Ora parliamo un po’ degli Eternal Champion, il cui nome all’inizio non mi ha fatto proprio impazzire. Adesso me lo ripeto nel cervello così spesso che ha perso qualsiasi importanza, è solo “il come si chiama” questa band incredibilmente buona, fresca, nata da pochi anni e su cui bisogna puntare il po’ di centesimi che ho ancora da spendere per questo genere.
Non intendo che mi compro i loro dischi, ma che investo su di loro con le mie parole, la mia sensibilità emotiva e il mio entusiasmo, chiaro?
Gli Eternal Champion sono grandi ma credo sia importante e urgente spiegare i perché di una simile affermazione.
Ci sto riflettendo da circa un mese e vi assicuro che mentre ci pensavo non ho fatto altro a parte ascoltare e riascoltare
The Armor Of Ire (2016)
e
Ravening Iron (2020).
Gli Eternal Champion fanno parte di una nuova ondata americana epicissima. Guardano al metal classico, non stravolgono le regole, anzi, vanno dritti al lievito madre, ma cercando con delicatezza di rinfrescaro, in un disperato tentativo di farlo tornare davvero in vita.
Lievito madre, esatto. Se non sapete di cosa io stia parlando, appartenete alla schiera di quelli che in quarantena hanno optato per la pizza da asporto anziché imparare a farsela da soli.
Ma non divaghiamo.
Gli Eternal Champion sanno che c’è qualcosa di vivo, di sano sotto le coltri di tanto sterile revivalismo uscito negli ultimi quindici anni. Loro infilano le mani dentro tutta quella melassa compiaciuta e riescono a tirar fuori ciò che nemmeno l’amore più scemo può distruggere o consumare.
Ascoltando The Armor Of Ire e in particolar modo il suo proseguo, ancora più a fuoco e ispirato Ravening Iron, ho l’impressione che gli Eternal Champion (e con loro in parte gli Ecclesia, gli Atlantean Kodex, gli Spiritual Adrift, gli Skeletor e una serie di band giovani in ascesa di cui vi risparmio l’elenco ma che tornerò a trattare proprio qui su Sdangher) abbiano tagliato via dal metal tutta quella fetusa retorica del “metallaro è bello”, “volemose bene” e “viva la birra” che stava mandando a puttane il genere, sprofondandolo in un irritante e fasullo autocompiacimento da vecchi rincoglioniti.
Brani come I am The Hammer o The Last King Of Pictdom celebrano il gran metallo, epicissimo e maestoso, ma senza farlo pesare a nessuno, senza quegli eccessi super-omistici alla Manowar (tipo macho-macho man) ed evitando di frollarci i coglioni con infiniti cori primateschi (ooooh oooooh) o estenuanti richiami a una fratellanza metallara che più la si invoca e più, personalmente, mi viene la misantropia in stile Billie Eilish.
Non ci sono le strizzatine d’occhio e le scimmiotterie ai vetusti maestri. Gli Eternal Champion non cercano di trovare se stessi nei costumi dei vecchi Armored Saint o nelle isterie degli Helloween canonizzati, come stava succedendo a molte band recenti. Loro non sono venuti fuori al solo fine di tributare, mitizzare un tempo mai esistito dare pacche sulle spalle a un pubblico sfasato dall’alcol e accecato dalla polvere vinilica.
Gli Eternal Champion sono qui per realizzare dell’acciaio, usando le antiche ricette dei fabbri ma senza recitare la parte dei metallari. Loro sono metallari. Punto. Per quanto si muovano in un ambito asfittico, che è quello dell’epic metal alla Manilla Road, Fates Warning e Queensryche prima maniera, Iron Maiden, Cirith Ungol e via via già per una mefitica rampa di scale di band oscure e hyperground come Iceman, Mystic Force, i proggettoni Legend, aggiungono elementi che si discostano un po’ da certe reminiscenze “cavalcose”.
Ci sono i momenti alla Wagner, certo, ma non è un continuo sword di qui e steel di là. Certi momenti non sembra nemmeno di sentire del becero epic metal.
Il frontman Jason Tarpey (foto sotto), che per vivere scrive fantasy sfigati ma soprattuto fa il fabbro (ganzo, no?), si ispira molto al Bathory del periodo vichingo e usa praticamente solo un’ottava, senza gridolini (giusto qualche robetta effettata ogni tanto), falsetti e gorgoglii d’accatto.
Lui canta con un timbro solenne, da uomo grande, senza mai superare quelle che sono le sue possibilità e soprattutto cercando di esaltare i testi; non gioca a fare l’Amleto Post-Wave o l’ernia di Bruce Dickinson.
Non c’è un “vorrei ma non posso” e tantomeno un “ora faccio così e domani si vedrà”. Tarpey è ciò che è, orgoglioso e sicuro come una lapide calata sulla fossa comune dei figli rinnegati da Michael Kiske.
Il chitarrista Arthur Rizk, (foto sotto) che è anche il produttore degli Eternal Champion, non ha la smania di mostrare a tutti quanto sia virtuoso, neoclassico o progressivo.
