A proposito dei Cappanera di Non c’è più mondo…

Sapete, all’inizio avevo intenzione di scrivere su questo disco senza lasciarmi appesantire da tutto ciò che inevitabilmente l’immagine dei Cappanera si porta dietro. Io ho pensato: nella mia vita la Strana Officina non ha mai rivestito un ruolo importante. Ascolto l’album, scrivo quello che mi viene e fanculo il resto. Beato me.

Sono nato come metallaro nei primi anni 90, quando la Strana Officina, nonostante un’uscita molto soddisfacente in Cecoslovacchia (di cui i Cappanera allora lamentarono una totale indifferenza da parte della stampa italiana) e l’intenzione di tirare dritto senza alcuna scadenza, era una band fuori dai miei radar di pischello arrapato dal metal.

Eppure mi imbattei subito in loro. Sul primo Metal Shock della mia vita, quello della seconda parte di Gennaio 1992, con Steve Tyler in copertina, c’era un’intervista ai Cappanera.

Ma abbiate pazienza, passare dalle foto patinate di Skid Row e Metallica (coloratissime) a quelle dei due fratelli livornesi (in bianco nero) non mi invogliò ad approfondire su di loro.

Poi il nome così greve: “CAPPANERA” non mi diceva granché. Mi suggeriva fuliggine, vecchie fabbriche abbandonate e una barzelletta sconcia che non starò qui a rivangare. In più l’aspetto dei due era abbastanza disastrato: metallari sì, ma esteticamente molto alla buona, in posa sguaiata da camionisti in area di sosta, ma con una rigidità sotterranea. Sembravano piuttosto timidi e impacciati davanti all’obiettivo. Nonostante i toni rispettosi ed entusiasti dell’articolo passai subito oltre. Mi ricordavano la squallida realtà da cui volevo evadere.

Credo sia sempre stato questo il mio problema con il metal italiano. Le foto, le pose, i suoni, tutto mi sbatteva in faccia i limiti, la tristezza di un paese così banale e provincialista rispetto alle luci, le esplosioni dei Kiss, i Queen, i Metallica. Io volevo scappare dalla mia prigione e gente come i Cappanera erano lì che mi sorridevano sornioni dal fondo della cella.

Dopo molti anni posso dire che stavano promuovendo un gran bel disco ma che solo oggi sono in grado di capire e apprezzare. Allora mi avrebbe fatto inorridire. Non facevo distinzioni tra il suono iper-prodotto del Black Album e le chitarre di Vasco Rossi, capite? Non c’erano quindi le attenuanti che giustamente oggi mi viene di tirar fuori. Prodursi un album rock/metal nel 1992 a Livorno era un’impresa enorme che avrebbe potuto partorire però un bel topolino, niente dinosauri.

Non c’è più mondo è un buon lavoro hard rock, blues e la scelta del cantato in italiano (da sempre un suicidio culturale per i metallari) funziona ancora molto bene.

Quando uscì l’album, tutti posero attenzione su questo ritorno alle origini dei Cappanera, i quali con la Strana avevano iniziato cantando nella propria lingua e successivamente, sperando di sfondare all’estero, erano passati all’inglese. I fratelli dichiararono ufficialmente di essersi pentiti di quella mossa e avrebbero ripreso con l’italiano anche per il nuovo corso della Strana Officina.

Tiziano Bergonzi, in sede di recensione, fece un parallelo tra i pezzi di Non c’è più mondo e i successi di Ligabue, dicendo che brani come Aurelia Freeway, Barbone, Drago Dorato e Vittima, avessero avuto un contesto produttivo e promozionale più solido e generoso, sarebbero diventati tutti delle hit!!!!

Probabilmente non era così semplice perché secondo me gli “hit mancati” avevano un taglio un po’ troppo crudo e speziato rispetto alle blande cavallate tra Correggio e il West. Inoltre i fratelli Cappanera erano esteticamente disastrosi. Non evocavano niente che non fosse Livorno by night. Lo so, anche Vasco faceva ridere sul piano fisico, ma lui era solo. Qui da noi, a dispetto dei successi di gruppi come i Litfiba, i Timoria, i Maneskin, hanno sempre dominato i solisti, chissà perché; i cantanti.

Quei pezzi, che ora mi piacciono molto e che penso siano decisamente genuini e a tratti davvero trascinanti, non avevano alcuna speranza di sfondare. Altro che palle. E la cosa bella era proprio questa. I Cappanera realizzarono un disco fregandosene del sistema, anche se qualche ingenuità la commisero ancora.

