Salve, cavalli della domenica (e anche del lunedì) la stalla di Sdangher ha riaperto dopo una lunga estate calda, passata a… non so voi, e nemmeno gli altri centauri, ma io personalmente ho divorato decine di cocomeri gelati, quasi traslocato in un appartamento con la mia nuova famiglia, salvo ripensarci poco prima di firmare il contratto d’affitto e capire che non avevamo soldi a sufficienza. E per il resto mi sono dedicato agli zoccoli miei.
La grossa novità è che ho ricominciato a meditare.
Meditare nel senso di fare meditazione, sapete? Mindfullness, quella roba lì.
La mia psicologa mi aveva iniziato alla pratica della Mindfullness perché era uno strumento necessario al suo metodo terapeutico. Però non è che funzionò granché. Mi cimentai per qualche mese, ma a un certo punto mollai e lei non obiettò. Mi offrì un altro percorso, più classico, di conversazione a due seduti sulle poltroncine, a caccia di vecchi traumi e inghippi quotidiani. Devo dire che ha portato qualche miglioramento generale, ma la sensazione di poter crollare da un momento all’altro è sempre rimasta sul mio collo. Stavo meglio ma lo sclero era sempre dietro l’angolo, non so se mi spiego.
Poi un giorno ho ricominciato a meditare.
Non domandatemi perché mi sia deciso, è andata così. Ho pensato di ricominciare a farlo ed è stata tutta un’altra cosa, con mia grande sorpresa.
Da circa un mese e mezzo la faccio un quarto d’ora al giorno e sto alla grande. E più passa il tempo, più mi ritrovo a farla anche fuori da quel quarto d’ora.
Ma cosa succede in quel quarto d’ora?
Niente di speciale. Mi siedo. Mi concentro sulle sensazioni del mio corpo e reindirizzo continuamente la mia attenzione al respiro. I pensieri vengono, me ne accorgo, li vedo, li catalogo (tipo, “Madre” “Pantacollant” “Inter-Ascoli del campionato 88-89” e li metto su una specie di nastro trasportatore che va in bocca a dove finiscono tutti i pensieri. Nel nulla cosmico.
Ora vi domanderete quale sia il vantaggio di questa pratica meditativa.
Non è facile spiegarlo per chi non ha usufruito di questi vantaggi sulla propria pelle. In pratica io mi rendo conto di occupare il 90 per cento del mio tempo giornaliero a pensare alle più svariate cose. Spesso si tratta di pensieri angoscianti, problemi da risolvere, vecchi risentimenti, progetti futuri. Si tratta del genere di cose che assediano la mente di tutti quanto noi. La spesa da fare, una vecchia delusione d’amore, il lavoro che non si trova, la ragazza che non mi chiama.
Ma dopo un po’ che penso, ecco che mi ridesto dal rimuginare su tutte queste cose. E mi dico: “cazzo, sono venti minuti che penso” per dire, “a mia nonna morta”
Ora, pensare alla nonna morta può risultare piacevole o spiacevole e se ci limitassimo a classificare così le cose che ci vengono in mente sarebbe qualcosa. Spesso però noi finiamo per definire un pensiero come giusto o sbagliato. Giudichiamo il pensiero e giudichiamo noi stessi per averlo pensato.
Lasciamo perdere mia nonna morta, ma se pensassi per mezz’ora alla mia compagna e a una strana telefonata che lei ha ricevuto alle due di notte?
Non è successo davvero, sto inventando.
Ma immaginiamo che lei si sia alzata, abbia risposto al telefono e si è affrettata a uscire dalla camera, chiudendosi la porta dietro. Credendo che io fossi ancora addormentato, ha continuato a parlare sommessamente, nell’altra stanza, per circa venti minuti. L’ho anche sentita ridacchiare, se non ho sognato. Poi è tornata e io fingendo di svegliarmi in quel momento le ho chiesto: “amore, che succede? Chi era al telefono?”
E lei: “Nessuno, avevano sbagliato. Dormi, amore”
E il giorno dopo eccomi lì che ci rimugino sopra. Chi era?, mi domando. E perché lei ha detto che non era nessuno. Non parli con uno che ha sbagliato per un quarto d’ora e ridacchi pure.
Ora, fermiamoci un attimo. Vi domando: questo pensiero è giusto o sbagliato?
Mi fa onore o no?
