C’è un termine inglese che definisce molto bene tutta quella categoria di persone, che senza muovere il culone dal divano, pontificano e si arrogano il ruolo di attivisti nelle varie cause sociali, ecologiche, animaliste, economiche, senza muovere un dito. O meglio, di dito lo muovono: l’indice per un click, e con una certa fatica. Si chiama Slacktivism, termine derivante dall’unione delle parole inglesi “slacker” e “activism”, e che letteralmente significa “attivismo per fannulloni”.
Il web e Facebook è pieno di questi individui: pensano di cambiare il mondo con un like, o meglio ancora, chiamando alle armi gli altri. Loro no, sono impegnati, sono intellettualmente attivi a propagandare questa o quella causa, ma mai in prima persona, perché una domenica a pulire la cacca al canile o andare a raccattare i rifiuti dalla sponda di un fiume è faticoso, ci si sporca, toglie tempo all’aperitivo radical chic con gli amici del circolo del libro.
Però si sbracciano, solo via internet, indignati e furenti contro questo e quello, demonizzano il turbocapitalismo, Amazon, i negozi dei cinesi, la politica che taglia alberi e cementifica i parchi, l’abbandono degli animali e quant’altro, senza fare in concreto nulla.
Zero, non modificano di una virgola il loro stile di vita, accusando sempre il prossimo della pagliuzza nell’occhio, senza vedere la trave gigante che hanno nel proprio. Nutrono la loro vanità e cercano di apparire agli altri come moralmente superiori, intelligenti, sopratutto detentori di cultura e sensibilità.
Nel quotidiano questi individui spesso sono “l’italiano medio”, anonimo e grigio nello scorrere di un esistenza ordinaria, senza significativi picchi. Le azioni tipiche di questi slacktivism contemplano una serie di interventi il cui impatto pratico è nullo.
Firmare petizione online e condividere appelli da parte di attivisti e organizzazioni non governative.
Fare copia e incolla di messaggi di contestazione che circolano sui social network, per pubblicarli a propria volta.
Cambiare la propria immagine profilo su Facebook in sostegno a una causa (ampliamento dei diritti civili, commemorazione di eventi terroristici, celebrazione di giornate internazionali per i diritti).
Condividere sul proprio profilo video o immagini di denuncia sociale (es. maltrattamenti sugli animali, abusi sull’ambiente).
Divenire membri di una organizzazione benefica, senza aiutare o presenziare nelle attività da essa organizzata.
Acquistare prodotti commerciali per i quali il venditore o il produttore promette che una quota dei ricavi verranno donati a fini benefici (ricostruzione di territori devastati da catastrofi naturali e similari).
Indossare spille che riportano loghi di campagne a valenza umanitaria.
Si sentono gratificati senza aver fatto niente, però puntano il dito su chi compra da Aliexpress, va al centro commerciale, non va in piazza a protestare contro lo sterminio delle locuste birmane in Asia Centrale.
Ipocriti, fannulloni, rabbiosi, nazivegani e pure violenti (solo a parole, perché dal vivo si prenderebbero una serie di mazzate paurose) l’unico risultato che ottengono è di farsi bannare il profilo Facebook una volta alla settimana e a farsi mandare affanculo da chi invece l’attivista lo fa sul serio, o da chi preferisce vivere la propria vita liberamente (in rispetto della libertà altrui).
Stare alla larga da queste persone è automatico per molti, ma c’è anche chi, ingenuamente, sopravvaluta tali soggetti, salvo poi rapidamente accorgersi che l’attivismo maggiore per loro è andarsi a comprare il giornale in edicola. Però quella a cinquanta metri da casa, se no si fa troppa fatica.