La felicità è minacciosa – Riflessioni di un netturbino alle cinque di mattina.

Salve sdangheri, state passando una bella domenica? Qui il tempo è pessimo ma non riesce a scalfire il mio buon umore. Due giorni fa mi hanno rinnovato il contratto. Da quello di tre mesi, considerato una prova, sono passato ancora a determinato, però di sei mesi. Fino a luglio posso dedicarmi ad altri problemi (CHI SIAMO; DOVE ANDIAMO; ESISTE UN DIO?) perché il frigorifero sarà pieno, avrò la benzina per viaggiare e magari anche due spicci per offrire una pizza alle mie bambine. Da asporto.

Paradossale, no? Eppure le grandi questioni metafisiche vengono sempre dopo quelle fisiche. Se non si ha un tetto, un letto e un panino, le problematiche teologiche ed esistenziali sono davvero superflue. Non so voi ma io, nonostante abbia i soldi per mangiare, una ragazza fantastica che mi ama e che vive a cinque minuti da casa mia, un impiego che adoro e due figlie che crescono in salute, spesso mi sveglio di cattivo umore e penso a quello che non ho.

Cosa non ho di preciso?

Il superfluo. Ne sono consapevole, ma una parte di me, quella più profonda, che mi domina perché non la sento, non la vedo e non ho un dialogo schietto e costruttivo con essa, quella parte dico, è sicura che io debba possedere un’infinità di cose e che senza di esse la mia vita sia una merda.

Non solo. La parte profonda di me ha ben presente cosa io ho e spesso, invece di tormentarmi con le cose che mi mancano, mi instilla paure irrazionali sul perdere quelle che invece sono presenti nella mia vita.

Lei ti ama? Ma per quanto?

Le figlie sono sane? Ma domani?

Hai un lavoro, ma…

Ma un cazzo, fino a luglio ho un lavoro. Punto.

Non possiamo controllare la salute, l’amore, gli eventi, ma ci danniamo l’anima, ci tormentiamo il fegato nella speranza di riuscire a farlo.

Come?

Immaginando, logorandoci sempre di più in un senso di impotenza che non sappiamo perdonarci.

Uso il plurale perché credo sia un problema diffuso. La nostra mente ha una capacità incredibile, senza di essa non saremmo ciò che siamo. Lei ci mostra quello che non è ancora e che potrebbe invece essere in futuro.

Gli animali non hanno questa capacità di prevedere. Per loro la vita è ora e basta. Un topolino avverte l’arrivo di un cane dal rumore dei suoi passi, l’odore, ma non può immaginare che un cane arriverà, prima o poi. Per quanto ne sappiamo è così.

Purtroppo l’immaginazione ci mostra cose orribili. Vediamo le nostre bimbe su un letto d’ospedale, con i bronchi pieni di catarro, che tossiscono fuori mota verde e sussurrano “paaapaaà, aiutt”, tenute separate da noi, da un vetro. Le vediamo anche in piccole bare, mentre un prete benedice i corpi privi di vita. Immaginiamo tutto questo e il nostro corpo letteralmente lo vive, perché non sa mica, il sistema nervoso, l’epidermide, l’intestino, che si tratta di una proiezione mentale. Lo sa la mente, ma nel momento in cui l’immaginazione ha il sopravvento, quando siamo sprofondati in queste scene di fantasia atroci, non pensiamo a nulla, in qualche modo è come se fossero vere anche per la mente.

Un vero casino.

Quante volte ci sentiamo sfiniti dopo aver passato ore a immaginare tradimenti coniugali, incidenti d’auto, disgrazie di ogni sorta che colpiscono i nostri cari? Certi momenti potremmo avere attacchi di panico che si traducono in una serie di sintomi simili all’infarto. Ricordate i Soprano?

Dovremmo staccarci da queste immagini, ma è quasi impossibile riuscirci. Esistono diverse discipline che possono insegnarci a dominare i nostri pensieri, ma è roba orientale, capite? Creata da gente che non è cresciuta con il concetto di senso di colpa, di Inferno che viene a prenderti, di punizione.

Noi occidentali siamo fatti in questo modo, possiamo convertirci a Buddah, Pan o ai Rush, ma il punto è che dentro, qualcosa di tutto quel sistema ultrarepressivo cristiano che ci hanno infuso da ragazzini, quando eravamo malleabili, è ancora lì.

Io penso a noi come a esseri di fango. Dio ci ha creato dal fango. Finché siamo piccoli è morbido e lo si può modellare. Da adulti è duro e resta così. A menoché uno psicologo, con un piccone lo distrugga, ma a quel punto non avremo più nessuna forma e saremmo nulla.

C’è qualcosa di più spaventoso?

Difficilmente questo picconaggio avviene proprio perché il paziente lo impedisce.

Preferiamo rimanere incasinati ma noti a noi stessi, che diventare qualcosa di nuovo, pieni di incognite.

E anche con un carattere rimodellato, difficilmente riusciremmo a vincere il nostro bisogno di vedere l’orrore, di proiettarlo di fronte a noi, nella speranza di evitarlo, di evitare azioni che possano condurci a vivere certe situazioni terribili.

Non è possibile uscire da questo casino, per quanto mi riguarda. L’unica mia consolazione, che viene dalla breve esperienza di vita su cui posso fare leva, è che raramente le tragedie che immagino si verificano e se capitano, non saranno mai come la mente me le mostra e questo perché un conto è vederle da sdraiati, in una stanza buia, con le lenzuola che ci tengono attorcigliati al materasso e l’oscurità che ci schiaccia, il respiro della nostra consorte che ci impedisce di dormire e le visioni che ci portano in un domani letale.

