E TU VIVRAI FRA I CD – L’ALDIQUÀ

Io e Padrecavallo abbiamo tanto in comune: ci piace il metal, il classic rock di gente come Alice Cooper e Aerosmith, il cinema horror (la recensione del bellissimo “Il messia del diavolo”, di recente, ha quasi trasformato la mia stima nei suoi riguardi in attrazione omosessuale), leggere robaccia filosofica e/o psicologica, scrivere di musica, inventare storie, eccetera.

Ogni volta che disquisisce di musica liquida e musica solida, però, mi trovo in disaccordo con lui. E non tanto perché il sottoscritto sia uno che continua a comprare CD, ma perché questo è uno dei pochi argomenti che a parer mio (poi magari sbaglio) Francesco non riesce a centrare. Spiego perché.

In linea generale è inesatta la narrazione che vuole l’acquirente di musica fisica refrattario, se non in aperta contrapposizione, all’utilizzo dello streaming. Chi acquista CD o vinili, ormai da anni, usa anche YouTube e Spotify, pur facendone un uso “ragionato”; le nuove generazioni sono per la musica liquida, certo, ma non è di loro che si parla nell’articolo di Francesco. Se si vuol far passare acquirenti e collezionisti come gente manichea nei riguardi dello streaming, insomma, si distorce la realtà.

Una certa tipologia di fan la riconosci proprio perché non si lascia sfuggire alcuna possibilità di ampliare la conoscenza di questa musica, e la sete di conoscenza passa anche attraverso la natura fisica ed extra-musicale di un album: il logo anti-Scott Burns su “Deathcrush”, per esempio, dice moltissimo della primigenia scena black metal.

La frase ‘and nobody played synthesizer… again’, su “Queen II”, ha una sua storia dietro, ma se ascolti l’album su Spotify non la vedi neppure. Vogliamo parlare poi del fumetto ideato appositamente da Neil Gaiman per il booklet di The Last Temptation di Alice Cooper, parte integrante del concept? O di certe copertine intimamente connesse alla musica proposta?

Questo discorso mi conduce a un altro malinteso comune, ovvero pensare che l’acquirente di musica fisica sia materialista e l’appassionato di streaming più vicino all’essenza della musica. È esattamente il contrario: l’acquirente di musica fisica è un romantico, un idealista, uno che vede la musica in un’ottica più ampia (artistica, se vogliamo), in grado di coinvolgere anche altri sensi, dalla vista al tatto. Perché questa è stata la musica, prima che internet la impoverisse: un’esperienza pluri-sensoriale.

Bisogna inoltre distinguere gli “acquirenti” dai “collezionisti”, essi sì universi separati: sono in pochi ad acquistare ‘sette volte lo stesso disco‘, e spesso per un numero limitatissimo di gruppi/album. La maggior parte della gente compra per ascoltare, non per collezionare. Chiaro: se uno ha un conto in banca importante, ed è un collezionista, di versioni diverse ne compra pure dieci, ma ribadisco, percentualmente sono una minoranza risicata. Aggiungo che, col crollo dei prezzi dei CD e le ristampe economiche di opere un tempo introvabili, oggi è più facile edificare in breve tempo una “parete” di album in formato fisico. Io ho comprato più CD negli ultimi quattro anni che nei dieci precedenti, spendendo perfino meno.

Il punto sul quale mi trovo maggiormente in disaccordo con Francesco riguarda la sua concezione del CD, ritenuto solo ‘un misto di plastica e carta‘. Per Padrecavallo, la musica non si può catturare e ‘metterla in una teca‘.

Premettendo che la musica è rimasta “in una teca” dall’invenzione del cilindro fonografico (1878) fino ai giorni nostri, mi riaggancio a quanto già detto altrove e aggiungo che attraverso “l’oggetto”, la musica diventa qualcosa di maggiormente personale. Il modo in cui si entra in possesso di un CD cambia da persona a persona e questo già crea un legame più profondo, una storia. Un album in streaming non puoi regalarlo, per dire, né collegarlo a un luogo, mentre io ricordo perfettamente che From The Inside di Alice Cooper mi è stato donato (e poi l’ho rivenduto); che Cat Scratch Fever di Ted Nugent l’ho preso a Lecce, Ace Of Spades a Roma, Hellraiser dei Krokus a Faenza.

