Onslaught – In Search Of Success?

In Search Of Sanity, come quasi tutti i lavori controversi nella discografia di una band storica, è un buon album. Cambiare sound, line-up, stile, conduce sovente a idee nuove e una maggior freschezza compositiva. Inoltre il “disco della svolta” (che è quasi sempre anche quello controverso) prevede un maggior investimento di denaro, quindi un produttore in gamba e degli studi migliori. Solo che nel metal non basta realizzare buona musica se è diversa da quella che hai sempre fatto e se è in qualche modo è meno spigolosa rispetto a certe pretese di mercato.

Gli Onslaught danno oggi la colpa a se stessi, mentre fino a pochi anni fa scaricavano tutto sulla moda grunge e certe decisioni di chi gravitava intorno alla band. Colpa mia o colpa tua, è incredibile come l’insuccesso commerciale finisca per mettere in secondo piano la qualità dei contenuti.

Il problema è che quel disco doveva alzare il livello del gruppo. Ma il livello di cosa? Indovinate un po’? Popolarità, vendite, gradimento. Oggi è facile biasimare gli Onslaught e vedere nel declino e consecutivo scioglimento della band subito dopo In Search Of Sanity, la giusta punizione per essersi “svenduti”, ma bisognerebbe tornare a quegli anni e provare a capire cosa c’era intorno alle thrash metal band inglesi.

Per prima cosa soffrivano una pressione enorme, e sapete il motivo? Erano gli eredi disgraziati della NWOBHM e venivano pungolati da giornalisti e pubblico su come mai fosse l’America a guidare e dominare il metal, mentre la nuova generazione inglese non riusciva nemmeno a farsi notare fuori dalla propria isola.

Onslaught e Xentrix provarono ad alzare il tiro, peccato che stessero rivendendo al mondo quello che gli stessi americani e tedeschi avevano reinventato partendo da ciò che l’Inghilterra esportò anni prima (Venom, Motorhead).

Paradossale ma vero.

Inoltre nel 1988-89 il thrash stava diventando una roba grossa. I Metallica erano sempre più famosi e tutte le altre band si accodarono nel tentativo di raggiungere gli stessi traguardi.

Basterebbero già questi due dati per spiegare come mai, gli Onslaught, dopo un paio di album più intransigenti (Power From Hell e The Force) si siano resi un po’ più commestibili. Del resto, oltre la voglia del gruppo di veder crescere platee e il livello degli alberghi in cui pernottavano durante i tour, anche la London Records ci mise del suo.

A dire il vero non impose un cambio di frontman. Pagò le lezioni di canto a Sy Keeler e cercò di aiutarlo a risolvere diversi altri problemi personali. Il gruppo incise una prima versione dell’album con lui, ma al temp, tra Keeler e il resto della band, le cose non erano proprio “confetti e vasella”, oggi lo ammette Nige Rockett per quanto non ricordi di preciso quali fossero le esatte ragioni di tanta tensione.

Di fatto gli Onslaught allontanarono Sy e forse non vedevano l’ora di farlo da un po’, dopo che l’intero mondo discografico aveva detto al gruppo in tutte le lingue che Keeler non era il massimo.

La London Records di sicuro non si mise a piangere quando la band infine lo congedò e presto coinvolse lo sfaccendato Steve Grimmett dei Grim Reaper.

Oltre quella mossa, la LR suggerì al gruppo un cambio di look. Basta spuntoni e cuoio, molto meglio un abbigliamento più casual di jeans, tute e magliette.

A dire il vero, le band thrash metal anni 90 codificarono una nuova divisa in apparenza meno formale del repertorio denim & leather. Tutti con le stesse scarpe da ginnastica, tutti gli stessi calzoni attillati ed elasticizzati, tutti con la maglietta di qualche band amica e tutti con le camicie a scacchi e i cappellini alla Anthrax.

Ma tanté.

Gli Onslaught fecero un disco power thrash vicino a certi Metal Church e sul piano melodico si abbeverarono alla stessa fonte ispirativa del canadese Jeff Waters: Alice In Hell esce lo stesso anno.

I due gruppi andarono anche in tour assieme, quell’anno.

In Search Of Sanity oggi appare come un ottimo lavoro, spinge e riempie le orecchie di ciccia nutriente, ma nel 1989 evidentemente scoglionò i fan di The Force.

All’inizio andò anche bene, visto il buon lavoro promozionale della London, ma le cose non decollarono e due anni più tardi, dopo che il gruppo ebbe completato il quarto album, si vide scaricare dall’etichetta.

Se gli Onslaught avessero continuato sulla strada di The Force avrebbero comunque sofferto la grande concorrenza americana, ma lo zoccolo duro dei fan sarebbe rimasto lì a scapocciare e cornare sotto al palco. Invece fu un esodo deprimente davvero.

Tenendo presente anche un altro fattore. L’underground si stava stufando del thrash e band grind e death come Carcass, Napalm Death, Pestilence, Death, crescevano nei consensi di una nuova generazione ancora più affamata di roba greve.