Una parte di me potrebbe vederlo come un pensiero necessario: Io sospetto qualcosa ma non ho avuto il coraggio di manifestarlo alla sospettata. Sto cercando di capire come muovermi, certo. Sto riflettendo sulla faccenda, ma…
Una parte di me pensa che è un pensiero indegno. La mia ragazza mi ama, ha dimostrato in mille occasioni di essermi fedele e io avevo fiducia cieca in lei, fino a…
Fino alla telefonata dell’altra sera.
Ecco. Qual è la differenza quando si inizia a fare meditazione e la cosa funziona sul serio?
La differenza è che questa cosa può capitare ma io non penso che sia giusto o sbagliato interrogarmi sull’infedeltà della mia ragazza. Piuttosto mi accorgo che ci penso da tutta la mattina e parte della notte.
Poi riconosco quali emozioni mi attraversano: sono molto turbato, seccato, arrabbiato e ho una fottuta paura che stia accadendo qualcosa di inquietante nel mio rapporto con lei, ma mi accorgo che tutta questa roba NON SONO IO.
So che dirlo non rende l’idea, ma praticando quotidianamente l’osservazione di me stesso, mi accorgo sempre più quanto io finisca per identificarmi con pensieri ed emozioni, considerandomi “quel pensiero” e “quell’emozione”.
Io però non sono il pensiero che penso. Non l’ho neanche scelto io di pensarlo. Se io potessi scegliere di non pensarlo, lo farei. Se mi imponessi di pensarlo, non credo che resisterei a lungo, perché la mia mente va riottosa dove cazzo le pare, di continuo.
Mi fa soffrire pensare all’eventuale infedeltà della mia compagna, certo. Solo pensarlo mi fa soffrire. Il dubbio mi leva il fiato. Se potessi smettere di pensarci lo farei. Ma non sono io che scelgo di pensarlo. Il pensiero è un impulso neuro-chimico prodotto dal mio cervello. E non posso giudicare un impulso. Non vi pare? Il pensiero arriva e non se ne va. Se lo allontano, torna. Poi a un certo punto sparisce e ne arriva un altro. Cosa è successo? Nulla. Nulla di cui io possa ritenermi responsabile.
Le emozioni sono collegate al pensiero che provo. Se vivo nella mia mente, un ricordo è la mia realtà del momento. Esponendomi a un antico giorno di scuola, quando mio padre si dimenticò di venirmi a prendere, io provo ancora quel senso di angoscia. Il ricordo è lontano ma l’angoscia è ora. Non esiste il ricordo di un’angoscia. Esiste l’angoscia. Ora. Sempre.
Ma se penso che quel pensiero è una cosa che viene fuori automaticamente e l’emozione è altrettanto automatica, io vivo quel momento con la stessa comprensione di un mal di testa di un mattino che è nuvoloso e non si decide a piovere. Mi spazientisco, ma che cosa c’entro io? Le nuvole producono il mal di testa. Io non sono il mal di testa. Io non sono le nuvole. Io non sono responsabile del cielo che non piove.
Quando pensate chi è che pensa?
A volte pensate voi. Dovete risolvere un problema e ci pensate.
Altre volte i pensieri vanno e vengono, sollecitati da un oggetto, un colore, un sogno.
In realtà non facciamo distinzione tra il primo e il secondo tipo di pensieri.
Beh, lo so che la faccenda si fa un po’ complicata, ma provate a stare con me.
Immaginate di stare venendo al mondo. Prima che in ospedale qualcuno vi tiri fuori per la testa, prima che l’infermiera vi sculacci e vi lavi, prima che un padre in lacrime e una madre distrutta vi abbraccino, state venendo fuori siete prima di essere nel mondo.
La natura vi mette a disposizione una serie di strumenti che vi serviranno nel posto dove state per andare, per lo scopo che la natura ha in mente per voi, che è un po’ misero e non vi basterà, farete di tutto per inventarvi qualche altro motivo, ma per lei, la natura, basta e avanza.
Qual è, questo scopo?
Svilupparvi fisicamente, sopravvivere abbastanza per riprodurvi e permettere alla prole di svilupparsi e riprodursi e poi levarvi dai coglioni. Restituire tutto quello che vi è stato prestato. Il kit torna nel grande impasto e da esso si creerà qualche cosa di utile alla natura. E tanti saluti a voi.
Ma non andiamo alle conclusioni. Torniamo al momento della nascita. Vi danno un corpo ma nessun libretto d’istruzioni su come si usa.
Vi danno una famiglia, ma non vi spiegano che i due giganti che si prenderanno cura di voi, a volte non capiscono un cazzo di niente.
