netturbino

Un netturbino al tempo del Covid

Cari sdangheri, è un po’ che non vi scrivo. Sì, certo, ho pubblicato articoli monografici (presto ne arriveranno altri due, uno su Pink Cream 69 e uno sugli Helloween post Kiske) più qualche altra cosetta riflessiva e invettiva, ma un bel domenicale era da tempo che non lo buttavo fuori. Sono mesi e mesi, davvero. Più o meno dal primo lockdown. Probabilmente ho accusato il colpo. In questo blog abbiamo sempre tenuto un alto tasso di biografismo, con momenti di confessioni incresciose e imbarazzanti (per voi lettori, io non mi pento mai di scrivere con sincerità).

Però, la faccenda Covid ha cambiato tutto. Scrivere di come trascorrevo il tempo chiuso in casa, mentre tutti non facevano altro che raccontarsi la stessa identica situazione, ha presto saturato il mercato dell’attenzione. Prima io avevo la mia vita e voi la vostra. Tutti quanti con i nostri problemi: soldi, lavoro, amori, ma in generale c’erano parecchie differenze, no?

Di colpo ci siamo trovati tutti nella stessa merda. Seduti al PC, mangiando troppo, pensando alla morte, all’Inps e ancora alla morte.
Ora ci troviamo più o meno nella stessa situazione. Ci sono piccole differenze: per dire, qui la scuola è aperta e a Montefiascone, dove le mie bimbe si sono trasferite con la madre, è chiusa; Nel Lazio è zona gialla e in molte altre regioni è rossa… Se però vi parlo è per dirvi che io, al netto dei morti intorno a me, dell’ossessione giornalistica sui positivi, i negazionisti e l’infodemia generale da Covid, sto passando uno dei momenti più belli della mia vita.

Per cominciare ho trovato lavoro. Si tratta di un contratto a tempo determinato ma l’azienda è seria, paga e tratta i dipendenti con rispetto. Di che impiego si tratta? Uno dei mestieri preferiti dai bambini: il netturbino. Il tipico lavoro che finisce per fare chi non ha dato retta alla mamma e non ha studiato abbastanza, ma oggi, pure con diplomi e lauree, devi raccomandarti a qualche santo per stare col culo sulla mia sedia, gente. Poche chiacchiere.

C’è di più. Pulire le strade del mio paese a me piace. Esatto, il mio paese, che significa: io esco dal letto e sono al lavoro, niente levatacce alle tre, tirate in macchina di 40 minuti o mezzi pubblici di sorta. Ce l’ho sotto casa, cazzo. Faccio dieci chilometri al giorno ma a piedi. Osservo, rifletto, immagino e intanto scopo.

Lo so, è un impiego che offre mi offre più doppi sensi per le occasioni conviviali di quando ero alle pompe funebri, ma non voglio infierire con le stronza. Vi dico solo che sono pagato per scopare in giro, ok?

Ovviamente tutta questa strada a piedi, i movimenti continui delle braccia per spingere quintali e quintali di foglie dentro i secchi del mio carretto mi sta facendo bene al corpo. Ho riguadagnato la forma fisica di prima del lockdown di marzo. Avevo preso un sacco di chili a forza di pizza e dormite. Durante l’estate, tornare in palestra non mi stava dando i risultati sperati. Oggi, dopo un mese di questa routine randagia e scopereccia, mi guardo e mi trovo davvero in forma.

Ok, raccolgo le schifezze che gli altri lasciano in giro, ma mi sento bene a farlo. Non giudico chi sporca, alla fine è grazie a quelli che buttano in strada pacchetti vuoti, scontrini, bucce di banana, sacchetti con i resti del McDonald, bibite Redbull (chi beve Redbull inquina di più! Si potrebbe fare uno spot diffamatorio con questo slogan), preservativi nei posti più incredibili, gatti morti, cacche umane nei posti più incredibili… insomma, grazie a questi irrispettosi e vili attentatori della salute pubblica IO lavoro.

Certo, vado anche con il camion, aiuto l’autista a tirar dentro l’indifferenziata nel tritacadaveri lì dietro, ma stare per strada mi piace di più, anche se ho provato l’ebbrezza di rimanere aggrappato dietro il mastodonte, con un pullmino di bimbi che mi salutava ammirato.

La mia figlia più grande ammette una certa difficoltà nel dover dire ai suoi nuovi compagni di classe cosa io faccia per vivere, specie dopo che alcuni di quelli hanno già trovato online la mia foto da prete e quelle a petto nudo con la maschera da cavallo e soprattutto dopo che le ho ordinato la metà dei testi scolastici sbagliati – era la prima volta che lo facevo e ho combinato un casino non degno di me che pubblico libri, sono pure stato bibliotecario e i codici isbn me li mangiavo a colazione.

