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La croce e l’arte – Sopravvivere e imparare in questa vita di merda

Ho sempre invidiato gli uomini che sono passati attraverso i grandi eventi storici o le esperienze più estreme. Sapete come mai? Perché sono uno scrittore, vale a dire una persona nevrotica che prova un temporaneo senso di sollievo quando riesce a esprimere le proprie paranoie e inquietudini attraverso la tastiera di un computer o una penna e un foglio. Nella mia vita ho avuto la mia piccola serie di drammi: li ho accolti con un vago e laterale senso di compiacimento. Mentre soffrivo prendevo nota. Funziona così la mia testa. Evito di dire che gli scrittori sono tutti a questo modo, ma in fondo lo penso. Se mi accade un fatto brutto, un pezzo di me piange e si dispera, un altro pezzo, quello che sta sopra e vede tutto come se fosse la vita di un altro, infila appunti su appunti da qualche parte della propria mente, in attesa di scrivere il Grande Romanzo che trasformerà quei fatti in qualcosa di poetico e di epico.

Essere uno scrittore, per quanto mi riguarda, significa affrontare la vita come un terreno di caccia da cui rubare tutto quello che può servire alla creazione artistica. Se un mio vicino di casa si impicca e io intravedo il suo corpo appeso alla finestra, mentre passo davanti casa sua, io mi tuffo su questo evento con una voluttà tremenda. E ho compassione delle persone che, vivendo episodi così traumatici, poi non sappiano cosa farne a parte rimuoverli.

In realtà il meccanismo della sublimazione dovrebbe essere noto a tutti quanti, ma ci sono molte persone che hanno un sistema di smaltimento davvero efficiente e non riescono a vivere troppo a lungo in compagnia delle cose disgraziate che gli capitano. Le buttano via, nella pattumiera sottostante, che ahiloro, non verrà mai svuotata e olezzerà depressione e nevrastenia, guastando ogni momento di gioia e tranquillità.

Con la mia natura di scrittore ho vissuto ogni esperienza con un certo scarto di distacco. Mi innamoravo? Mi guardavo amare. Diventavo padre? Mi guardavo diventare padre. Assagioli mi ha spiegato che quel distacco è piuttosto comune e si chiama Sè Superiore, o qualcosa del genere.

Ma con buona pace di quel simpatico vecchietto, io ho sempre vissuto il mio Sè con vergogna e con gioia insieme. L’ho visto come un privilegio perché in fondo in fondo non ero mai completamente dentro la vita e questo mi impediva, o meglio, mi illudeva, che in questo modo, non sarei mai morto completamente.

La non morte era ovviamente la scrittura. I libri sono voci di morti viventi. Anche se l’autore è vivo, non è più vivo la versione di lui che ha scritto quel libro, ma torna a esistere appena iniziamo a leggerla nella nostra testa. La lettura è il mezzo per comunicare con le voci dei morti. Le voci mostrano mondi, esperienze, sogni che non abbiamo mai sognato e non potremmo sognare. Ci aiutano a fare scelte, ad avere coraggio e a comprenderci un po’ di più.

Ma io scrivo e non sarò mai un vero lettore.

Il vero lettore non ha interesse, come diceva la poetessa Szymborska, a capire “come funziona”. Legge per i contenuti, ascolta le voci fino in fondo. Lo scrittore invece spesso legge invidiando, rubando, criticando le voci dei morti.

Chi scrive è davvero un essere sfigato, in realtà.

Ma si sente un privilegiato, un eletto, un genio, quando ha la capacità di scrivere qualcosa che lo soddisfi a pieno. Almeno finché non si accorge che nessuno la legge o peggio, leggono e non capiscono. Sia chi lo critica che chi lo elogia.

Scrivere, come dicono in psicologia, è una terapia sintomatica. L’arte tutta è una terapia sintomatica. Molti scrittori, musicisti (anche di successo) si ammazzano a un certo punto. Il mondo si chiede perché, ma il motivo è semplice: creare non guarisce, anestetizza momentaneamente dal dolore.

Ci sono vari gradi di dolore e varie soglie di sopportazione. Per quanto mi riguarda, se sono ancora qui, vuol dire che è come dicono certi protestanti: Dio mi ha dato la croce che posso reggere. A volte dio sbaglia a distribuire le croci, però. A un ragazzino di otto anni gliene da’ una di un nazista sopravvissuto e traslato in Argentina e viceversa. Quello vive e il bimbo si impicca.