Vi danno una vita, ma non vi dicono perché. Cosa ci dovete fare.
Vi danno un sistema chiamato civiltà, in grado, seguendo certe regole, di tenervi al sicuro. Per stare nel sistema però dovete bervi un sacco di cazzate e questo genererà in voi una scissione di cui alla natura frega poco e al sistema ancora meno.
I vostri genitori sono i primi a dirvi cazzate e a farne sulla vostra pelle. A un certo punto un dottore vi metterà al corrente di tutte le magagne di mamma e papà. Vi incazzerete, realizzerete, ma non è che la vostra vita migliorerà di molto.
Poverini, i genitori, anche a loro, è stato dato l’intero kit come a voi, senza istruzioni.
La società non vi dirà niente che possa davvero esservi utile a non soffrire come cani.
Soffrirete. Odierete molti dei vostri simili e certi giorni, quando vi sarete fatti male a un piede o quando avrete perso il lavoro, odierete il vostro intero paese, chi vi governa, l’amore, le persone che vi tagliano la strada, il vostro corpo che è troppo grasso, troppo sgraziato o poco magro o poco slanciato. Sarete quasi sempre troppo o troppo poco.
Questo per chi?
Per il sistema di valori arbitrario che avrete dentro voi, per il sistema arbitrario dei vostri genitori, per il sistema arbitrario della società storica in cui vi troverete a soffrire.
Una volta io mi sono tagliato. Ho ancora i segni sul braccio, coperti dai peli che in quel periodo rasavo. Ero sicuro che non avrei mai fatto una cosa del genere. Quei tagli mi ricordano quanta gente c’è dentro di me e come sia difficile tenerla tutta buona, collaborativa.
La meditazione è il primo passo per usare il mio corpo, per non subire i miei pensieri, le mie emozioni, ma usare tutto nel modo giusto, continuando a stare bene, anche se la mia compagna forse mi tradisce, magari perderò il lavoro a fine mese o se i miei figli mi preoccupano perché non fanno sport, non frequentano i loro coetanei e non amano studiare.
Come è possibile stare bene se succede tutto questo? O se penso al fatto che possa succedere?
Non lo so. Succede qualcosa. Credo sia un po’ come iniziare a far sport. Se ogni giorno, dopo che non l’hai fatto per tanti anni, ti concedi una corsetta di un’ora intorno a casa, dopo un paio di settimane, in cima alle scale di casa, non avrai più il fiatone.
Facendo meditazione succede che vedi di più i pensieri, vedi le emozioni, vedi te stesso che soffre, che si danna, che si arrabbia. Lo scopo non è smettere di pensare o di provare emozioni sgradevoli. In questo mondo non si può vivere sempre allegri ed eccitati. Non si può far tacere la mente a piacimento. Solo pochi grandi maestri dello spirito ci sono riusciti. Tu però, meditando, capisci perché succede tutto questo, lo sgami davvero. Diventi il meccanico e l’autista esperto della tua macchina. La strada sarà sempre pericolosa e la macchina potrà darti delle noie, ma saprai un po’ più come gestire le cose.
Insomma la tua vita resta forse una merda, ma tu riesci a non avercela con la merda. La merda è concime. Se inizi a usarla nel modo giusto, produrrà qualcosa di buono.
Vi faccio due esempi, così non penserete che sto solo rivendendovi le puttanate animiche di cui è piena la rete.
Un giorno ho ricevuto una telefonata dalla mia compagna. Mi ha detto qualcosa che mi ha fatto arrabbiare. Non ho reagito subito. Le ho detto che forse era il caso di parlarne in un altro momento: lei stava lavorando e di solito discutere al telefono non funziona granché. Così l’ho salutata con un filo di voce, ho riattaccato e sono sprofondato per un po’ nella mia rabbia. Non l’ho fatta uscire. Ho tirato i freni sapendo che nel giro di otto minuti circa, sarebbe probabilmente scemata.
Io sono uno che ha problemi con la propria rabbia. Chiedete alla mia ex moglie. Non sono manesco ma ferisco a sangue con le parole. Non è facile stare con me. A volte fin troppo, ma arriva il giorno che vi faccio pagare con gli interessi il bel tempo che vi ho regalato.
Insomma, dopo aver riattaccato, furioso, sono andato in camera. Mi sono messo seduto sul letto nella posizione solita e ho iniziato a meditare. Non ero sicuro che mi avrebbe aiutato. Sentivo dentro un bolo di lava che spingeva per uscire.