Ma quando l’incidente che abbiamo immaginato accade, se non moriamo sul colpo, non sarà così terribile e questo perché noi interagiamo e possiamo modificare la realtà, siamo reattivi, immersi in una collettività che ci sostiene e ci comprende.

Comunque, una settimana fa ho avuto una pensata.

Mi sono detto, perchè non creo una lista di cose che ho? Le scrivo tutte su un foglio grande e ogni giorno, prima di cominciare qualsiasi cosa, metto una croce, faccio la conta di quello che c’è e di quello che manca.

Così ho buttato giù tutta una serie di cose. Del tipo:

Ho una casa calda d’inverno.

Ho un letto comodo.

Ho due figlie

Ho due figlie molto belle e in salute

Ho un cellulare che funziona

Ho tanti libri sugli scaffali, molti ancora da leggere e altri da rileggere

Ho una chitarra, dieci dita funzionanti e la capacità di suonarla.

Ho…

Sono andato avanti e ho riempito tre fogli. Poi mi sono fermato ma ancora e ancora avrei potuto scrivere le cose che ho.

Ho smesso perché già così mi sono sentito enormemente ricco e solo un grande possidente può permettersi di ignorare il fondo assoluto della propria ricchezza. Si perde all’orizzonte.

Poi il giorno dopo mi sono alzato e ho messo le crocette a tutto. Sono uscito di casa di buon umore.

Il giorno successivo ho fatto lo stesso. Un’altra crocetta su tutto, tranne una voce: Stasera mangio la pizza per cena. Non posso mangiare la pizza tutti i giorni, altrimenti mi viene la pellagra.

Al terzo giorno ho trascurato di crocettare la lista, di fare l’inventario.

Al quarto pure.

Al quinto ho guardato i fogli, ho esitato, ma non mi sono fermato a rileggerli. Dovevo andare al lavoro e non avevo tempo da perdere. Domani mi sveglio dieci minuti prima.

Al quinto giorno come sopra.

La sera ho riposto la lista in un cassetto e al sesto giorno ho smesso di pensarci.

Come mai, secondo voi?

Perché è nella mia natura fare così. Abituarmi a ciò che ho, darlo per scontato e intanto pensare a quello che mi manca, agli incubi a occhi aperti e al mio senso di impotenza di fronte alla morte, alle tragedie, agli incidenti.

Ma ci sarà una ragione che mi spinge a vivere infelicemente, nonostante tutto quello che ho e che se mi fosse tolto mi sprofonderebbe in una miseria definitiva?

La risposta non è semplice ma c’è.

Quando un mese fa dissi alla mia compagna: “mi sento felice, sai? Sento che questo è un momento meraviglioso, ne ho piena consapevolezza, ma la cosa mi fa paura”
“Paura di cosa” ha domandato lei.
“Paura che qualcosa non vada, proprio perché tutto sembra andare”
Lei si è messa a ridere e non ne abbiamo più parlato.
Ci ho ripensato a lungo, però e ho concluso che la felicità mi suscita sentimenti strani, mi fa sentire un privilegiato, un fortunato, mentre nel mondo ogni giorno, bambini piccoli annegano in un lago nero pieno di coccodrilli. Essere felice quindi mi da’ un senso di disagio e la paura irrazionale che una forza superiore si accorga di questo, realizzi che per un po’ io sono sfuggito alle sue salde grinfie e provveda a risolvere la faccenda. Solo un interista come me può capire fino in fondo cosa intendo.

Ci sono definizioni mediche per questo atteggiamento restio verso ciò che ci fa bene: l’amore, il successo, la realizzazione. Noi uomini siamo davvero difficili, ma così affascinanti che persino gli dei preferiscono badare alle nostre minchiate che alla loro eternità.

A proposito di dei. Quelli antichi potevano essere invidiosi. Il dio cristiano che tutti noi occidentali, atei o credenti, ci condiziona e domina, invece è stato esentato da certe passioni. Lo si dice a immagine e somiglianza dell’uomo ma gli si risparmiano le emozioni brutte che poi sono quelle che fanno di un uomo qualcosa di veramente umano: gelosia, caparbietà, possessività, cupidigia… invidia, appunto.

Un dio invidioso spesso potrebbe spiegare la disgrazia giunta sul più bello, quando una famiglia sembrava avere tutto e bang, la catastrofe.

Quante volte sentiamo certe cose, al telegiornale? Erano felici, lui aveva da poco ottenuto una promozione e un camion li ha travolti.

Escludiamo un dio rosicone dietro certe sfighe ma sotto sotto, proprio come ancora temiamo l’Inferno cristiano, ci portiamo dietro un altro retaggio culturale, quello classico, greco e latino. Noi veniamo da lì, cari miei. Quindi sappiamo che gli dei ci osservano e talvolta rosicano.

Certo, non credo davvero a un dio invidioso, ma la mia parte più sotterranea, quella che mi rema contro e mi detesta, probabilmente spera che esista. Da piccolo mi divertivo a illudere le formichine di essere quasi arrivate al buco e le schiacciavo sul bordo. Immagino una cosa del genere e forse la mia cattolicità insita insradicabile, sa che io riceverò lo stesso trattamento, come pari e patta delle innumerevoli formiche, mosche e zanzare che ho trucidato attuando il mio sadico senso della giustizia. invidioso,

Dentro di noi, parafrasando Lovecraft, qualcosa vive e attende, nella parte sotterranea. Un tempo Socrate e Platone lo chiamavano dáimōn (in greco essere divino) e con esso indicavano l’autentica natura di ogni uomo. I soliti Cristiani, perennemente in conflitto con la natura, l’hanno trasformato in demone e diavolo e si sono inventati anche un rituale per scacciarlo.