Scrivere quindi non salva da un bel nulla, illude soltanto che il dolore provato sia utile a qualcosa. Abbiamo una mentalità capitalistica. Se una cosa non si traduce in merce, allora è inutile. Il divorzio da mia moglie può diventare un best-seller, quindi bene. L’angoscia che provo di notte, può trasformarsi in un racconto su un succubo o qualcosa del genere. In Italia non ci fai un soldo con un racconto horror, quindi è inutile che resti sveglio di notte ad angosciarti.

Sto provocando, in realtà l’angoscia, il dolore sono necessari e hanno una precisa funzione, ma possiamo iniziare a capirlo quando ammettiamo che la scrittura non ci salverà dal dolore e dalla mancanza di senso, come l’Aulin non ci libererà da un tumore al cervello.

Dobbiamo imparare a decifrare i messaggi del dolore e di tutte le altre emozioni. Noi le percepiamo come onde di pensieri ossessivi da cui spesso non riusciamo a liberarci, ma sono altro.

Le emozioni comunicano al fisico. Il fisico però non le capisce. Le subisce. Da qui l’angoscia di notte. Da qui il divorzio da una moglie.

Purtroppo a scuola non ci spiegano come si fa a mettere in comunicazione il corpo e le emozioni. Non ci insegnano nemmeno le emozioni.

Per insegnare le emozioni a un ragazzino di dodici anni, bisognerebbe fargli leggere Beastars e non I Sepolcri di Foscolo.

Perché un adolescente dovrebbe misurarsi con dei testi di una complessità tale che nemmeno ora, a quaranta e passa anni, riesco a trarne qualcosa di utile per la mia anima? La Gerusalemme liberata, I promessi sposi…

I ragazzi dovrebbero iniziare con qualcosa di più comprensibile perché loro non hanno bisogno di capire i segreti della metrica poetica, ma di dare un nome alle emozioni che li attraversano. Questa funzione non la svolge la scuola, ma Netflix e i Manga, per ora.

Ah, la scuola. Lì ci insegnano le cose importanti, tipo dare il resto alla cassa, contare bene i soldi prima di entrare al supermercato. Ci dicono che Gino, se ha cinque lire, non può certo comprare 20 mele. Se una mela costa una lira, quante lire deve avere Gino per comprarne venti?

Non ci spiegano come Gino farà ad averle, magari si prostituirà con qualche vecchio del vicinato o forse le ruberà alla nonna arteriosclerotica.

E peggio, che ci deve fare Gino con venti cazzo di mele?

Magari vuole lasciarle marcire e poi correre a tirarle sulla macchina del preside.

Non ci fanno un corso sulle emozioni. Non ci mettono lì, un quarto d’ora al giorno, a meditare. Ai miei tempi ci chiedevano di dire il Padrenostro, all’inizio e alla fine delle lezioni.

Mi succedeva alle elementari. Quando eravamo tutti pronti a uscire, con gli zaini in spalla, stanchi e affamati, la maestra ci dava il segnale della preghiera. Senza dirla non si usciva. Giungevamo le mani e iniziavamo a recitarla.

Io non ne capivo una parola. Blateravo a memoria quella roba pensando di fare presto e andarmene. Puro spirito cristiano-cattolico, come avrei scoperto dopo.

Con il tempo mi sono accorto di come la preghiera sia anch’essa una forma di meditazione e che sarebbe utile per il mio benessere interiore, se la praticassi in modo corretto.

La mia maestra non sapeva nulla di tutto questo. Non ce l’ho con lei. Il protocollo imponeva il Padrenostro alla fine delle lezioni e lei pure voleva andare a casa a preparare il pranzo.

Io e un mio compagno di banco eravamo particolarmente irrequieti durante la preghiera. Quindi interpretavamo questa preghiera con una certa “fisicità”. Lui diceva le parole con molta decisione e in modo ritmico, mani giunte e piedi giunti, sporgeva il busto in avanti, compiendo degli inchini perfetti. Io invece ero più aerobico e puntando prima tutto il peso su piede sinistro e poi sul piede destro, mi dondolavo pronunciando le parole con meno foga del mio amico e più rilassatezza. Facevamo sempre così. Sfogavamo la frustrazione di fare qualcosa che ci teneva fermi e disancorati da noi stessi.