Le emozioni hanno una fisicità. Non so se per tutti è lo stesso, ma sale verso il petto e spinge per uscire, la tristezza invece si annida tra la gola e il torace e non si muove da lì. La gioia si impossessa del viso e lo rilassa, lo fa sorridere. Bisogna riconoscere le emozioni. Ci sono persone che credono di saperlo fare, ma iniziano a piangere con loro stessa sorpresa, a volte. O magari provano rabbia e credono di essere solo annoiate. Sapere come agiscono nel nostro corpo, come si comportano, è utile a riconoscerle e ascoltarne il messaggio.
Ma torniamo alla pratica meditativa e alla mia rabbia.
Mi sono seduto e ho concentrato la mia attenzione sul respiro, in particolare sull’aria che usciva dal mio naso. Poco dopo ho visualizzato la rabbia.
Non ho pensato al motivo della rabbia. Non sarebbe servito. Dovevo isolare l’emozione dal pensiero.
Lo dice Krishnamurti. La rabbia è sempre la stessa. Si tratta di energia. La possono provocare le cose più svariate. La reazione fisica è sempre quella. E raramente la reazione dura a lungo, se la si priva del pretesto che la tiene in vita.
Così ho smesso di pensare alle ragioni della mia rabbia e ho osservato pazientemente cosa a quel punto avrebbe fatto nel mio corpo. Ho visualizzato la rabbia come una specie di luce bianca.
Non so perché bianca.
L’ho vista salire e salire e salire dalle viscere al petto. Ho sentito che andava oltre il torace, su per la gola, un ascensore venuto dall’Inferno. Mi ha aumentato la salivazione mentre passava dalla bocca, all’ultimo piano, dove stanno le meningi e poi ha sfregolato sul mio cuoio capelluto.
Ho incoraggiato la rabbia a seguitare la sua strada. L’ho disarmata di uno scopo e lei si è infranta contro il mio cranio. Non è stata una sensazione leggera, sapete? Ho avuto una specie di vertigine. Ho sentito sudore freddo alle dita e alle game. Ma poco dopo la rabbia è come precipitata giù per il pozzo dell’ascensore da cui era salita, deflagrando in tutti i cunicoli nervosi del mio corpo, permeandomi in tutto il corpo di un senso di freschezza. Era l’energia liberata che restituivo a me stesso. Ficata, no?
Di solito arrabbiarmi molto, dopo mi fa sentire spossato. Lo sfogo disperde l’energia, che non recupereremo più. Inoltre sfogare la rabbia produce dentro di noi delle ferite: la gola brucia per aver urlato, il pugno pulsa per averlo sbattuto contro il muro e soprattutto le cose dette hanno lasciato dentro dei graffi e dei morsi.
Io ero ancora lì che respiravo forte, tenendo i denti stretti e le dita fradicie sulle ginocchia. Ma mi sentivo bene.
Ho provato a ripensare alla mia compagna ed era come se quella possibile litigata, che non era avvenuta, fosse accaduta mesi prima. Difficile essere ancora infuriati per un bisticcio di mesi prima, no? Lo si rivive nella testa con imbarazzo. Si prova un senso di vergogna per le cose che si possono essere dette o fatte durante il litigio e si pensa: “non avrei dovuto, se potessi tornare indietro non lo rifarei”.
Ecco. Stavo pensando esattamente questo mentre respiravo dal naso. Mi sentivo distante, superiore a quella litigata e il bello è che non era nemmeno avvenuta.
Non dovevo neanche rimproverarmi, vergognarmi.
Poco dopo la mia ragazza mi ha richiamato. Piangeva. L’ho consolata. Le ho fatto coraggio. Non ero arrabbiato, quindi avevo tutte le energie per riuscire a ridarle il sorriso. Volevo solo rivederla al più presto, sinceramente, stringerla a me e poi scoparla forte forte forte.
Secondo episodio.
Vicino casa mia hanno rapinato un negozio. Erano in tre. Si sono presentati con una spranga. Hanno forzato l’ingresso e sono entrati. Il rumore ha attirato l’attenzione dei proprietari che abitano sopra il negozio. Sono scesi ma i tre non hanno fatto una piega. Hanno svaligiato il negozio davanti a loro. Uno ha tenuto la trave in mano tutto il tempo, ma non è stato quello a spaventare i proprietari derubati in diretta. Sono rimasti atterriti e impotenti per il modo disinvolto e misurato con cui questi tre, evidenti professionisti, hanno portato via tutto.
