È strano ascoltare Carnival Of Souls. Ovviamente non lo comprai al tempo dell’uscita. Credo non l’abbia fatto quasi nessuno, soltanto i fans più in fissa con qualsiasi cosa avesse sopra il bollino KISS.
Ricordo però che lo attesi per un po’. Avevo amato Revenge e tutti i Kiss anni 80. Per motivi generazionali, io consideravo i Kiss quelli senza le maschere. Delle cose più vecchie, dei tempi gloriosi di Destroyer, i due Alive, i fumetti, la pistola giocattolo allegata a Love Gun e così via, non sapevo granché e non mi interessava granché. Avevo 14 anni nel 1992 e per me erano più interessanti i Kiss del presente.
Il passato mi metteva un po’ di tristezza. Avevo sentito alla nausea roba come Hot In The Shade, che consideravo bellissimo e mi ero spinto indietro fino ad Anymalize. Per me quegli album erano la prova della grandezza dei Kiss. Non mi serviva altro. L’unico disco “mascherato” che ascoltai un’infinità di volte allora fu Creatures Of The Night; ma non li immaginavo con i costumi mentre lo sentivo.
Poi nel 1996 ci fu la reunion del cerone, e la cosa mi lasciò quasi indifferente. Da tempo si era parlato del nuovo album della formazione di Revenge e quell’improvviso rientro di Criss e Frehley, ne metteva a rischio l’uscita.
Era chiaro, comunque, che la band di Revenge non esisteva più e che Carnival Of Souls sarebbe stato per certi versi un lavoro postumo di una delle tante identità della stessa creatura.
Me ne disinteressai e per parecchio tempo vissi convinto che quel disco finisse abortito negli archivi privati di Paul & Gene. Anni dopo scoprii invece che Carnival Of Souls era uscito ufficialmente, dopo una serie di versione “bootleg” e che fu il tentativo dei Kiss di star dietro all’onda del grunge e dell’alternative di fine anni 90.
Orrore!
Era meglio se non fosse mai esistito. Ebbene, oggi, dopo più di vent’anni, ho deciso di affrontarlo e scriverci su qualcosa. Devo dire che è stata un’esperienza piuttosto insolita. Non c’è una rassegna stampa da recuperare, non ci sono vecchie interviste, Carnival Of Souls non ha praticamente un vissuto promozionale e la band, pur senza rinnegarlo, l’ha dimenticato. Ma non è la cosa più imbarazzante che abbiano mai fatto i Kiss in quasi quarant’anni di carriera.
Carnival Of Souls è infatti “un lavoro dignitosissimo”, scrive qualcuno in giro per la rete.
Vero, a parte la palese volontà di abbracciare una dimensione sonora che non poteva appartenere allo spirito dei Kiss e che aveva ben poco di dignitoso di per sé.
Nel 1983, uscirsene con un singolo come “Lick It Up”, senza maschere e con quel videoclip agghiacciante che tutti potete recuperare su youtube, era comunque una roba da Kiss. C’era sempre la solita goliardia, la spregiudicatezza, la voglia di camminare sulla testa del mondo.
Mettersi a fare grunge nel 1994-1995, oltretutto fuori tempo massimo (come i Queensryche di Hear In The Now Frontier), non avrebbe dato grandi frutti creativi.
Lo spiega bene Paul Stanley nella sua biografia: “Non potevo proprio immaginarmi a scrivere storie tragiche che dipingevano tutto in nero. Di cosa dovremmo scrivere, chiesi a Gene, che le nostre donne delle pulizie non si sono presentate, oggi? Che la nostra limo è in ritardo?”
Per me era davvero ridicolo scrivere canzoni cupe e lo era altrettanto per lui. Non c’è nulla di tetro e negativo a Beverly Hills”.
Questo sfogo dice chiaro che significasse il grunge per Paul Stanley: roba cupa e triste, da morti di fame. Ma sentite ancora cosa dice a riguardo: “Dal canto mio ero già scettico su quello che le band grunge avrebbero proposto sui loro secondi dischi. Era pieno di album d’esordio grandiosi, ma cosa avrebbero fatto una volta persa la propria identità di ragazzi sfigati che vivevano in garage infestati dagli scarafaggi? Voglio dire, se erano davvero così tanto tristi e complessati, ora che si erano arricchiti potevano permettersi di andare tutti dallo strizzacervelli a farsi curare”.
Oltre ai testi neri e le vite sfigate, il successo avrebbe distrutto il motivo stesso che ne era stato la causa. Interessante, come analisi, peccato che mostri insofferenza e paura per un mondo del Rock che temporaneamente, sembrava non saper più cosa farsene di Paul Stanley e almeno in questo Gene Simmons, vecchio furbone, aveva ragione.