Si tratta del primo impiego che migliora il mio umore. Che ci crediate o no è così. Inizio alle cinque tutte le mattine e sebbene mi piaccia svegliarmi presto e uscire in strada quando ancora è tutto deserto e buio, non tutti i giorni sono così smanioso di lasciare il letto. Alcune mattine mi è successo di iniziare il turno con un gran senso di vuoto e di tristezza e di finirlo sereno e soddisfatto. Io credo accada a chi faccia un lavoro che è tagliato per fare.

Nei miei anni di studi e sedute dallo psicoterapeuta a causa della mia depressione, ho capito una cosa: ci si ammala l’anima quando avviene uno scollegamento tra ciò che si è e ciò che si fa. Se siete sposati alla donna sbagliata e fingete che sia tutto ok, vi ammalerete dentro. Se avete amici del cazzo, vi sentirete tremendamente soli e in colpa con tutto. Se avete un lavoro che non capite, dove oltretutto vi sfruttano e pagano male, ecco la depressione.

Se invece l’amore, l’affetto e l’impegno sono rivolti a ciò che capite, in cui credete e che sentite in armonia con voi e la vostra vita, ecco che può solo aiutarvi a stare meglio e vivere abbastanza sereni. Nei limiti, la vita è dura sempre.

Vi sembra poco?

Credetemi, da quando ho perso l’impiego al laboratorio analisi, dopo dieci anni, ho patito davvero di brutto. Ho avuto posti dove la paga era un evento tutt’altro che scontato, la sicurezza sul lavoro una barzelletta che non fa ridere e la dignità umana un ippogrifo. Ora sono tornato in un contesto umano. Non so quanto durerà, faccio in modo che sia il più a lungo possibile, ma non importa. Mi godo questa situazione che non speravo più di vivere.

Durante i cinque anni di impieghi sacrificali, disoccupazione non pagata, umiliazioni e crisi psicosomatiche (verruche, molluschi contagiosi, infiammazioni genitali, autolesionismo e crisi rabbiose incontrollate), stavo oltretutto gestendo una crisi coniugale iniziata un anno dopo aver perduto il mio vecchio impiego al laboratorio. Ora sto uscendo anche da quella. Finalmente si sblocca una volta per tutte la pratica per la separazione.

Mentre archivio la mia importante storia con Mara, ne sto vivendo una nuova con Shara.

L’amore al tempo del Covid è meraviglioso lo stesso.

Vivo con una ragazza dolce, appagante, carina. Abbiamo quattro figlie in due e questo ci costringe a brevi separazioni ma un giorno, quando potremo permetterci una casa grande, saremo come quelle famiglie delle commedie americane con le risate finte.

Di risate ce ne facciamo parecchie e litighiamo poco. Io ho avuto esperienze molto più turbinose, credevo che i rapporti di coppia dovessero inevitabilmente essere scanditi da baruffe e conflitti. Mi sbagliavo. Non è sempre così.

Non sto dicendo che il vero amore è comprensione, armonia e niente piatti rotti. Dico solo che questo amore con Shara è così. A volte discutiamo, ovviamente, ma non ci sono attriti frequenti. Ci prendiamo molto sportivamente. Credo che le cose siano migliori perché io ho lavorato un casino sulle mie difficoltà personali e ora raccolgo i frutti e inoltre perché Lei mi guarda come avrei voluto che mi guardasse mia madre quando ero piccolo e facevo qualcosa che mi rendeva orgoglioso, tipo tirare le pentole giù dal balcone in testa al vicino. Questo è ciò che ho concluso dopo una lunga riflessione al chiaro di luna. Shara è lo sguardo materno affettuoso e privo di dubbi che mi è sempre mancato. Se avete una mamma che vi adora ma vi osserva come se foste un cavallo a tre gambe in un mondo di purosangue, trasmettendo su di voi la propria insicurezza personale, finite per sentirvi inadeguati, è quasi certo. Se invece avete una mamma che canta inni alla gioia ogni volta che fate la cacca sulla tazza e non nei pantaloni diventate Gene Simmons, ma io vorrei aver avuto una via di mezzo. Ecco, quella via di mezzo è lo sguardo della mia Shara.

Lavoro, amore… che altro?

Le figlie? Stanno bene. Vivono in un altro comune a 40 minuti da qui. Le vedo solo il fine settimana, anche se adesso le scuole lì sono chiuse e con Mara abbiamo ripreso a tenerle una settimana per uno. Mi fa molto soffrire saperle in un altro paese dove non conosco nessuno e non abito anche io, ma accetto le conseguenze delle mie scelte. Punto. Non vi dico che tra me e loro sia tutto liscio ma conoscete qualche genitore che possa affermare una cosa del genere?

