Quando avevo gravi problemi di figa, ovvero negli anni in cui non riuscivo a battere chiodo nemmeno in un negozio di ferramenta, ero convinto che per conquistare una ragazza si dovesse fare come nei film. Per esempio, vai al supermercato, incontri una bella e attacchi bottone con qualche frase spiritosa sui fagioli in scatola o sul prosciutto in offerta. Poi da cosa nasce cosa e dopo qualche minuto torni a casa esultante con un numero di telefono. Magari falso, ma non è questo il punto.
Per un po’ di tempo, nella mia vecchia vita, giuro che mi preparai tutta una serie di cazzate intorno ai generi alimentari e i prodotti per la casa, ma ogni volta che alla Coop io mi imbattevo in una che mi piaceva, mi paralizzavo, la bocca mi si intasava di battute brillanti e l’espressione facciale via via finiva per mimetizzarmi il viso con il reparto assorbenti e deodoranti che avevo dietro di me.
Poi andai da uno psicologo e lui mi assicurò che quel tipo di approccio, così diffuso al cinema, era nella realtà difficilissimo e quasi mai praticato dal genere umano maschile. Solo pochi eletti erano in grado di ricavare un numero di telefono dopo un paio di battute alla cassa, per dire. C’erano. Esistevano dei tipi così, ma erano rarissimi e aiutati da tutta una succursale di odori e altri ammennicoli magnetici che la chimica gli aveva fatalmente fornito. Qualcuno ha racchiuso queste qualità in un fantomatico “gene di Casanova”.
Da maschio sfigato ho sempre invidiato le donne, culturalmente non obbligate a fare il primo passo. Mai mi sono interrogato su come ci si dovesse sentirsi dalla parte di chi viene corteggiato. Deve essere stressante gestire le avances di un sacco di sconosciuti senza speranza e molte presunzioni di conquista. Soprattutto, per quanto io sia stato in vita mia un pessimo cacciatore (l’uomo è cacciatore) credo non ci sia nulla da invidiare a coloro che, appunto culturalmente, svolgono il ruolo delle prede.
Nell’horror il concetto è esasperato al massimo. Faccia di cuoio, Michael Myers cercherebbero solo compagnia e una buon amplesso. Purtroppo per loro e per il genere femminile, non sono belli da vedere, non hanno la battuta pronta e nemmeno molti soldi, quindi mettono una maschera che gli copra il viso. Siccome non hanno un pene di medie proporzioni e con le necessarie funzionalità erettili, usano motoseghe, coltelli e altri strumenti dall’aspetto fallico e perforante. Questa teoria è stata in seguito smontata da Mary Harron e Bret Easton Hellis con American Psycho, ma va beh.
In fondo è così che stanno le cose in natura. L’uomo segue, cattura e si pappa la femmina. E la femmina attira, sfugge, si difende e sovente soccombe se vuole soccombere e fa una fine peggiore se dice no a certi tipi davvero esasperanti e non empatici.
Fresh mi ha riproposto il mito dell’abbordaggio casuale, divertente e un po’ romantico visto in tanti film degli anni 80 e 90: al reparto verdure.
La protagonista, Noa (Daisy Edgar-Jones), è una simpatica e impacciata single del ventunesimo secolo. Cerca maschi su un aggregatore a pagamento scaricato nel telefonino, vive in una fonduta di solitudine e disistima. Rimedia pessime esperienze cortesi: sia virtuali (la foto di un pene) che reali (una serata noiosa alla tavola calda con un coglione).
E già l’appuntamento sfigato all’inizio del film ne vale mezzo. Lei ascolta le chiacchiere garbatamente nevrasteniche del cavaliere e intanto vorrebbe essere altrove, magari nel corpo di un crostaceo. Quando i due sono fuori dal locale, nonostante lui non abbia detto nulla di visibilmente coinvolgente in lei, le dice che è stato molto bene e che desidera rivederla.
Poi si avvicina con l’aria di volerle piazzare un bacio linguacciuto.
Noa lo stoppa subito e nonostante un certo rincrescimento gli risponde che non trova sia il caso di rivedersi.
Lui allora si stizzisce e dichiara di essere solo stato carino, di pensarla esattamente come lei. Poi la sfancula dandole della stronza.
Come mai un simile cambio di atteggiamento? Poco prima aveva detto il contrario, no?