Anche gli store online sono diversi tra loro, nella gestione e nei contenuti, e per chi ama navigare è sempre un piacere scoprire il catalogo di qualche nuova realtà. Invece Spotify è uguale su ogni desktop o cellulare: un tale che abita in Uzbekistan aprirà Spotify nella stessa e identica maniera di un tizio che abita a Pizzo Calabro e avrà a disposizione gli stessi, identici album.

Dov’è la magia?

Le dinamiche della musica liquida sono uguali per tutti, lo streaming non cambia da cellulare a cellulare. Ergo, la musica liquida è massificante. Spersonalizza. Quella fisica crea una storia e quindi personalizza, ha una valenza identitaria.

Una cosa giusta, però, nel suo articolo sulla musica fisica e liquida, Francesco l’ha detta senz’altro: gli scaffali di dischi alle spalle dei metallari che fanno recensioni in video ‘sono uno sfoggio subliminale un po’ sborone di competenza e di fedeltà alla causa’. Vero, verissimo. Ed è giusto così, perché se c’è una cosa che la musica liquida ha inasprito è l’ascolto da catena di montaggio; l’eccesso di offerta ci spinge spesso (non sempre, per fortuna) ad ascoltare un lavoro un paio di volte e poi, bello o brutto che sia, a passare oltre, laddove la musica fisica ha avuto il merito, storicamente, di tenerci incollati allo stereo anche solo per dare un senso alla somma spesa, e a fruire ogni album un numero abbastanza ampio di volte per poterlo giudicare con cognizione di causa. Ci ha insegnato ad approcciare la musica in maniera non-frenetica. Quanto ai CD rimasti nel cellophane, citati dal nobile equino nel suo articolo, la spiegazione è semplice: album che si conoscono già a memoria e che si preferisce preservare.

Più commenti leggo in rete, più mi convinco invece che dietro molte stroncature ed esaltazioni incomprensibili si celi un ascolto “liquido” della musica. Perché veloce, facile, privo di rischi e di costi… proprio come la possibilità di lasciare commenti deliranti in giro per la rete, su questo o quell’album.

Concludo il mio intervento citando una frase pronunciata da Francesco durante un’interessante intervista per i tipi di “Si stava meglio quando si stava metal”. A proposito delle riviste, e della differenza con lo starsene seduti sul cesso a leggere una webzine con lo smartphone, ha avuto modo di affermare: ‘La rivista ha tutto un altro ritmo‘. Ma se nella musica conta l’essenza, allora anche nella saggistica dovrebbe valere lo stesso discorso: indipendentemente dalla qualità dello scritto e dal “ritmo” (qualunque cosa significhi), non dovrebbe esserci differenza tra un articolo di approfondimento pubblicato da Metal Italia e uno pubblicato da Classix. Perché se un CD è solo ‘un misto di plastica e carta‘, allora una rivista è solo ‘un misto di punti metallici e carta‘. In quest’ottica, webzine e fanzine cartacea sono la stessa cosa. Ebook e libro, anche. Film visto per caso su Netflix e film faticosamente reperito in blu-ray, pure.

Nondimeno, a pensarci bene, le alternative c’erano già un tempo ma si cercava comunque l’oggetto: i film passavano gratis in TV, ciò nonostante per certe pellicole volevamo a tutti i costi la VHS originale e magari la locandina. I CD e le musicassette ce le facevamo duplicare, ma tutti quei CD-r e quelle TDK ci mettevano un po’ di tristezza. Il libro potevi prenderlo in biblioteca ma se poi finiva per piacerti, per piacerti davvero, lo volevi tutto per te su una mensola.

Perché? Chissà. Forse perché una parete di libri, o di CD, o di film in formato fisico… le riviste impilate… le mensole piene… offrono un’immagine precisa di ciò che siamo o siamo stati. Non è banale ostentazione, è un modo di presentarsi agli altri, una stretta di mano invisibile che evita i filtri e le ambiguità. Talvolta, serve a noi stessi come promemoria.

L’essenza della musica non risiede solamente nell’ascolto, ma anche nei legami immateriali che crea dal nulla, nei percorsi che disegna e che per molti, piaccia o meno, hanno spesso la forma quadrata di un CD o di un vinile infilati nelle loro custodie.

Anche su questo, io credo, vale la pena riflettere.