Un giorno la maestra, stufa dei nostri movimenti, interruppe la preghiera urlando: “fermiiiii!”

Lì, dio scese tra noi, per un momento. I nostri compagni di classe iniziarono a ridere e anche Gesù rideva, perché lui era sempre partecipe della gioia dei fanciulli.

Ecco tutto quello che mi hanno insegnato a scuola sulla preghiera.

E ora sono cresciuto. Ho quarant’anni e studio davvero tanto. Leggo la Storia, la Filosofia, la Psicologia. Seguo in modo febbrile lunghi percorsi che mi portano da Adler all’energia sessuale, dalle tre guerre d’indipendenza italiane alla Secessione, lo schiavismo dei neri a Emerson. Dovrei già conoscere tutto questo ma al tempo in cui studiavo, vivevo l’ingurgitamento coatto di informazioni come un doloroso stupro quotidiano e una volta a casa lo rivomitavo nel cesso.

Non ero un bravo studente.

E oggi mi faccio un culo così a studiare, con la differenza che quanto leggo e approfondisco, io assorbo tutto con grande voluttà. Perché studio quello di cui ho bisogno per capire meglio la merda in cui mi trovo e per dare un verso ai miei pensieri angosciosi.

Aiuto mia figlia a studiare. Lei è alla terza media. Vedo la stessa mancanza di interesse, il vuoto negli occhi quando ripete parole come “modello liberale moderato” o “Secondo Giuseppe Mazzini, il popolo andava educato all’insurrezione…”

Mia figlia non userà mai i termini insurrezione o modello liberale.

Un giorno lei e la sorella più piccola hanno litigato.

La prima si è chiusa in un silenzio di marmo e l’altra è corsa a piangere in cameretta, sconvolta dalle parole che aveva detto e che si era sentita rivolgere dalla sorella a cui chiedeva, in fondo, solo un po’ d’attenzione. Beh, forse un bel po’.

Cose tipo: “ti odio” “io non ti voglio più come sorella”, avete presente, no?

Sono andato dalla piangente. Era lì che tremava e cercava inutilmente di opporsi alle lacrime, mordendosi le labbra e stringendosi le ginocchia con le manine. Mi sono seduto davanti a lei. Le ho preso le mani e ho iniziato a descriverle la rabbia che aveva dentro. Le ho fatto vedere una piccola palla di fuoco che saliva dal basso verso il petto e glielo gonfiava. Le ho detto con molta calma che quella palla di rabbia era una cosa preziosa e che non doveva lasciarla scappare. Dentro c’era una gran quantità di energia buona che l’avrebbe aiutata a stare meglio più tardi.

Le ho detto di lasciarla salire dal petto alla gola e poi più su verso la testa e intanto respirare piano, respirare con calma. Prendere aria e lasciare che la parte cattiva di quell’energia uscisse via. Lei mi ha ascoltato, prima controvoglia, poi sempre più convinta. Non so se è stato utile, ma poco dopo ha smesso di piangere.

Sono passato alla sorella, che era muta e indifferente a tutto, davanti alla TV. Volevo abbracciarla ma lei da un po’ è come se sulla pelle abbia una sfilza di aculei che spuntano ogni volta che mi avvicino. Le ho detto: “hai ragione”

Lei mi ha guardato.

“Certo che ho ragione”

“Ma anche tua sorella ha ragione. Tutte e due avete ragione”

“Ma per me la ragione diventa torto se vi dite cose tanto brutte per dimostrarlo”

Non mi ha risposto.

Due ore più tardi eravamo intorno al tavolo a scherzare su tutto.

Posso insegnare alle mie figlie quello che sto imparando io?

No. Sapete perché?

Perché solo quando inizieranno a cercare da sole, impareranno.

Si comincia a imparare davvero, dopo quarant’anni di dolore, alienazione, rapporti tossici, depressioni. Per quanto mi sia insopportabile il pensiero, anche loro dovranno attraversare tutto quello schifo. Magari intanto dipingeranno o scriveranno.

Spero solo che la croce che hanno sulle piccole spalle, sia su misura per loro.