La pandemia di Covid 19 ha prodotto uno sconvolgimento sedimentato in più livelli e sottolivelli, in ogni aspetto della nostra vita, soprattutto quelli psicologici. Effetti, derivanti da una causa unica, i cui risvolti si sono sparsi in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Come uno stress post traumatico, in alcuni ha cambiato completamente l’esistenza, con comportamenti e azioni in altri tempi e modi definibili folli, strani, paranoici. Tutti conosciamo persone che hanno completamente cambiato abitudini e pensieri, ma non in modo positivo. Poi c’è una buona parte, molti più di quanti possiamo pensare, che sono stati vittima della cosiddetta “apocalisse noiosa”. Ovvero un adattamento a quegli eventi potenzialmente catastrofici che non vengono percepiti come tali perché i processi più estesi e generali che contribuiscono a determinarli, sociali, culturali e naturali, che non sono ritenuti meritevoli di attenzione, a causa della nostra assuefazione a essi.
E questo è il vero pericolo, introiettare un bias cognitivo, pericolosissimo, in cui pur di poter apparentemente tornare a una vita normale, si preferisce adagiarsi in un rassegnato e fatalistico “laisse-toi vivre”, in cui si abbassa la soglia di attenzione al pericolo, pur di non rinunciare a stili di vita consolidati nel passato e nei tempi senza pandemia.
Atteggiamento comprensibile, umano, ma dannoso a livello globale. Si preferisce “rischiare la vita”, il contagio, la malattia e la morte, invece di rinunciare temporaneamente ad adottare comportamenti virtuosi, ma fatti di sacrifici e rinunce, che paiono troppo pesanti. Dunque la soglia di attenzione al pericolo si abbassa talmente tanto, che anche l’apocalisse è fonte di noia e insofferenza.
A due anni dalla diffusione del Covid 19 la situazione è profondamente cambiata rispetto alla primavera del 2020, quando la scoperta di una nuova malattia molto contagiosa e potenzialmente mortale, in assenza di cure e di vaccini, portò tante persone nel mondo a fare scorte di cibo, acqua, farina, lievito e carta igienica, rimanendo in isolamento per mesi.
E il fatto che il Covid, grazie alla disponibilità dei vaccini, non sia più percepito come un pericolo mortale negli stessi termini in cui lo era all’inizio della pandemia complica inevitabilmente gli sforzi delle autorità sanitarie nel tentativo di sensibilizzare i comportamenti e ridurre al minimo la diffusione della variante Omicron.
Un paragone interessante lo ha esposto lo psicologo americano Adam Grant, docente alla Wharton Business School della University of Pennsylvania, che paragona la sindrome dell’apocalisse silenziosa alla visione di un film horror molto spaventevole. In sostanza, quando hai visto l’assassino accoltellare 10, 20 volte le vittime, e vedi il sangue sprizzare da ogni poro, anche se poi lo hai visto uccidere qualcuno, non ti spaventa più allo stesso modo.
Il Covid ha ridisegnato la vita, ha riassegnato spazi e abitudini, e non tutti sono riusciti ad accettare tale situazione. Tantissime famiglie si sono sfasciate, o hanno accentuato i conflitti dovuti all’isolamento, poiché passare più tempo insieme e in spazi più ristretti, restituendo ruoli o semplicemente costringendo le persone, mariti, mogli, genitori, figli, a stare insieme, a “fare i turni” per TV, computer o videogiochi, hanno disintegrato l’equilibrio perfetto di chi, stando fuori casa più tempo, proprio nel non convivere troppo, faceva funzionare le cose decentemente.
Tante sarebbero altre considerazioni, non ci addentreremo nel conflitto no vax – si vax, ma porremo una riflessione su quanto siamo disposti a giocarci e a rischiare pur di vivere senza stravolgere le abitudini radicate da una vita. Se morire vale la pena pur di continuare a fare aperitivi, tifare in curva allo stadio, andare d un concerto o al cinema, come prima, l’apocalisse arriverà come la “rana bollita” di Noam Chomsky, saremo morti e non sapremo di esserlo. Sta a noi decidere quale gioco vale quale candela.