Ci fotteremo la vedova di Odino / mentre ti regaliamo riff fantastici (Mjød)
Parliamo della cosa fica che riescono a fare i Kvelertak. Mescolano il black metal classico con i Turbonegro, i Thin Lizzy, gli Yes e gli AC/DC. No, niente Iron Maiden e Metallica. I Black Sabbath sì ma quella è una cosa impossibile da evitare (e superflua da mettere a verbale, come dire sanno di Beatles, Rolling Stones e I Cavalieri del re se fai power e sei italiano). Mescolano tutte le band citate sopra, ma non questa è la cosa che li rende fichi. E fatemi finire, cazzo! I Kvelertak sono fichi perché mescolando di tutto e di più, tirano fuori LE CANZONI dei Kvelertak.
Non possiamo farci illusioni. Oggi i mix di stili non si fondono più. Sono già di per sé delle misture tutti gli ingredienti che un gruppo metal voglia fondere insieme. Prendete il black metal o lo speed-thrash (o thrash-speed): questi due sotto-generi hanno una storia genetica già esaurita. A un certo punto sono diventati codici, surgelati come sofficini Findus e non possono diventare altro. Questi sotto-generi vivono a compartimenti stagni nello stesso brano: quando c’è il black, smette di esserci il thrash-speed e quando smette di esserci il black, ritorna lo speed-thrash. Tutti quei gruppi che vogliono coinvolgere nella propria formula i vari sottogeneri non li fondono ma li alternano, come gocce d’olio in un paniere d’acqua. I Kvelertak non sono da meno. Si parte con una vomitata black e poi ecco la melodia rock and roll pompata di sintetizzatori anni 80. Questo lascia il posto a un riffone thrash tipo Slayer e poi ancora black metal.
Abbiamo un fan negli Stati Uniti, un fan e amico, che è super ricco e ci ha fatto volare… era il nostro ultimo tour con i Mastodon negli Stati Uniti, il nostro bus aveva subito un guasto…
Indomma, secondo me, i Kvelertak sono grandiosi per la capacità di cacciare tutti questi sottogeneri in un calderone e portarli allo stesso livello di ebollizione, restituendoci un odore mefitico che sa di sudore, scorregge, alcol, visioni solforose e un orto pieno di cipolle dell’anno scorso. Credo sia l’olezzo autentico dell’idromele: una roba da palestra vichinga e melassa, s’intende.
La prima canzone dell’album si chiama “Dendrofil for Yggdrasil”. “Dendrofil” in norvegese significa che hai una preferenza sessuale per gli alberi e “Yggdrasil” è “l’albero del mondo” nella mitologia norrena. Quindi sì, puoi immaginare il resto delle cose in quella canzone … Inoltre, la canzone “Heksebrann” parla di uno dei più famosi roghi di streghe in Norvegia. Se è oscuro e interessante, ci facciamo sicuramente una canzone.
I Kvelertak hanno realizzato 4 album in dieci anni. Per essere una band quotata hanno avuto una media deficitaria. Manca almeno un disco. Quello che sarebbe uscito se Erlend Hjelvik
non fosse entrato in crisi nel 2017, impiegando un anno per decidersi a sloggiare. Ecco cosa ha spinto il gruppo alla ricerca di un sostituto adeguato. Ce n’era solo uno possibile, a sentir loro, il seccardo Ivar Nikolaisen.
L’uscita di Erlend ha causato il ritardo che ha portato il disco Splid a splittare da 2018 al 2020. Se i Kvelertak fossero stati puntuali avrebbero goduto di un altro giro sulla giostra del rakkeròl, prima di rintanarsi nelle loro casette di legno a mandarsi auguri e semple via mail con gli altri della band, timbrando il quinto cartellino nell’anno del Covid.
Solleva un po’ ascoltare un gruppo nato, cresciuto e pasciuto dopo il diluvio di Napster/Mp3/Lobby di Spotify-Bandcamp. Non c’è quel sostrato malinconico di “quando si guadagnava vendendo dischi”. Il gruppo non ha la più pallida idea di cosa possa significare.
Hanno cominciato nel 2010 e non si sono nemmeno preoccupati di vedere le vendite. Appena possibile è cominciato il tour e le cose sono diventate via via più grandi, fino a ritrovarsi in America a far da spalla ai Metallica. Una sera mentre suonavano le loro riottose canzoncine sul palco, si sono accorti che tra il pubblico c’era James Hetfield che li riprendeva col telefonino, ed era tutto contento.