Infatti girarono un videoclip di Aurelia Freeway e dopo si resero conto che se lo sarebbero stoppato al culo, perché non c’era speranza per l’underground di accedere ai canali promozionali delle band sotto grosse etichette. Inoltre quel video è di una tenerezza a vederlo oggi, ma allora come biglietto da visita per il mercato, Videomusic l’avrebbe accettato a caro prezzo e messo sotto il tappeto della trasmissione Made In Italy.

Però Aurelia Freeway è una poesia rock all’Italiana che per me vale molto. Apprezzo anche il sincero sentimento sociale del brano Non c’è più mondo con “le siringhe piantate su un albero” e la dilagante epidemia di eroina a Livorno. Per quanto un po’ più retorico anche Barbone è un pezzo con le palle (quindi state attenti a non aprire troppo la bocca quando lo cantate). Bella anche Impossibile capirti, dove la parte romantica del rocker è fatta a brandelli da una stronza, il quale rocker, con la voce mica male di Roberto Cappanera, invoca l’amata e le promette fedeltà eterna, nonostante tutto.

Dicevo, scrivere dei Cappanera è davvero pesante. Non c’è più mondo ti infetta di malinconia e pensieri cupissimi. Personalmente mi riporta a quegli anni per i gruppi italiani in cui fare rock duro era più duro che rock. Penso a quanto faticassero a tirare avanti, tra demo e concerti alla Sagra dello Gnocco di Cagate sul Garda, ma anche all’ingenuità dei loro sogni. Aurelia Freeway parla chiaramente di “magiche notti americane, le mie donne nei rock and roll bar” e nonostante il finale del pezzo implori al sogno di “non finire, oh no”, il resto dell’album sprofonda in un bosco tetro e ne riemerge con la chiusa di Vittima, dove Fabio Cappanera, anche lui con una voce mica male, dice che “il sogno non ti vuole più”, che “hai sbagliato, hai perso” e ora ti togli dai coglioni.

In fondo questa era la realtà del metallaro nostrano anni 80 nei primi anni 90. Ci si era illusi di arrivare al successo. Si erano tradotti i testi in inglese per competere con gli americani, si erano firmati contratti “della speranza” con gente tipo la Minotauro e si sputava su San Remo, vero Satana da cui tenersi larghi. Ma adesso?

Ancora Johnny Salani chiudeva gli occhi avanti al sole a picchio sulla Grosseto Livorno e vedeva il Sunset Strip, le Highways infuocate tanto care al Fuzz, l’immensa platea vogliosa del Wembley Stadium, mentre negli Stati Uniti i locali metal di Hollywood chiudevano tutti e su MTV roteava deciso il volto da “Cristo ma non voglio” di Kurt Cobain.

E poi ci fu l’incidente sull’Aurelia. Una moto davanti perse la sacca degli indumenti e i Cappanera non videro più nulla fino allo schianto.  Sembra in piccolo una morte da rockstar, con tanto di canzone scritta molti anni prima (Autostrada dei sogni) piena di riferimenti inquietanti a far da presagio alla sciagura.

Oggi ascoltare Non c’è più mondo è quindi deprimente, c’è poco da fare. Eppure in quel disco io ho avvertito a tratti un taglio generale molto scanzonato, c’è una specie di nuova leggerezza. Il perdente che non molla i propri sogni, smette di esserlo quando diventa cosciente della propria scelta e decide alla faccia di tutto di continuare a seguirla.

In fondo i Cappanera, se non avessero perso la vita poco più di un anno dopo, avrebbero continuato così, tornando a divertirsi come ai vecchi tempi, perché finalmente iniziavano a fregarsene sul serio di tutta la baraonda fuori, del successo, dei soldi, di farne un cazzo di lavoro. Si pensa sempre che una cosa abbia senso farla se c’è un guadagno. La visione capitalistica ha contaminato la nostra intera esperienza su questa terra, ma l’anima se ne frega dei soldi. E non è un caso che il diavolo debba togliercela, se vogliamo diventare ricchi, famosi e capitalisticamente vincenti.

Quello che voglio dire è che Non c’è più mondo ci tira giù se pensiamo a cosa li stava aspettando e alla fotografia malandata del rock/metal underground nostrano dei primi anni 90, in bianco e nero e molto a disagio davanti all’obiettivo, ma se ci si concentra sulla musica di quel disco, affiora spesso una piccola gioia autentica. Si sente che stavano facendo ciò che amavano. Fanculo tutto il resto.