La monnezza che abbiamo dentro possiamo spazzarla solo da noi!

Passavano al mattino presto. La luce arancione a intermittenza si rifletteva sul soffitto della sua camera più o meno quando si svegliava, e lui rimaneva disteso sul letto ad ascoltare il frastuono dei rifiuti che venivano compattati. A volte, si alzava per andare alla finestra a osservare i netturbini con le loro tute che, con un gesto reso semplice dall’abitudine, gettavano il sacco dentro al camion e spingevano il pulsante. Le ganasce del camion si apriano e si chiudevano, i netturbini saltavano sul predellino e il camion si muoveva in direzione del portone successivo. Ogni volta che li osservava Oskar provava una sensazione di calore. Si sentiva al sicuro nella sua camera perché le cose funzionavano.  (Tratto da Lasciami entrare di John Ajvide Lindqvist, Marsilio Editore)

Mi permetto di cominciare questo post domenicale con una citazione che esprime al meglio quello che è la nettezza urbana per la maggioranza di noi: la prova che le cose funzionano. Anche io mi sono svegliato spesso la mattina presto, sentendo il rumore del grosso camion. Per non parlare delle buie mattine in cui partivo da casa per andare al lavoro: mi faceva stare proprio bene vedere gli uomini in divisa arancione, che si aggiravano lungo i marciapiedi o nelle piazze deserte, con le grosse scope di saggina e i carrettini.

Abbiamo bisogno di qualcuno che porti via le nostre schifezze. Ora che anche io sono uno di loro però, capisco anche un’altra cosa. La mia riflessione nasce dal dover constatare quanto sia assurda, selvaggia e un po’ spaventosa la vita del mio innocuo paese, durante le ore in cui non c’è nessuno in giro a pulire.

Al mattino presto trovo bottiglie di alcolici e birre nei posti più inaspettati. Addirittura c’è gente che lascia i bicchieri di vetro servitigli in qualche bar, a chilometri di distanza. Mi vengono in mente questi tipo con lo stelo del calice del Martini tra le dita, che si aggirano per le vie, senza preoccuparsi di dover riconsegnare il vuoto sul bancone da cui l’anno preso. Lo lasciano sul muro di una casa e proseguono la loro passeggiata cianciante con amici altrettanto ciucchi.

Raccolgo preservativi usati negli androni, nei sottopassaggi, nei parcheggi o davanti ai supermercati. Trovo schizzi di cacca umana davanti ai portoni, sotto gli archetti delle cantine, alla fermata dell’autobus o dentro una vecchia cabina della Sip.

Mi metto a fantasticare su questo folle piccolo mondo che pensavo di conoscere bene, un luogo dove vivere tranquillo, e che invece è infestato da ubriachi e incontinenti, arrapati e vandali di vario genere.

Già, i vandali, la quarta categoria del caos strisciante. Ormai riconosco le intenzioni dietro un rifiuto lasciato in terra o su un muretto. Spesso c’è un distratto, un pigro e uno sbadato, ma sovente riconosco una intenzione deliberatamente cattiva e sprezzante.

C’è chi ha piacere a lasciare in terra lattine (vanno per la maggiore tra gli inquinatori, i consumatori di bevande energetiche) o bucce di banane sulle scale di qualche domicilio privato; c’è chi strappa in così tanti piccoli pezzi i gratta e vinci, che in quel gesto posso avvertire tutta la frustrazione dei soldi buttati ancora una volta.

Raccolgo tutta l’immondizia che trovo ma spesso ho come l’impressione di lottare contro un oceano che invade e che odia il mondo in cui vivo, che se ne infischia di tutto e si sfoga gettando ovunque i propri escrementi.

Non giudico anche se a fatica. Pure a me è capitato di lanciare dal finestrino un CD dei Dream Theater. Non mi sono certo preoccupato del fazzoletto di terra che poi se lo sarebbe dovuto sorbire in 400 anni; tantomeno del povero netturbino costretto a raccogliere i pezzi di plastica sparsi ovunque dopo l’impatto violentissimo al suolo.