Un’altra volta in Svezia ci si ruppe il bus e il nostro manager dell’epoca chiamò l’azienda dei bus incazzato: “Ora risolvete la situazione, abbiamo bisogno di un volo!”, disse. Così finimmo a volare sull’aereo privato dei Toto. Quindi siamo stati davvero delle rockstar per cinque giorni, poi siamo tornati nel fango…
Questa è la realtà di un gruppo moderno. Tour e tour e tour, finché qualcuno alla fine non ce l’ha fa più. Erlend ha deciso di fermarsi e ripartire da se stesso, portandosi via tutto il suo parolificio in svervegio e la panza lucida di sudore, i capelli alla Ozzy dei bei tempi e i baffoni in stile Lemmy.
I Kvelertak sembravano studenti fuori-corso di qualche università americana del New England. Solo lui, il frontman, ha sempre avuto quella fisicità in grado di condurre la band nei boschi mormoranti odino di qua e odino di là. Erlend è brutto, sgraziato, ma portentoso come il figlio di Asterix e Obelix; la versione vichinga di Hank Von Helvete, per capirsi.
Adesso c’è questo spilungo un po’ fighetto, Ivar. Mi fa pensare al tipo degli Incubus, ma bisogna ammettere che il gruppo, in Splid ha dato segnali tosti, con una serie di pezzi bomba e una maggiore varietà canterina, dovuta proprio a Nikolaisen, capace non solo di ruttare e berciare ma anche di melodiare come un gatto malato e di fare pure il verso d’amore della poiana.
Mica male, no?
Mette un po’ tristezza vedere un gruppo così, all’apice bio-creativo, non un pancotto bollito che tira avanti con il ventesimo disco, questi hanno le energie per portare a casa uno zero a zero tignoso con i Metallica e gli Slayer, che di questi tempi non è mica poco. Vederli che si esibiscono in streaming mi ha fatto quasi piangere.
Parliamoci chiaro, se si sciogliessero domani sarei felice, non credo che abbiano altro da offrire, dopo l’esordio e Nattesferd.
Penso che la loro eredità più cospicua sia sparpagliata nei primi quattro album e da qui sarà l’inizio del solito decadimento, ma se devo dispiacermi per qualcuno (a parte me stesso e chi mi è vicino) durante il lockdown imposto ai concertisti, non piangerò certo per i Lacuna Coil o gli Iron Maiden, ma per i Kvelertak sì.
Meritavano di suonare in giro, erano un validissimo contributo al benessere umano. Ogni loro concerto, a quanto pare, è un tale profluvio di saliva, sudore e buon umore, che la gente ne esce con un livello immunitario più alto. Ma immagino che oggi tutti quei liquami biologici siano visti come minacciosi e le fonti di rigenerazione dell’umore non vengano considerate così prioritarie.
Una volta abbiamo suonato a un festival in Norvegia e ho fatto un incidente automobilistico per via di un fidanzato geloso che ha cercato di colpire la mia macchia, ha rotto…be’, è una storia lunga.
Ma tornando a parlare della loro musica, ci sono alcune cose interessanti da dire.
Per primo c’è questa totale assenza di ammiccamenti nelle citazioni, che pure ci stanno e spesso. Alcune sono vere e proprie interpolazioni, che fin dal primo disco la band si diverte a inserire, citando le canzoni più disparate: da Foxy Lady (in Liktorn) a Stevie Nicks di Edge Of Seventeen (in Svartmesse). Ce ne sono tante di citazioni, e sono dei veri e propri furti che però diventano di proprietà della band, per usucapione.
Poi c’è il Gufo.
Trovatemi un’altra band che sia stata capace di guadagnarsi una propria mascotte, negli ultimi tempi? Non minimizzate, sono le mascotte che vi hanno fatto innamore di certi gruppi e certi suoni. E quei suoni e quei gruppi sono diventati la vostra vita. E quelle mascotte.
Il gufo non è uno zombi, un diavolo o cose del genere. È solo un gufo. Il gruppo l’ha scelto per caso, come è successo con noi di Sdangher per il cavallo. Diciamo che è il loro spirito guida. Un giorno però loro si sono ritrovati dei fanatici convinti delle valenze occulte e poderose del Gufo in relazione alla musica e la condotta esistenziale del gruppo. Cazzate, ma non potete immaginare cosa venne in mente a certi fan europei dei Malnàtt, quando inneggiarono al dio della mortazza, il Maiale. Chiedete pure a Porz.
