono nel backstage di una grande band e si prendono il loro boccone di storia biologica. Forse dovremmo offrire un minuto di silenzio a tutte le pussy misteriose, sballate, spaccate e probabilmente morte male che hanno attraversato la strada del rock and roll passando dalle mutande sudate degli Aerosmith. Musicalmente somiglia a Fist Like A Glove dei Kiss, su Lick It Up. Quando le idee si incarnano insistentemente in canzoni dal destino sfigato.

Shela, molto stretto

Shela, è vero

Shela

The Hop invece è un guanto di sfida ai Crue, almeno a parole. Sentite qui.

Perché i ragazzi stanno prendendo tutti a calci in culo

I miei vecchi tacchi degli stivali fumano

Devi davvero capire

Stanotte bruceremo la città

Quando la nuova merda finisce nel ventilatore

Darkness è il pezzo che preferisco, il solo in cui si smetta di cantare smargiassate e sconcezze libidiche e si provi a descrivere la madre nera che ha cullato i due gemelli tossici nel corso di quegli anni passati ad ammazzarsi, sedotti dall’oscurità, così sexy, dolce, luminosa e vorace. Non mi stupisce che nella versione in vinile non sia mai uscito e abbia trovato spazio solo quando editarono l’album in cassetta e CD.

“Prega per me se muoio prima di svegliarmi”