Gli Onslaught sbagliarono tutto ma credo fossero spacciati in ogni caso.

Oggi sono ancora in giro e In Search Of Sanity per me resta uno dei migliori del 1989. A produrlo Stephan Galfas (Stryper, Meat Loaf).

Passiamo al contenuto.

La London Records non era un’etichettina in ascesa ma una grossa label semi-indipendente, vale a dire imparentata con la Polygram e poi inglobata nel gruppo Warner. Poteva starci che gli Onslaught, ragazzini spensierati fino a poco prima, siano poi finiti nel gorgo manageriale del giro grosso, concedendosi fin troppo, ma come si fa a prendersela con gente che aveva da poco raggiunto la maggiore età? Solo Grimmet, coinvolto in qualità mercenaria, era trentenne. Gli altri avevano un’età media di 21.

Inoltre, della band di The Force erano rimasti solo Nige e il batterista Steve Grice. Sia Jeff Hinder al basso che l’altro chitarrista Robert Trotman erano entrambi in grado di scrivere materiale, aggiungendosi al principale produttore di riff e testi.

In Search Of Sanity ha un po’ il vizio di tanto thrash fine 80: un minutaggio sconsiderato. Non si capisce bene come al tempo, artisti e labelz credessero fattibile una cosa simile. I riff del genere thrash sono già abbastanza piattoni, visto che si basano quasi tutti su un rimpasto tra il giun giun in palm mute sul Mi e altre note o fraseggetti. Perdurare tutte quelle variazioni in MI oltre i 6 minuti avrebbe condotto il pubblico all’annientamento.

57 minuti e rotti per In Search Of Sanity, in gran parte per nulla necessari. Ci fosse stato qualche taglio, canzoni come la title-track (7 minuti) e Welcome To Dying (12 minuti) comunque molto fighe entrambe, sarebbero diventate dei classici thrash indiscutibili.

La cover degli AC/DC era una cosa che di quei tempi poteva anche sembrare una buona idea in un contesto estremo e in seguito le death band sarebbero andate oltre in quel senso, ma oggi nel caso degli Onslaught suscita più tenerezza che altro.

In Search Of Sanity, il brano, è un monologo introspettivo di un pazzo. La follia come prigione da cui un uomo sano guarda il mondo fuori. Questi punti di vista sono tipici del thrash anni 90. Basti pensare a Coma e Ride The Lightning. Desiderio di fuggire e riaffermare se stessi ma limiti invalicabili imposti dalla società oppressiva, dalla scienza e dalla morale.

Shellshock sembra la seconda parte: il pazzo subisce l’elettroshock che invece di aiutarlo a guarire lo sprofonda sempre più nella follia e il dolore.

Lightning War è un brano sulla guerra ma potrebbe anche essere un altro tassello della saga “In fuga dal manicomio” dei primi due brani. Magari il pazzo si ribella e, a capo di un plotone di svitati, fa a pezzi ogni ente organico che si frapponga tra lui, la libertà e il riappropriarsi di un’identità soppressata dal Governo. Il tono è un po’ alla primi Metallica, del tipo eccoci, tremate, vi facciamo il culo a tutti!

Blood Upon The Ice invece si ispirerebbe all’unica lettura diffusa nel circuito thrash anni 80: Lovecraft. In particolare il ghiaccio fa pensare al più famoso, citato, trasposto (e meno letto) romanzo di HP, Alle montagne della follia. O magari è ancora il pazzo che fugge dal manicomio lasciandosi dietro una scia di sangue come un’autostrada e scopre che ormai la sua follia è lo strumento che gli permette di vedere i Grandi Antichi, i quali sonnecchiano sotto il ghiaccio sottile della realtà. Sto vaneggiando, ok.

Welcome To Dying è un potenziale inno all’eutanasia, come del resto era One dei Metallica o magari si tratta solo dello sfogo rassegnato del pazzo di cui sopra, incapace di accettare un mondo così fuori di testa e desideroso di morire.

Erano questi i fragili laghi ghiacciati su cui il metal di una volta sapeva saltare a piedi pari fregandosene delle conseguenze. Erano ragazzini inconsapevoli ma ogni tanto le dicevano belle grosse e anzi, le urlavano fino a sgolarsi.

L’oscurità muore ma l’alba non porta luce

Nella vita o nella morte la nostra esistenza è una lotta

In vista della fine lasciami morire, lasciami in pace

Uno schiavo della vita spezza le catene e rendimi libero

Power Play, in apparenza una chiusa in disimpegno dice una roba potentissima, leggete qui come apre:

La morte è la via

Una passione da morire

Vedo un mondo impazzito ossessionato dalla moda

Guarda la rima

Le parole non cambiano mai

Sempre in fila alla ricerca di un nuovo gioco da giocare

Non so con cosa se la pigli di preciso, ma c’è già una denuncia del nichilismo galoppante e un moralismo sano, benefico, nascosto sotto la coltre giungistica di un pugno di ragazzi emarginati e a corto di acqua corrente.

Alla prossima, folks!