Le cose funzionano così, da sempre. Il rock offre gli elementi e il mondo va fuori di testa unendo i puntini.
Il gufo però rispecchia la natura, un senso di selvatichezza camp della band. I gufi mangiano topi e cagano molto, non sono saggi, come scopre Stewie quando uno di essi gli si piazza in cameretta.
E nemmeno i Kvelertak sono saggi.
Partiamo dalla matrice black metal. Su Wikipedia dicono che fanno death n roll. Sappiamo che nessuno fa death n roll. Anche gli Entombed, che si sono inventati questa definizione, hanno smesso di suonarlo da un pezzo, il death n roll.
Il black n roll invece, creato/o condotto al successo, fate voi, dai Satyricon di Volcano, è un elemento preponderante dei primi due album dei Kvelertak, i quali però sprigionavano anche le spore mefitiche dei vecchi Mayhem e Darkthrone, sia chiaro.
Ulvetid feat. Hoest, è black metal per circa 25 secondi, poi diventa rock and roll sozzo e imbarazzante a livelli sublimi. Nekroskop invece è proprio black n roll. Non ci sono cazzi né mazzi.
Il secondo album Meir, mantiene le coordinate del primo anche se già qui ci allarghiamo più verso atmosfere più classiche con, per esempio, Evig Vandrar, dove il glam, il punk rock, il progressive e il biru-biru black metal sono apparecchiati su un banchetto in barba alla peste discografica.
Ma già in Nattesferd accadono cose imponderabili come 1985, che qualcuno ha definito una roba alla Van Halen. In realtà siamo più dalle parti dei Thin Lizzy/Darkness, come mi ha fatto notare uno scandalizzato e disgustato Giovanni Loria, il quale però mi ha dato l’assist per una riflessione interessante.
Certe cose possono notarle solo coloro che non sono cresciuti nell’orbita generazionale di una band. Mi spiego meglio. Quando ero ragazzino io, gruppi come Entombed o Burzum dettavano le nuove coordinate strutturali.
Per me era normale un pezzo dove non esistesse un ritornello ma dieci melodie diverse che si alternavano su un giro di accordi zanzarosi, per dire.
Ebbene, ascoltando 1985, Giovanni mi ha fatto notare l’assoluta mancanza di un centro, di una struttura classica. Ed è vero.
Ci sono un riff e una melodia che si rincorrono per sei minuti e rotti.
Perché?
Semplice, è un atteggiamento compositivo ereditato proprio da quelle band black metal da cui i Kvelertak, ormai da molti anni, cercano di prendere le distanze.
Questo non significa che possano essere definiti black metal. Il gruppo, tra Nattesferd e Splid ha esaurito ogni commiato alla scena di Oslo, ma restano dei riflessi condizionati (la mancanza di una struttura classica e la circolarità) che io non notavo perché li ho assimilati in una fase assolutamente acritica, quella post-puberale; mentre uno cresciuto a Thin Lizzy e UFO e Maiden e ormai uomo maturo e con le proprie idee retropiche, ha riconosciuto subito come difetti.
I difetti sono gli elementi che delimitano solo un altro, ennesimo, stile.
La canzone troppo lenta e ripetitiva è doom, quella registrata male e chiassosa è black, l’eccesso tecnicistico e il catarro fanno il death e la prevedibilità è il metal truista.
I Kvelertak si distinguono agli occhi di un ascoltatore troppo distante per età, dai limiti.
Eppure loro i limiti li abbattono. Hanno restituito al metal l’entusiasmo che si stava perdendo. Quando li vedi suonare dal vivo, nei video, non pensi alla decadenza del rock and roll, che prima era negli stadi e nei palazzetti e ora è nei locali da duecento persone. Vedi gente felice di farlo comunque, fregandosene del passato, perché non l’ha mai vissuto quel passato e non vuole fingere di viverlo ora. Questa è gente che agguanta per le palle il proprio presente.
Poi i Kvelertak sono cresciuti, certo. Hanno suonato sul palco circolare dei Metallica, ma è stata un’esperienza che non sarà mai loro. Quello sfarzo, quell’eccesso è un segmento vagante di un mondo che è destinato a scomparire.
Ma chi se ne frega degli stadi e i grandi successi in classifica, se un gruppo riesce ancora a darci un album come Nattesferd? Prendete il brano Heksebrann: nove minuti altamente emotivi che sembrano tre, come ha detto Erlend. Per me è una specie di astronave che decolla in qualche galassia blu, dove gufi antropomorfi si accoppiano volando.