Beh, ci sono uomini che pur di non rimanere soli sono pronti a farsi andar bene praticamente chiunque. Trovano normale chiacchierare dall’inizio alla fine di un incontro e avere in cambio sguardi assenti e qualche sbadiglio.
Noa oltretutto non è la ragazza sexy che uno si vorrebbe egoisticamente trombare. A dire il vero, per quanto mi riguarda Daisy Edgar-Jones è sensuale come un tappeto della nonna trovato in soffitta. Per quanto una volta io sia riuscito a farmi andar bene pure quello per certe… ma nella realtà di oggi può starci un uomo che parla e parla e parla di se stesso a un tavolo e poi magari punta a una sega a due.
Noa però è una ragazza seria e davvero non vuol saperne. Ha bisogno di complicità e coinvolgimento, altrimenti non ce la fa neanche a farsi toccare una spalla. Resta incredula a fissare la schiena rigida del galantuomo in allontanamento, mentre l’eco dell’insulto che le ha rivolto si perde lungo il marciapiede deserto di un’altra notte umida e angosciata.
Poverina. E a dire il vero un po’ patetica. La ragazza cerca solo di sopravvivere nella grande città. Probabilmente fa un lavoro schifoso ma tiene duro. Frequenta un corso di auto-difesa e ha un’amica che è il suo esatto opposto: Mollie (Jojo T. Gibbs) una donna mascolina, nera e aggressiva. Le due si compensano. La prima è cucciola e dolce; l’altra è materna e protettiva.
Ma dicevo del reparto verdure. Succede l’insperabile. Un giovane e brillante chirurgo mago della battuta sugli ortaggi invita Noa a uscire. Lei accetta incredula. È molto ironico che l’incontro avvenga proprio in quel reparto del supermercato. Lo capirete più avanti.
I due escono e tutto va alla grande. Steve (Sebastian Stan) è accattivante, misterioso q. b. e per di più sembra che tra lui e lei la chimica vada alla grandissima. Scopano ridendo ma senza perdere le erezioni. Quante volte vi è capitato nella vita? E questo avviene mentre un’onda marina di tastiere rinfrange sulle immagini rosse e i volti intensi dei nostri eroi, in scene di sesso delicate e sintetiche quanto nei vecchi cinemovie delle 20 e 30 annunciati da Gabriella Golia.
La magia della vita arriva in un pulviscolo al tramonto del tuo giorno più disperato, è noto. Noa e Steven si sono trovati finalmente, adesso nessuno li ferma più. Dopo un primo incontro perfetto al millimetro con lo stampo del sogno irrealizzabile, i due restano d’accordo per un fine settimana in uno chalet in campagna che appartiene a lui. Il posto è po’ isolato ma tranquillo e affascinante. Il tempio ideale per onorare un dono d’amore. Tutto è così romantico, fatale e giusto per Noa. Ma quando la sua amica Mollie viene a sapere di questo week-end insieme a uno sconosciuto in una selva oscura, si impensierisce e dichiara di non essere d’accordo. Noa però è trascinata da questa grande storia: è la sua grande storia. Correrà il rischio di venire ammazzata e occultata nel retro d uno chalet dove non c’è campo che non sia ricoperto di aghi di pino.
Dai, non ve lo racconto tutto. Insomma, Fresh si apre come una commedia sentimentale per i primi 32 minuti circa e sono la parte migliore del film. Non che il resto sia da meno, è solo che una volta entrati nella dimensione horror, tutto è quasi intrappolato nel reticolo rigido delle solite dinamiche psico-gotiche.
Una volta nel fighissimo chalet da rivista femminile per donne moderne e progressiste di Steven, lui mette un disco lounge, prepara due drink e si accomoda su una poltrona. Come previsto in un horror, le cose cambiano per Noa. Lei sorseggia il suo bicchiere di qualcosa e intanto continua a ridere e giocare con il moroso, sempre più convinta sia l’uomo della sua vita. Però si sente strana, intorpidita, stordita.
Sviene. Lui non si sorprende della cosa. Era ciò che aspettava succedesse.
Titoli di testa. Dopo mezz’ora. E questo è fico, non vi pare?