La scrittura. Ovviamente sono sempre coinvolto da Sdangher ma ho anche un romanzo nuovo su cui spaccarmi il cuore e le dita. Di cosa tratta? Vi frega proprio? Beh, diciamo che affronta la questione del talento. Ogni artista scopre di averne abbastanza per cominciare il proprio calvario creativo ma non sa mai se ne avrà abbastanza per arrivare fino in fondo alla meta, che solitamente siamo educati a considerare come successo economico. Il mio personaggio compie scelte difficili sull’amore e la famiglia, sacrifica tutto all’arte, ma a un certo punto scopre quanto sia dura e per certi versi folle, una scelta del genere. Tutto questo senza mai essere certo di avere quel fottuto talento in misura sufficiente a realizzare ciò che ancora il cervello neanche gli ha rivelato del tutto. Ecco, di cosa parla il mio prossimo libro. Di questo e molto altro. Come dico di solito, se potessi fare una sintesi soddisfacente in cinque righe di un libro che ho impiegato 300 pagine a scrivere, non ci avrei messo 300 pagine ma cinque righe.

Sul fronte saggistica sono un po’ fermo, per ora. Del resto non è che gli editori indipendenti muoiono come vampiri al sole e non esiste un mercato per un testo sul metallo finnico, la biografia dei Gwar, Il cinema di Arrabàl o un madrigale sull’incesto matriarcale in celluloide. La mia Enciclopedia degli scrittori suicidi resta ancora inedita, purtroppo. Forse è meglio per tutti. Ora ho un altro blog dedicato al cinema e la letteratura. Si chiama Quellascuolaaccantoalcimitero e si ispira al film che girarono I ragazzi della terza C in quell’episodio che omaggiava il cinema dell’orrore alla Fulci. Adoro l’header che mi ha fatto Ruggiero, con Bruno Sacchi che mangia uno sfilatino nella casa del dottor Freudstein. Se non sapete cosa fare, venitemi a trovare anche lì, altrimenti fottetevi. Ah, sì, per il cartaceo collaboro con Nocturno e la rivista di letteratura fantastica Hypnos.

Per quanto riguarda la musica in edicola ho litigato con tutti e non mi vuole più nessuno. Ormai sono un tipo scomodo, inviso ai discografici, i promoter e persino molte webzine. Mi chiedo come mai? Io non ho fatto nulla a parte scrivere qui su Sdangher sempre cosa penso.

Spero tanto di tornare a scrivere per il Fuzz. Non è un segreto, lui lo sa. Sapete che ha avuto il Covid e se l’è vista brutta? Davvero brutta, cazzo. Questa cosa mi ha fatto soffrire più di quanto mi potessi aspettare. Ho realizzato che nonostante alcuni forti dissapori tra me e lui, io gli voglio bene e ho bisogno di saperlo vivo e in salute. Ho bisogno di questo e di tornare a scrivere per lui. Vorrei far parte di nuovo della sua cricca. Se non succede pazienza. Anche qui, affronto le conseguenze delle mie scelte. Ho sempre Sdangher, che è seguito e amato da molti più equinidi di quanti pensassi.

Con il blog continueremo a darci dentro, realizzando meno articoli e lavorando sulla qualità. Non mi interessa giocare alla redazione, fare i giornalisti da due soldi e cose così. Non cercheremo più di stare sul pezzo. I click non ci interessano. Che lo crediate o no, sono circa otto mesi che non guardo le statistiche e non ho la minima intenzione di farlo. So che ci siete e ci seguite, questo mi basta.

Siamo solo dei cavalli pazzi che amano il metal e la pornografia, riflettono sull’esistenza e sulla crisi della nostra biada preferita, ogni tanto lasciamo partire qualche calcione, quindi attenti a mettervi dietro di noi, qualsiasi sia la vostra intenzione.

Non scriveremo troppo come facevamo una volta ma comunicheremo ancora tanto, con dei nuovi domenicali e qualche bell’editoriale rompicoglioni dei nostri, quando capita.

Capite, quindi? Mentre là fuori millemila morti si affastellano sulla scrivania di Conte e soprattutto nelle corsie degli ospedali, mentre ci sono gli scontri in piazza e il Governo minaccia addirittura di vietarci il Natale, io me la sto spassando. Ho tutto, la salute, il lavoro, il talento. Con un po’ di fortuna magari lo metto pure in culo al Covid.

I lavori all’aperto sono statisticamente più sicuri in questo periodo, anche se la pioggia di sei ore che ho preso venerdì non è stata una panacea. Prendo molte vitamine, però. Io speriamo che me la chiavo.

Se così non va, dedico questo editoriale al giornalista che scriverà l’articolo sulla mia morte.

Vedo già il titolo. Netturbino scrittore muore di Covid. Sul suo blog scriveva di verruche e felicità coniugale. Lascia due figlie, una stalla, una compagna, una ex moglie e soprattutto un lavoro a tempo determinato. Gli piaceva scopare. In tutti i sensi.