posto fisso

Dal Folkstudio a Dylan Dog, generazioni a confronto sul posto fisso

Ciao sdangheri, spero stiate passando una domenica decente, anche se la situazione ormai è talmente depressiva che persino la prospettiva di mangiare la pizza non basta più a farci passare il nervoso.

Nei giorni scorsi stavo ascoltando il primo disco di Edoardo De Angelis (realizzato in coppia con Stenlio) Il paese dove nascono i limoni. A un certo punto i due attaccano una cover del celebre pezzo di Venditti Sora Rosa.

Sapete, quando arriva la parte in cui dice:
Me ne vojo annà da sto paese marcio,
Che cià li bbuchi ar posto der cervello,
Che vò magnà dull’ossa de chi soffre,
Che pensa solo ar posto che po’ perde

Ecco, quando ho sentito l’ultimo di questi versi io ho trasalito (ma potrei anche dire sono trasalito, eh).

Poi ieri stavo ascoltando il primo album dei Grosso Autunno (1976) e a un certo punto Luciano Ceri canta, in un brano che si intitola Foschia di pioggia:

Non ho scarpe per tornare in fabbrica
A vendere l’anima
Di nuovo ho avuto un trasalimento. Stiamo parlando della prima metà degli anni 70 dello scorso secolo, quando c’era una rabbiosa contestazione giovanile verso ogni genere di istituzione: dal matrimonio alla proprietà privata, dalla Chiesa al concetto bistrattatissimo di posto fisso.

In molti dischi italiani di quegli anni (influenzati da quelli stranieri di allora, ovvio) si parla spesso di andare via, di fuggire verso mondi nuovi, cercando alternative a un sistema che, grazie alle sicurezze illusorie che ti offriva, mirava a tarpare le ali a poeti, innamorati e idealisti. C’era un costante bisogno di parlare di rivoluzione. Farla era un altro discorso, ma intanto parlarne.

Io voglio solo riflettere su quanto oggi sia per me importante avere un misero posto fisso e su come non senta alcun bisogno di fuggire, volare via, verso l’India o altre mete esotiche e dal voltaggio spirituale spintissimo. Non vedo nell’impiego sicuro una violazione della mia dignità, una fregatura o una sconfitta. Sono ricattabile? Andatelo a domandare a quei disoccupati che accettano contratti ridicoli per pochi mesi l’anno, in cooperative dove li sfruttano e umiliano.

Ricattabile per cosa? Combattere il potere e le ingiustizie? Beh, diciamo che non credo si possa cambiare niente di questo sistema se non con un martire del livello di Ghandi o Cristo e siccome non credo di essere io colui, né mi sembra di vedere dei facsimili in giro, ho l’impressione che sia impossibile fermare questo sistema orribile che ci governa. Cerco solo di sopravvivere.

Sarà orribile da dire ma è ciò che penso. La mia esperienza di 40 anni mi dimostra che è così.

Ho un contratto di tre mesi e praticamente è quasi scaduto. Forse tornerò disoccupato e questa prospettiva mi atterrisce.

Ricordo che ancora da adolescente, nei primi anni 90, mi capitava di vedere il posto in banca come qualcosa di orribile, mortale quasi. Un mio amico un giorno mi guardò negli occhi e mi disse: “non intendo fare la fine di mio padre, in un ufficio tutta la vita a contare i soldi di qualche riccone”.

Non era Marx o Castaneda a ispirare certi discorsi in me e nei miei amici, ma Tiziano Sclavi. Nei primi numeri di Dylan Dog non si faceva altro che parlare di cosa fosse il VERO orrore o i VERI mostri, indicare le cose più banali come fare la spesa, guardare la TV, i politici, andare in ufficio ogni giorno contrapponendoli a un malinconico vampiro o un patetico freak in un sottoscala.

I veri mostri erano quelli che facevano le cose secondo il sistema, mentre le creature che si nascondevano nell’ombra, i sognatori, i ribelli e i reietti erano angeli pericolanti in un mondo mostruosissimo.

Ho dedicato la mia esistenza alla scrittura: romanzi, articoli, saggi, lettere anonime… Sogno tanto, e credo di potermi salvare buttando giù parole, appresso dai pensieri che condivido con voi.

Ma sono qui che prego più di tutto il rinnovo del mio contratto perché voglio un lavoro, capite?

Voglio i soldi per mangiare, per non pensare al grande casino della sopravvivenza, che è molto peggio del casino della politica che non va e degli abusi di poteri da impedire. Non c’è scrittura senza cibo, non c’è sogno senza un letto e non c’è desiderio di fuggire senza una prigione.