Si ispira a un certo tipo di Ozzy. Non quello santificato con Randy Rhoads o quello più modernista e birroso con Zakk Wylde. Rizk ha una specie di venerazione per gli anni di Jake E. Lee e quei due lavori che contribuirono molto più di quanto piacerebbe ammettere a molti, a definire il metal anni 80: Bark At The Moon e The Ultimate Sin.
Jake E. Lee non fu mai amato dai fan di Ozzy e quei due album, sebbene grandi, soffrono l’impresa di succedere a qualcosa di troppo grosso per chiunque (la morte) ma Arthur Rizk li adora e ha inglobato, senza diventarne un clone o una parodia, lo stile “canoro” di quel grande chitarrista.
Prima di unirsi agli Eternal Champion, Rizk tentò di far nascere una band da questo suo amore per roba come Killer Of Giants o Waiting For Darkness: i Sumerlands, con i quali ha realizzato un solo disco, omonimo, sempre nel 2016 e che vi consiglio di recuperare.
In parte l’esperienza creativa di Rizk nei Sumerlands potete trovarla anche negli Eternal Champion, particolarmente alcuni episodi come il brano The Armor Of Ire.
Però non vi aspettate di beccarvi un facsimile di quell’Ozzy lì. Le influenze non sono gli abiti di scena, ma solo ciò che dovrebbero essere: ingredienti che ingurgitati nella zuppa, si avvertono facendo molta attenzione, ripassandosi nella bocca il sapore di ciò che si sta per mandar giù.
Altra ragione che mi fa piacere un casino gli Eternal Champion è che non si limitano a realizzare dieci facsimili di pezzi metal anni 80, ma delle CANZONI proprie, quelle con i riff loro, i ritornelli loro e una discreta varietà atmosferica che è sempre loro. War At The Edge Of The End, Invoker, Banners Of Arhai, hanno tutte un proprio perché.Non si tratta di cose già ascoltate da qualche altra parte. Anche se somigliano a tutto quello che già esiste, in realtà non sono mai esistite prima che gli Eternal Champion le pubblicassero. LORO!
Ricordano i vecchi dischi storici nel solo modo in cui ogni gruppo fresco avrebbe dovuto ricordarli: nella necessità.
Si sente che non ci sono altre venti canzoni scartate e che non c’è una sfilza di b-sides tutte uguali alle già dieci canzonette da cosplay.
In questi pezzi c’è solo quello che deve esserci. Ha una storia, una gestazione vera e una lucidità che la maggioranza dei gruppi di oggi non può permettersi, perso in una logorrea creativa con progetti paralleli come staffe infinite in cui infilare i piedini presenziali.
E poi la durata dei due dischi è sublime: non superano i 37 minuti, vale a dire entrerebbero nella TDK da 46, che per me resta la durata ideale di un disco metal: il momento in cui non è ancora finito il desiderio e non è cominciata la sopportazione, capite?
Non so voi ma quanto mi sento stanco ogni volta che ripasso un disco metal dagli anni 90 in poi. 65 minuti, 74 minuti, doppi e tripli album, valanghe di riempitivi e bonus track.
Qui c’è l’essenzialità dei primi dischi dei Priest o dei Maiden, capite? Le canzoni erano quelle ed erano tutte necessarie e appunto, non sforavano una cazzo di TDK da 46.
Non voglio dirvi che gli Eternal Champion siano al livello dei Grandi Antichi, ma che fanno le cose con maturità e onestà. Sono il gruppo che ci meritiamo dopo vent’anni di senilità metallara da spararsi in testa.
Non è onesto ripetere le idee di qualcun altro sperando che il pubblico sia così ignorante o decerebrato da non accorgersene.
Non è da persone mature creare una band al solo scopo di fingersi ragazzini vissuti trent’anni prima.
Capite? Quando ascolto gli Eternal Champion (o i Visigoth, gli Atlantean Codex) a me capita una cosa che non mi succedeva dal 2002: io mi sento soprattutto rispettato.
Non mi vogliono pigliare per il culo, capite? Non mi vogliono rivendere un vecchio coro o magari un concept su bene e male che si scontrano nel corpo di una bambina predestinata.
Non mi affliggono con le loro nostalgie e con le posture artistoidi. Fanno metal tradizionale, certo, ma umilmente alla loro maniera, e siccome hanno le palle per davvero, non devono mostrarmele.
La loro musica è tutto ciò che gli basta a giustificare davvero l’amore e la serietà per il metal. Non fanno i metallari. SONO metallari.
Anche la produzione è finalmente centrata sulle effettive possibilità che uno studio privato con attrezzature digitali, per la maggior parte, può offrire. Rizk sa come realizzare il sound di cui ha bisogno, quello che crea non insegue il passato e non vuole rinnegarlo. Cerca solo di mantenerlo entro i confini del budget e l’abilità di cui dispone. La prima volta che ho fatto partire A Face in The Glare io ho sentito un suono dolce, quasi commovente. Non mi ha fatto subito pensare a qualche altro gruppo storico, non mi sono perso a fare paragoni, capite, in pratica è la cosa più “moderna” che abbia mai avuto l’illusione di sentire.