La monnezza è tabù. Io faccio parte del tabù. Le persone di solito mi passano attraverso. Faccio mucchi di foglie e rifiuti da raccoglie e le persone passano senza badare a dove mettono i piedi. Quando lo facevo io a casa, mia madre mi dava una scopata in testa per richiamare la mia attenzione o infondermi un po’ di rispetto per lei.

Non posso fare lo stesso. Molti guardano attraverso di me, specie quando raccolgo gattini morti in strada o uccelli in decomposizione davanti alla porta della loro casa. Un tipo mi ha chiamato dalla finestra per dirmi che il piccione stecchito sull’asfalto vicino al suo ingresso sono due settimane che è lì. Mi sono chiesto perché non l’abbia tolto lui. Ha preferito attendere due settimane e assistere alle fasi della decomposizione, magari sentendone l’odore, invece di pigliare una scopa e una busta e levarlo da torno.

L’immondizia è prodotta dalle stesse persone che poi la sopportano a stento. Vengono a dirmi di pulire meglio la loro via perché pagano le tasse e devo pulire la merda che producono. Io sorrido e mi affretto a ubbidire.

Discuterne sarebbe un errore. Negano a se stessi il paradosso che i primi con cui dovrebbero lamentarsi per la sozzura accumulata sono loro stessi.

La monnezza fuori la pulisco io, ci mancherebbe. Quella dentro, però…

L’immondizia possiamo considerarla come un concetto unico, pressurizzato dentro i grossi camion ruggenti delle sei di mattina. Possiamo anche pensarla come malattia o sintomo di profondo disagio. Come i tizi che ne accumulano a quintali nella propria casa dopo che la loro moglie è morta. Possiamo pensarla come perversione. C’è chi adora fare il bagno nudo nei cassonetti e mangiarla. La cosa che secondo me racchiude l’essenza del tabù dei rifiuti è che sovente testimoniano la nostra aberrazione nei confronti della vita civile, del rispetto delle regole e della tolleranza reciproca. La nostra rivoltosa pazzia all’ordine delle cose.

Certo, più che altro raccolgo carte di caramelle (goleadòr, per lo più) merendine kinder e sneak vari, bibite dolci e gassate, quindi penso ai ragazzini maleducati e trascurati che se ne infischiano delle ansie adulte per il futuro dei propri figli. Raccolgo mascherine cadute dalle macchine o le tasche e i guanti di plastica volati dai carrelli della spesa per il vento, ma…

Ma ci sono rifiuti che raccontano odio, rabbia e crudeltà, frustrazione verso gli altri e soprattutto verso se stessi. Se ti scoli una bottiglia di vodka alle cinque del pomeriggio, difficilmente baderai a dove getti le cicche e soprattutto a dove lasci la bottiglia dopo che hai finito. Ma perché ti sei ridotto a scolar vodka alle cinque del pomeriggio?

La figura del netturbino è una sorta di custode e di censore: nasconde, maschera, porta via i segni della bruttezza umana, nei comportamenti, i gesti della propria routine giornaliera e nottambula. Purtroppo il cassonetto interno è sempre pieno da scoppiare e questo porta molta gente a lanciare i rifiuti dove non potrebbero proprio essere. Il loro è un grido d’aiuto, secondo me.

Scrivo tutto ciò per dire che il mio nuovo lavoro, a differenza di quando vestivo e seppellivo i morti, lavavo panni di malati terminali, scrivevo le analisi del sangue o distribuivo carne rossa nei negozi e nelle macellerie, è quello che mi sta avvicinando più di tutti al sottile confine tra follia e normalità, salute e vizio, amore e odio, speranza e apocalisse.

Nelle stesse facce assonnate che di prima mattina mi salutano bofonchiando “buongiorno” mentre portano il cane a passeggio, tenendo in una mano il guinzaglio e nell’altro il sacchettino di feci, si possono nascondere quegli stessi disadattati e malevoli scemi che si accucciano davanti casa del vicino e scacazzano tutta la propria rabbiosa disperazione intestinale.