Ancora una volta eccovi una band interessante e ancora una volta ecco un nome difficile da ricordare. Dordeduh. Si pronuncia Dordedù o Dordédu? Essendo un gruppo romeno, propendo per la seconda possibilità, ma solo d’istinto.
Anyway, Dordeduh significa una roba tipo “dono dell’anima”. La band è stregonesca, tanto per cambiare, ma nella migliore accezione. Eh, sì, ormai se vuoi capire qualcosa di metal devi fare un corso accelerato di esoterismo. Ti basterebbe frequentare un po’ i libri di Crowley, Gardner o Eliphas Levi e trovare almeno la metà dei nomi e dei titoli black-folk-raw-kvlt metal mondiali. Il disco Har (che starebbe per grazia) è tutta una roba sul divino, la trascendenza e la connessione tra uomo e circondariato condominiale. Ma nulla di tutto questo avrebbe importanza se non ci fosse sotto una musica potente e ispiratrice. E raramente le menate magistiche riescono a influire sul pubblico senza una sequela di riff azzeccati. Sono convinto che se Tony Iommi fosse stato come Edmond Karban avremmo avuto un nuovo rinascimento spirituale, invece possediamo solo una lunga collezione di canzoni che su un piano animalesco ci trascinano nelle viscere dell’Io, ma dopo un po’ non sappiamo cosa fare lì, e allora torniamo in superficie, tali e quali a prima e in cerca di una canna.
Ma torniamo a parlare dei Dordeduh. Di loro probabilmente già saprete tutto. O forse non ne sapete nulla. Sintetizzo per chi ha il dito pigro: discografia corta, due album e un EP in undici anni. Prima che gli diate degli stitici o degli inconcludenti, sappiate che due quarti della band era nei Negură Bunget. In specifico il polistrumentista senza capelli Sol Faur e il già citato Karban, già noto con il nome artistico di Hypogrammus.
Un giorno questi due, dopo aver composto i primi quattro dischi dei Bunget, all’apice di carriera con l’album OM, decidono che non ne possono più del batterista Negru e si dichiarano fuori. Ripartono con i Dordeduh (l’EP e il disco vengono fuori nel giro di due anni) ma si incagliano presto.
Il motivo ufficiale è che “con questa musica nun ce se magna” e che Karban diventa papà. Dopo il primo figlio, mentre è ancora lì che cerca di capire cosa cazzo stia succedendo nel suo cuore e nella sua mente, ecco che la moglie continua a tirarne fuori dal cilindro vaginico altri due (Cilindro vaginico è orribile, lo so). E così, dal 2012, si fa presto il 2021.
Karban non ha solo avuto poco tempo per via degli impegni come padre, ma anche a causa del Covid. Di punto in bianco si è infatti ritrovato senza fonti di guadagno e ha dovuto prendere la famiglia e trasferirsi in campagna, riducendo considerevolmente le spese. Non so se magari abbiano finito per vivere a lume di candela, cacciando selvaggina nei boschi romeni con gli strumenti etnici usati sui dischi dei Negură Bunget. Quello che conta è che Karban sia riuscito a cavarsela e che abbia ricominciato a fare dischi.
L’album Har, così pieno di suggestioni, enfio di musica, vario e incazzato, è venuto fuori in una serie di notti, dopo che Hypogrammus/Karban metteva a letto i figli. Io immaginavo, durante l’ascolto di Har, posse di antichi guerrieri barbuti e panciuti con la bocca piena di sangue animale, mentre gridano alla luna cose incomprensibili per la luna stessa, o magari stese di nuvole e palazzi glaciali che si sciolgono al sole e deflagrano su un esercito di bambini spaventati con il viso sporco di Nesquik, ma dopo aver saputo il retroscena, ora mi si intrufola sempre più spesso un uomo in pigiama e ciabatte, terrorizzato all’idea di svegliare i propri figli, che suona piano una chitarra collegata a un vecchio PC che spesso si incaglia. Va beh…
Karban è un tipo interessante. Nelle millemila interviste rilasciate per promuovere Har, sono due le cose rimastemi impresse. Due. Vi sembrano poche? Forse non leggete le interviste promozionali delle band, ecco come mai non vi meravigliate che io ricordi qualcosa.
La prima riguarda la sistematica deforestazione della Romania, che pare stia avvenendo davanti all’omertosa Europa e nel silenzio generale dei media. Tutti pensiamo che lì ci sono i boschi. Ogni volta che parlo con una barista romena, le dico dei boschi e di come deve essere bella la sua terra”. Magari annuisce e se la ricorda così, ma è in Italia a far cappuccini da dodici anni e non sa che zak e zak e zak, la sua terra vista dall’alto è una zucca da donna con l’alopecia. Che orrore!
La seconda cosa che dice Karban nelle interviste promozionali una cosa apparentemente bislacca, ma che a pensarci meglio, tanto bislacca non è. “Le giornate”, dice lui, “sono sempre più brevi. Il tempo sta diminuendo!”
Sarà anche una cavolata ma ascoltando Har, ho l’impressione che non si tratti di un normale disco. C’è talmente tanto lì dentro. Probabilmente è condensata la creatività di dieci anni, quindi deborda di note e fanfare, ma prendete ogni singolo pezzo e ditemi se non vi sembra compresso in una cornice troppo corta per contenerlo tutto.
Descânt, per dire, ha un approccio quasi hard rock mescolato con i rimbrotti tribali di qualche sperduto anfratto temporale gitano, În vieliștea uitării passa dal progressive ai Tiamat con la stessa rapidità dimensionale dei poveri sfigati sull’isola di Old, mentre Vraci de nord comincia con Bartòk e Carpenter, prosegue verso i Dimmu Borgir e chiude in un decollo sinfonico da film drammatico americano prima che ci svegliamo sudati e chiedendoci come siamo arrivati a quel punto.
In tutto Har trovo un’ispirazione altissima. Confesso però di non riuscire a sentire l’album per intero senza strisciare in terra con un rivolo di bava che mi esce dal culo. È troppo intenso da sorbire tutto insieme, ecco. Ma è un grande lavoro. Uno dei migliori di questo 2021, per me. Tenete presente però che ho sentito soltanto un centinaio di album metal e che in media ne escono 60 al giorno. Quindi la mia definizione va presa per il poco che significa.