Sempre Paul: “Gene diceva che la musica era ormai un sistema tutto nuovo e che dovevamo aggiornarci anche noi. Forse in parte era attratto dal sound di Seattle perché era cupo – e calzava a pennello con quello che era sempre stato il suo personaggio. Quando proposi alcune mie canzoni, durante la prima fase del progetto, si dimostrò particolarmente sprezzante. Disse: “Tu non vedi cosa succede intorno a noi. Non sai più com’è la musica oggi!”
Era un po’ vero. Ricordate Adrenalize dei Def Leppard? Fu un disastro. Magari per noi italiani non tanto perché nel 1992 eravamo ancora aperti a cose “allegrotte” made in USA. Non avevamo litigato con gli anni 80 e sognavamo ancora le insegne rosse al neon del Sunset Strip, gli spogliarelli in quattro quarti e le feste sudatissime dei filmetti americani, ma negli Stati Uniti, le nuove generazioni erano tutte in fissa con il nichilismo di Cobain e risposero aprendo un mega-sbadiglio alle invocazioni di “Let’s Get Rocked” di Joe Elliot.
Lo stesso avrebbero fatto con le movenze sculettose e i c’mooooon di Paul Stanley tre anni più tardi.
Ovviamente Gene era più lucido e attento alle tendenze, motivato e pronto all’azione, e rispetto al suo storico comprimario, avvertì subito la nuova direzione del vento. Su una cosa però aveva torto marcio: che i Kiss potessero inserirsi in quel contesto depressivo e lanuginoso, semplicemente ribassando le chitarre e attingendo al proprio disagiato biografico. Era una pia illusione.
Paul e Gene ogni tanto avevano già tirato fuori dei pezzi incazzati e cupi. Soprattutto Stanley era il “piagnone” dei due per le questioni amorose, era lui il cantore della rabbia narcisistica di chi è respinto, l’abbandonato, il tradito. Gene era sempre alle prese con la sua biscia gustativa e con essa nettava qualsiasi problema interpersonale nei confronti dell’altro sesso.
Ma non bastava dir male di una donna per essere grunge. Perché i due, io ce li vedo in studio, si saranno messi a pensare: “come facciamo a essere davvero grungie, amico?!”
Beh, mettersi a parlare di odio e di problemi sociali per calarsi in un mood depressivo non era abbastanza. Anche negli anni in cui le cose andavano male, loro avevano prodotto inni al rock e alla reazione. Non era proprio il caso di inventarne in quella terra desolata di eroinomani, di maniaci e di “tetralisti”.
Tanto più che il suicidio di Kurt, all’apice del successo e poi negli anni successivi quelli di Staley, Cornell, Weiland, dimostrano ancora oggi quanto fosse avulso l’animo di questi artisti all’edonismo positivista dei Kiss; i quali dal canto loro sono ormai sopravvissuti a tutto il grunge, nonostante un mercato liquido che non gli garantisca più la grande cuccagna.
Nel 1993, Gene Simmons vedeva solo il lato commerciale di questi nuovi figli del rock. Avevano scovato l’ispirazione giusta dove lui non sarebbe mai andato a guardare: sotto i divani sfondati di un garage.
“Negli anni Novanta il grunge era lo stile rock più popolare” scrive Gene nella sua biografia “dominava l’etere e MTV grazie a band come i Nirvana, i Pearl Jam, i Soundgarden. Mentre registravamo Carnival Of Souls facemmo uno sforzo per reinventarci ancora una volta, con l’aggiunta delle chitarre limacciose e testi più alienati”.
“Gene credeva fortemente in quella inversione di tendenza” aggiunge Paul dalla sua biografia, “e alla fine lo assecondai. D’altronde non avrebbe accettato di farlo in qualunque altro modo. Poteva avere ragione lui, ma ne dubitavo. Nonostante non fossi d’accordo, cominciai ad accordare la mia chitarra un tono sotto, e mi sono sforzato di cantare canzoni che non sentivo mie. Gene intanto rivelò che la sua idea era quella di fare qualcosa in stile Metallica. Però i Metallica erano già lì, ed erano pure grandi, e sicuro come l’oro non ce l’avremmo fatta a batterli sul loro terreno. Noi dovevamo solo cercare di essere i migliori Kiss possibili”.
Simmons dovette andare fino in fondo per capire quanto si era sbagliato. “Il risultato non fu molto convincente” avrebbe ammesso anni dopo. “ci divertimmo, facemmo esperienze interessanti, imparammo qualcosa di più su quel nuovo stile e sulle nostre capacità musicali. Ma mixando il disco ci rendemmo conto che quella versione dei Kiss aveva fatto il suo tempo ancora prima di essere fuori dallo studio”.
CARNEVALE DELLE ANIMELLE
Ma vediamo un momento com’è in effetti Carnival Of Souls. Le canzoni sono tutte piuttosto lunghe. