Nell’album precedente abbiamo meditato sui morti, sui misteri della morte, su una storia che muore, sull’abbandono e sulla voglia di rivoluzione. In questo album i morti vengono nutriti e risvegliati e gli viene dato un nuovo scopo. Qui abbiamo il potere di far tremare il silenzio e illuminare l’oscurità. I morti non sono morbosi: ridono mentre le loro ossa si muovono. Sono persone di un posto molto tranquillo. Non ci possiedono con ricordi nostalgici. Sono venuti a manifestare nuove possibilità, a sfidare i nostri presupposti e le nostre auto-imposizioni.
Ecco un altro gruppo black metal su Sdangher a distanza di nemmeno un mese. Gli altri erano i Fluisteraars o come si scrive. Troppo per i miei gusti, ma cosa volete, al momento mi si piglia così. Signori equini, ecco i Mehenet di New Orleans.
Chi legge Sdangher sa… (anzi, a dire il vero non sa perché li ho scritti durante l’estate ma devo ancora pubblicarli tutti) che amo il metal di New Orleans (sapete no, Down, Crowbar, EyeHateGod, Superjoint, Goatwhore, Exhorder, Soilent Green, Acid Bath…). Ed era un po’ che non saltava fuori un nome interessante, soprattutto in ambito black metal. Sappiamo che la Louisiana non è stata terra così fertile in questo ambito, quindi a maggior ragione, voglio occuparmi dei Mehenet.
Mehenet. Ancora un nome difficile da ricordare. Sembra una forma di dissenteria araba e forse lo è per quanto ne so, anzi non ne so.
Poco importa, sarà una divinità sfiga dell’antico testamento o giù di lì. Parliamo di cose vere: i Mehenet sono in giro da sei anni. Sei anni e due dischi. Il primo, Dii Inferi, uscito nel 2018 su bandcamp e tutt’ora venduto per vie indipendenti, è un estremo tradizionale. Ci sono le solite cose da disco cattivo e con i calli al culo dovuti al gelo del grande nord: voce urlata dal cuore della raucedine infernale, ritmi scotennanti, innesti ambientevoli, chitarre catarrali e così via. Anche i temi vanno un po’ da tutte le parti: dalla Storia (The Orphans of Bakunin and Pisarev, che se non lo sapete sono due esponenti della corrente filosofica nichilista); interpunti giudaico-anticristiano (Aceldama) e rimandi alla letteratura ottocentesca (Carmilla, Through the Eyes of Lautréamont) oltre a variazioni lessicali nordiche (Carmilla è cantanta in teteschen).
Ora, se i Mehenet avessero proposto un altro disco come Dii Inferi, che non è male, sia chiaro, ma se non si fossero schiodati dagli standard ordinari di quel disco lì, non staremmo qui a parlare di loro. Il secondo album segna infatti una specie di conversione religiosa. Ng’ambu – Onde Exu Acena Como Uma Fogueira, questo è il titolo, è un parte un disco black normale e in parte una messa ispirata al culto religioso denominato Quimbanda. Una cosa africana che ha attecchito tanto a New Orleans. Immaginate, Afro-dionisiaco e black metal per la gioia di Varg Vikernes.
Siamo nella dimensione della musica esoterica, ritualistica, mescolata ai consueti scaracchi metallari. E il vero limite di Ng’ambu è proprio questo. Come tutte le composizioni imbevute di liturgiche strane, di invocazioni e di religiosità spinta, manca di ciccia vera. Prendete un qualsiasi disco dei Black Sabbath o dei primi Mayhem e spazzerà via tutto questo briccolage cultista dei Mehenet.
Non voglio mancar loro di rispetto. Non ho nulla in contrario nelle celebrazioni fideistiche. Loro credono a ciò in cui credono e questo mi va bene. Anzi, è anche una roba figa. Sapete no, il voodoo e simili per le strade più periferiche di New Orleans + blast-beat + Amon Düül II + Emperor. Però prendono l’ennesima cantonata nel voler usare il metal (o il rock) per qualcosa che dovrebbe essere profondamente privato, vale a dire la preghiera a certe divinità sommerse e non canalizzano questa loro grande anima in connessione col tutto, nella musica. Ciò che alla fine conta sono le canzoni, sempre e comunque. Quelle fanno piangere, convertono alle tenebre, sostengono sul tapis-roulant della vita.
Il vero sacro va scatenato con la musica, gli accordi, la melodia. Puoi darci dentro di tamburello e cori in linguaggi strani, puoi randellarci di strani nomi e mantrizzarli in mezzo a una coriandolata di accordi al brasato di gain, ma cosa mi stai cantando e suonando?
Ecco, a un certo punto della lunga e introduttiva Dona sete, i Mehenet fanno una specie di rivisitazione non so quanto conscia, con le campane e tutto, di Black Sabbath; solo che le tre note che rintoccano sembrano al contrario rispetto all’originale (il minuto cinque e quaranticinque). Nulla di male, ma vorrei capire come mai Dona Sete dei Mehenet a tratti mi susciti anche qualche risolino e almeno un minuto e mezzo di torpore, mentre i tre accordi di Black Sabbath mi squadernano il tetto di qualsiasi chiesa in cui mi voglia rifugiare.
Iommi, Butler, Ozzy e Ward non ne sapevano granché di Quimbanda o di Re Salomone. Avevano sentito parlare di Crowley ma fermati lì. Eppure senti quel pezzo e c’è tutto l’occulto che non troverete nei Coven, e questo perché?
Ve lo dico subito. Perché i Coven o i Mehenet non riescono a evocare l’occulto che c’è in voi. Per tirarvelo fuori, solo la musica molto ispirata può servire allo scopo. E la magia si fa insieme. Non basta la band. Davanti agli accordi giusti si schiude il passaggio segreto del pifferaio. A quel punto succede l’imponderabile: Satana vi sfiora la spalla e avrete i brividi che cercate. E anche quelli che non avreste mai voluto provare.
Ma i Black Sabbath, i Mercyful Fate o anche gli Scooter e i Sisters Of Mercy, fate voi, sono dei tramite, medium inconsapevoli. Aprono porte che non sanno nemmeno loro e da quei varchi non si sa bene cosa vien fuori. La sola cosa che io personalmente so è che ogni volta che spingo play e parte Come To The Sabbath dei Black Widow, si allarga nel mio petto un sentiero di alberi e di rugiada, la nebbia si scioglie su un muso caprino e due belle chiappe grasse di strega.
Però, i Mehenet non sono da buttar via. Ng’ambu e Ng’ternu è un buonlavoro, solo un po’ pretenzioso e temo, sterile al genere di scopi che la band ha creduto di indirizzare l’universo. Ammetto che però preferisco questo genere di lavori irrequieti, che in parte se la rischiano con qualcosa di vicino allo sperimentale. Per dire, in Horse Of The Earth si sentono dei cani che abbaiano, una festa in musica dentro qualche locale di New Orleans e poi giù, a valanga arrivano tre accordi pestiferi dal nord e ghiacciano il sudore della notte negra.
Insomma, meglio i Mehenet di quei gruppi sempre pronti a rivenderti la ricetta di terza mano del discone trueista pulperground di cui il mercatino dell’usato metallaro è ormai intasato come una fogna sfinterizzata dai fantasmi di Fenriz, notoriamente stitico.
Non si prega quando si fa metal. O meglio si può anche pregare, ma usando gli strumenti del metal, non le cose etno-percussive comprate al discount musicale.