Un raid da manuale, in un negozio di alimentari. Una storia terrorizzante, no?
Uno si mette subito nei panni dei poveri negozianti derubati. Pensa alla sfacciataggine, la brutalità dei criminali… E si domanda la classica cosa: “tu cosa faresti in una circostanza del genere?” “Avresti le palle di fare qualcosa?”
La risposta non è sì o no. Puoi dirti sì, ma non lo sai davvero. Devi trovartici. Inizi un dibattito interno che ti fornisce anche tutta una serie di immagini mentali di te che aggredisce i ladri e con calci volanti e pugni spacca ossa. Poi arrivano altre immagini di una trave che ti scende più volte sul cranio fino a spappolare in mille pezzi la tua esistenza, mentre il suono della voce di tua moglie ti urla noooooohhhh e i tuoi bambini piangono paaaapaaaaaaà!
Il mondo fa paura. Tu sei debole e indifeso. Che senso ha lavorare onestamente se arriva qualcuno che ti porta via tutto così? Dove stavano i carabinieri?
Ero angosciato da questa storia, più di quanto mi sarebbe piaciuto. Nel senso che ci ho pensato tutto il giorno. Non riuscivo a smettere. Al momento di meditare, ovviamente la testa è tornata sulla questione, perché voleva risolvere la faccenda. Mi ha domandato per la millesima volta: “Padrecavallo, sei debole o hai qualche speranza di difendere la tua famiglia dai ladri con la spranga?”
“Padrecavallo, devi mica farti il porto d’armi?”
“Padrecavallo, devi lasciare che le cose avvengano e subire?”
Poi la mia testa, all’improvviso, ha sterzato su tutta la faccenda, ed è stato come il fiatone che ti aspetti in cima alle scale, ma che dopo un mese di corsette intorno a casa, non c’è quasi più.
Ho iniziato a immaginare tutto l’accaduto a velocità avanzata, come una comica di Chaplin, con la musica drammatica e tutto il resto.
Ho pensato che il dolore nasceva dal bisogno di avere qualcosa.
Questo sistema ti dice che devi avere delle cose chiamate soldi. Se non le hai sei nei casini. Tu le hai e ti illudi di stare al sicuro. Viviamo tutti in un sistema sociale ma siamo terrorizzati che qualcuno ci porti via i soldi che abbiamo. Chi non li ha, spinto dal terrore, si inventa qualcosa per portarli via a noi che li abbiamo.
Ma che razza di sistema di campare è?
La gente che te li porta via, è messa male come te, perché si illude di stare al sicuro, ora che li ha lei. Ma immaginerà di ricevere la visita di qualcuno con la spranga, prima o poi.
Non so spiegare bene, ma mi sono ritrovato a ridere e a pensare che negozianti e ladri, se si vedessero dall’alto, riderebbero anche loro per ciò che hanno vissuto. Ho pensato che i soldi sono di chi li vuole di più. E che non ha senso rischiare la vita per dei cazzo di soldi. Non è questione di coraggio o di paura. Si tratta di intelligenza. Sono solo dei cazzo di soldi. I soldi sono il veleno che ci tiene tutti qui. Ne hai bisogno più di me? Accomodati. Io mi tengo la sola cosa che non voglio perdere. La mia esperienza su questa terra.
Spesso ci troviamo, senza pensarci molto, protagonisti di un frenetico balletto dell’avere e il non avere. Quindi all’improvviso ho realizzato che non sono nemmeno sfigati i negozianti e forti e temibili i ladri. Sono tutti stronzi immersi nella stessa mota economica. E moriranno tutti, anche il tipo con la trave in mano, poveri, affamati, disperati. Perché non ci saranno mai abbastanza soldi e non si sarà mai abbastanza sicuri che nessuno ce li porti via una notte. E questo perché i soldi non ci eviteranno di fare la fine che ci meritiamo. Punto.
Sono pensieri incoerenti, irrazionali, ma dopo averli avuto, alla fine della meditazione, mi sono alzato e mi sono sentito liberato da quell’angosciante situazione che mi ostinavo, per motivi inesplicabili, a proiettare su di me.
Ecco, spero di darvi un’idea di ciò che mi sta succedendo. Di più non so, per ora.
Vi assicuro che sto bene, sto bene. Anzi, sto proprio alla grande.
Tornando a Sdangher, al volo vi dico i programmi futuri. Scriveremo e spaccheremo ancora a lungo con articoli di approfodimento, polemiche, cavalli, metal, horror, negri, pornodive e no… niente recensioni, per dio!