Erlend urla solo dal quarto minuto o giù di lì e poi c’è un coro alla Yes che ti fa vedere come la tua fottuta astronave colonizzatrice, precipiti nella terra dei gufi, i quali interrompono le copule aeree per raffreddare la voragine di fiamme e fumo.
I gufi vedono per la prima volta quella cosa e non sanno che si chiami fuoco, ma istintivamente iniziano un ballo attorno a essa, senza domandarsi quale materia dia odore a quel fumo, fregandosene di tutto. Ignorando di averla scampata.
Non voglio raccontarvi palle ma se i Kvelertak sono in giro, hanno realizzato dei dischi, fatto tour in giro per il mondo e possono ancora raccontarlo è sia perché sono in gamba e talentuosi, ma anche per via del paese da cui provengono.
La Norvegia è uno dei paesi più ricchi d’Occidente e pensa sia giusto spendere per l’arte.
Badate a questa cosa, noi veniamo da un paese che crede l’arte sia superflua, chiudono musei e biblioteche appena si mette male qualcosa, ma tengono aperte le parrucchiere. In Norvegia pagano i tour e i dischi ai musicisti. Possono permetterselo, ok, ma lo fanno perché credono sia necessario, non lo vedono come un piccolo lusso.
È la stessa cosa che fanno con lo sport e cose del genere: danno un sacco di soldi, in generale, alle cose culturali e questa è davvero una buona cosa. Comunque, sarebbe stato impossibile … beh, non impossibile, ma sarebbe stato molto, molto più difficile iniziare se non avessimo ricevuto quel supporto per il tour.
Ma lo sapete perché la Norvegia ci tiene così tanto ad aiutare band valide?
Una cosa che noi italiani non abbiamo proprio (guardate i Lacuna Coil): adorano quando qualcuno fa parlare bene della Norvegia nel mondo.
Sono orgogliosi e molto riconoscenti verso un gruppo che va in classifica in un altro paese. Lo vedono come da noi una medaglia olimpica in qualche disciplina. Non importa quale. Solo che pure lì, non so come favoriamo gli atleti, qui in Italia.
Ok, sentite questa. Una volta un mio amico andò a Oslo con la ragazza. Non gli importava del museo di Munch, voleva fare il giro dell’Helvete e visitare i posti di tutta la faccenda delle chiese e degli omicidi. Ovviamente dopo un’ora aveva esaurito il tour. Foto nello scantinato dove sta scritto Black Metal inclusa. E così ha capito una cosa. Oslo è una città assolutamente noiosa, piatta, smorta. Dopo un’ora sei come il tipo del quadro di Munch. Esatto.
Oslo non è davvero brutta, ma immagino che sia il fatto che quando arrivi, alla stazione centrale, ci sono solo tonnellate di drogati che sparano eroina per le strade – questa è quasi letteralmente la prima cosa che vedi! E l’inverno è davvero freddo e molto lungo, ma a parte questo a noi piace molto vivere lì. Ma la cosa brutta è che ci sono davvero un sacco di drogati e mendicanti. Abbiamo molti drogati in Norvegia. Sì, ma sembrano tutti venire a Oslo e frequentare la stazione dei treni, quindi è così la prima cosa che vedi, un ragazzo che vomita con un ago nel braccio. È piuttosto strano, la Norvegia è questo paese dove si sente sempre all’estero che “è uno dei posti migliori in cui vivere in Europa” e tutto quel genere di cose, e poi quando arrivi quella è la prima cosa che vedi.
I Kvelertak sono cresciuti nella stessa terra di Munch, perdendo presto interesse per tutta la saga Burzum vs. Mayhem e il black metal. Ne hanno inserito un po’ nella propria miscela musicale, ma per due precise ragioni. La prima è questa: se sei norvegese e fai rock, il black te lo ritrovi geneticamente. Secondo, se scorreggi un po’ di black metal fa bene per le sovvenzioni. Il black è favorito dallo Stato.
Alla gente piace dire: “Oh, è una band norvegese!” Gli piace l’idea che ci sia qualcosa di speciale in ogni paese. Ma le nostre influenze provengono in gran parte dalla musica americana, che a sua volta deriva dall’Africa. Ma forse ciò che è tipicamente norvegese nella nostra musica è il lato black metal. Ma per la parte puramente musicale, le nostre ispirazioni provengono da tutto il mondo. E abbiamo registrato i nostri primi due album e questo in America. Quindi non posso davvero dire che ci sia qualcosa di tipicamente norvegese nella musica che facciamo. È più un bisogno di mettere le cose in scatole, ma non sempre regge. Se noi ci fossimo incontrati in un’altra parte del mondo e avessimo ascoltato lo stesso tipo di musica e fatto lo stesso tipo di album, penso che la musica sarebbe stata la stessa. Capisco la necessità di catalogare i gruppi, ma a volte lo trovo impreciso.
