Lamb non è un film dell’orrore. Se vi avvicinerete con il bisogno di spaventarvi, inorridire o vomitare, allora avete sbagliato approccio e rimarrete delusi. La responsabilità è di chi sta provando a venderlo, la A24, la stessa casa di produzione e distribuzione americana responsabile del successo di Hereditary. Ma non esiste un genere in cui infilare Lamb, così come non ne esisteva uno per l’altro film che qualche anno fa ha tanto entusiasmato la stalla di Sdangher: Border. Lì eravamo tra Svezia e Danimarca, qui invece siamo in Islanda.
Dall’Islanda è uscito pochi anni fa un altro film molto interessante per il pubblico borchiante, vale a dire Metalhead. In quel caso, proprio come per Lamb, lo sfondo della storia era una fattoria in mezzo al nulla, anche se non succedeva niente di magico o soprannaturale.
Dicevo, non c’è un posto nella mente pregressa degli spettatori dove infilare Lamb. Quando si deve convincere il pubblico a guardare/sentire/mangiare qualcosa, è necessario richiamare qualcosa che sia già presente nella propria esperienza. Lo slogan “nulla che conosciate già” funziona poco a livello distributivo.
Per un film, ad esempio, c’è bisogno che si facciano altri titoli. Hereditary è appunto uno. Hereditary, The Witch, un’altra decina di titoli pagan-folk-horror usciti nell’ultimo paio d’anni e avete chiaro cosa guarderete. E invece no. Perché Lamb è più una via di mezzo tra Il Grande Dio Pan e un Disney. C’è qualcosa che potrebbe inquietare, nel silenziosissimo incipit (dieci minuti senza dialoghi) e nel cruento finale, ma su per giù non accade altro che possa ricondursi a un film pagan-folk-drama-horror, a meno che la visione di una bambina-agnello susciti in voi un senso di repulsa inarginabile.
Vendere però Lamb come un horror, è una strategia fallimentare, perché se al pubblico si nutrono determinate aspettative, il film può essere bello quanto vi pare, vogliono vedere un horror, non sta… cosa!
In quanto horror Lamb è a dir poco deludente. Ma nemmeno la seconda via, quella spianata dal premio a Cannes, è tanto migliore. Come roba d’autore un po’ fantasy, questo potrebbe semplicemente sembrare un film che se la tira. E invece ha un cuore molto grande. Ecco perché secondo me dovreste vederlo e soprattutto avvicinarvi senza aspettative, a parte una docile, gentile curiosità.
Capito, cazzoni?
Di sicuro è un film a cui penserete il giorno dopo averlo visto. Scuoterete la testa e magari vi verrà uno strano sorriso sopra il grugno, ma vi sentirete un po’ diversi da prima.
Chiaramente tutto questo è fuori dal mondo ordinario. Non tanto la storia di Lamb, ma voi pubblico, senza l’imbrigliatura dei rassicuranti schematismi del genere precotto, costretti a “pensarci su”, e magari sprecare il vostro preziosissimo tempo mentale, già intasato di facebook e serie e Instagram e serie e Covid e serie, per rivedere questo stranissimo horror islandese. Ah, già. Non è mica un vero horror!
E infatti il concetto ricorrente nelle interviste del regista Valdimar Jóhannsson e lo sceneggiatore (poeta) Sjón è la fiducia nel pubblico. Lamb infatti è soprattutto un tentativo di vedere se là fuori c’è rimasto ancora qualche neurone attivo, in grado di ricevere sul serio una palla curva.
Lo scambio che avviene con un film o una qualsiasi altra forma d’arte non è mica passivo. L’arte la si crea assieme all’artista. Cosa mai sarebbero L’urlo di Munch o Child In Time dei Deep Purple senza un pubblico che li interiorizzi, completando gli spazi bui, le pause. Le orbite nere di un volto deformato sono solo due chiazze di colore. Quello che ne fuoriesce: la paura, la disperazione, i presagi di una catastrofe, persino il vuoto, lo aggiungiamo noi dall’altra parte della tela. L’accelerazione finale di Child In Time è solo un’accelerazione muscolare sudata e caotica, ma quando la sentite, nella vostra testa diventa la morte su pentagramma.
“Il pubblico con Lamb dovrà fare sollevamento pesi” ha detto Jóhannsson. Lamb non dice tutto, lascia degli spazi e sarete voi a finire il mosaico, capite? Non vi imboccherà né vi tratterà come bambini che hanno bisogno di continue moine, giochini e batti batti le manine, per tenere desta la vostra cazzo di attenzione da obesi infodemici. Sarete voi a sforzarvi di seguire il film, di assistere l’esito di un volo diverso e creerete ciò che è stato lasciato da creare.
E mentre lo vedrete, vi domanderete sul serio: chissà come va a finire?
Non potete davvero dirmi che è la stessa domanda che vi ponete davanti a uno dei bomboloni farciti che arrivano da Hollywood? Lì è sempre la stessa storia, cazzo. Lui sarà più forte delle avversità, conquisterà la tipa che a inizio film non gliela voleva dare, guadagnerà il rispetto dei figli e sarà pronto per la produzione neo-capitale, con tante scuse per non esserlo stato sin da subito.
È questa la storia che volete continuare a sentire finché campate? O magari vi andrebbe qualcosa di nuovo?
Nuovo e antichissimo, ovviamente. Non stiamo dicendo che Lamb nasca dal nulla. Attinge alla tradizione nordica radicata nei secoli e secoli e secoli barbarici, pastorizi… Certo che se l’avessero ambientato in Sardegna, sarebbe venuto giù l’intero Ministero del politicamente corretto, tenendo a mente la persecuzione mediatica di Paolo Villaggio quando ironizzò sul luogo comune dei pastori e le pecore, ma lasciamo stare. Personalmente ho ripensato alla pecora Dolly, alle dispute morali sulla clonazione e poi sul concepimento assistito, e le paure serpentine della Mucca pazza, morbo suggestivo in cui la bestia e l’umano, rischiarono di fondersi in una specie di sogno bagnato sdanghero.
Ma Lamb è soprattutto un film sulla perdita. Non c’è mai niente di davvero alieno. L’uomo per quanto fantasioso, può raccontare sempre e solo di se stesso. Sotto il cielo d’Islanda, tra le brulle distese western di lì, dove a detta della protagonista Noomi Rapace, non è il posto adatto a chi non voglia aprire il cuore e abbracciare il creato (perché non ci sono molti posti dove nascondersi) in fondo anche sotto quest’immensità meravigliosa e spietata, c’è sempre una piccola storia di piccoli uomini alle prese con le proprie piccole disperazioni.
La disperazione è una bella cosa però, perché non ha confini. Apre l’uomo all’infinito. Infinito dolore, infinito delirio, infinite sofferenze… che poi l’infinito è un’illusione, visto che a un certo punto la morte arriva e timbra la finitudine dell’uomo stesso, ma solo se vi identificherete con il vostro corpo, altrimenti…
Morte che a viverla mette l’uomo in una posizione priva di confini, nell’incertezza, nel dolore senza fondo, nella vertigine di un cielo limpido, altissimo e completamente privo di appigli. Ma stavamo parlando di Lamb… scusate.