Quando lei si sveglia è legata a catena. Steve ha mentito. Steve è cattivo. Sì, è davvero un chirurgo ed è un tipo in gamba in ciò che fa ma il suo talento soddisfa un mercato nerissimo. Noa è la merce pregiata di quel mercato per pochi milionari malati di mente. Dall’ortofrutta a un altro reparto, ma sempre di commercio si parla. Siamo tutti la merce di qualcosa e di qualcuno, giusto? Basta solo imbattersi nel produttore che sappia confettarci.
Noa e le altre ospiti, vive e morte, che si trovano nello chalet, sono sul nastro trasportatore verso il buio più viscido e proibito. Siamo in un horror, lo ripeto. Da qui è tutto abbastanza prevedibile. Ma! Nonostante il capovolgimento della situazione tra Noa e Steven, il romanzo d’amore non è stato tutto una finta. Tra i due c’è veramente una specie di magia, molto più di quanto entrambi vogliano ammettere, una volta che la maschera di lui è calata.
Il fato serpeggia tanto prima, nel teatrino di un amore borghese nel mezzo del feroce squalificio metropolitano, quanto dopo, nel controverso e sintomatico rapporto usuale tra carceriere e detenuta.
Mentre lui sfrutta la chimica per sedurre e trascinare nel covo la bella, lei sfrutta la stessa chimica per fottere lui e aver salva la vita. Chi prima e chi dopo, entrambi si ingannano. Ma fino a che punto sono padroni della seduzione?
Probabilmente mai del tutto. Prima è Steven (che in realtà si chiama Brendan o forse neanche Brendan) a non crederci, mentre lei incantata nel sogno d’amore si beve il drink corretto con chissà quale droga. Poi è Noa a convincere lui che un incanto possa avverarsi persino nel mezzo di membra mutilate e cannibalismo spinto.
Del resto non vengono così bene le scene di ballo, se non ci si crede almeno un po’. E il balletto tra Noa e Steven sul brano La le Jardin di La Famme, è un momento di grande cinema brillante dove ti aspetteresti solo violenza e lacrime e invece il cuore ti si gonfia e sorprendi te stesso a sorridere per loro.
La regista esordiente Mimi Cave è da tenere d’occhio per il futuro. Fresh è decisamente buono, sia prima che dopo i titoli di testa. E la colonna sonora è figa. Vi consiglio di ascoltarla mentre fate le pulizie di casa, la trovate sul tubo.
E proprio su questa meraviglia di soundtrack voglio spendere ancora due parole, che magari leggeranno solo i pochi ad accorgersi che l’articolo non era ancora finito. Le canzoni sono belle, spaziano dal sobrio classic rock di Lou Reed (con Perfect Day) al coattame anni 80 di Obsession degli Animotion. Interessante notare che molti di questi brani li fa suonare Steve nel suo chalet. Alcuni li usa mentre “lavora”, per gasarsi e dare il massimo nella sua impeccabile professionalità di macellaio e altri per sedurre, coccolare e trascinare verso i suoi baci la povera Noa.
Ciò che mi colpisce però è quanto questi pezzi non rappresentino mai un richiamo generazionale per lui o per lei. E questa scelta, molto in linea con l’hipsterismo musicale degli pandemici, è indicativo di come Steven (o Brendan) sia tagliato fuori dal mondo e di come la musica ormai rappresenti un viaggio fasullo verso epoche mai vissute.
I La Femme usano lo stesso sfondo chiassoso delle registrazioni di fine anni 80, ma appartengono a questo ultimo decennio. Così come Lee Hurst e il suo Whole Lotta You Love resuscita dal 1973 e le camere con la moquette colorata di rosa, le pettinature afro e i colletti a punta lunghissimi.
Peter Cetera e la sua Restless Heart invece rappresenta l’artista in ritardo; un ballabile anni 80 uscito nel ’92.
E questa è la discografia personale di Steven, servita su piatti a 33 giri.
Ma che storia ha, Steven? In quale fango pop-mediatico ha forgiato la sua attitudine neocapitalistica spiritual-carnaria?
L’attore che lo interpreta è nato nel 1982 ma non c’è grunge e tantomeno industrial rock a rimbalzare tra le mura di legno dello chalet. Sarebbe stato scontato che Steven rinfacciasse al mondo i classici del proprio tempo, come farebbe ancora Patrick Bateman se fosse vivo e ancora intento a massacrare squillo e yuppies indo-pakistani.