Non è del tutto vero. Parliamo dei Turbonegro, per esempio. I Turbonegro sono sempre stati per loro una grande fonte d’ispirazione sin dal giorno in cui hanno iniziato. Gli scorre nelle vene. E lo ammettono pure:
“Se suoni rock in Norvegia in qualche modo il Turbonegro verrà iniettato nella tua musica”.
Una volta, i Kvelertak si sono sentiti dire da un tizio dei Turbonegro che erano fichi, andava tutto bene, ma che per avere successo fuori dalla Norvegia, avrebbero dovuto usare l’Inglese. Il gruppo decise di non dargli retta e dopo qualche anno c’erano decine e decine di persone davanti al palco circolare dei Metallica che cantavano in Norvegese, senza capire un cazzo di quello che dicevano. Questo io lo considero avere successo.
Ma è un peccato che i testi siano incomprensibili. Come una volta fece notare un giornalista a Erlend, il norvegese urlato in quel modo potrebbe anche parlare di fiorellini colti in un campo ma sembra sempre più una roba di squartamenti e violenze.
È una lingua guerresca. Purtroppo non solo i testi originali della band non sono tutti facili da reperire in rete ma anche quasi impossibili da tradurre con google translate.
Quindi dobbiamo intuire, un po’ come avveniva molti anni fa, quando la lingua inglese non era così diffusa tra i pischelli, di credere che Desire o Crew fossero parole vandaliche, per non parlare di Fire e Cruel.
Oggi dobbiamo cavarcela con questo nuovo idioma metallico-barbaricissimo. Si crede per esempio che i Kvelertak abbiano dedicato tutto il primo album alla mitologia norrena mentre invece è una roba molto più guascona. È Odino raccontato dagli Who per intenderci. Non c’è quel piglio serioso e filolofico che fa venire il latte all’ano, di molti gruppi black. Si dice che Thor aveva le palle gonfie o cose del genere.
Viene da un tempo in cui scrivevamo testi e dicevamo quello che volevamo sul momento, senza pensare che sarebbe finito su un disco. Molti dei testi del primo disco li abbiamo scritti in un seminterrato puramente per cantare sui riff. Ma poi abbiamo pensato che sarebbe stato falso da parte nostra provare a cambiarli dopo aver ottenuto un contratto con l’etichetta discografica e iniziato il tour, quindi li abbiamo mantenuti in quel modo. E sai una cosa, sono piuttosto descrittivi. Parla di molti dei bei momenti che abbiamo passato insieme, vivendo in una casa, scrivendo musica insieme.
Dal secondo album in poi Erlend molla Odino e tratta di tutto quello che fa metal: stregoneria, occulto, Lovecraft, Illuminati, ma senza mollare quell’attitudine da becero figlio del rock and roll. Non sottovalutate questa cosa, però.
Prendete per esempio Nekrokosmos, dal secondo Meir.
Qualcuno l’ha descritto molto bene come una sorta di vortice celeste che vomita morte e distruzione. Parla di una specie di figura dell’anticristo che scende dallo spazio, da un buco nero sulla terra e distrugge tutto. Roba tosta. Non si salva nessuno. Nemmeno i metallari.
Ultimamente, è stato proprio il nuovo Ivar a mettere il gruppo e tutti davanti a un dilemma. Mi riferisco al brano Necrosoft, che parla dell’ambiente. Ivar a un certo punto dice che è il momento di scegliere se vuoi il gufo o la chitarra elettrica. Sì, perché in Norvegia stanno tagliando le foreste per inserire le turbine eoliche, che dovrebbe significare “più verde per tutti” ma allo stesso tempo distruggono la fauna selvatica per questi “buoni fini”, con gli uccelli e tutto il resto. “Finché le persone vogliono più energia, sarà difficile avere un pianeta Terra sostenibile” urla Ivar.
Microsoft, computer, servizi di streaming, bitcoin, ecc. consumano mooooolta energia e non è che ci pensiamo granché sopra. Va beh, chiudiamo su questo spunto.
Ah, dimenticavo. Si pronuncia Quehllertack!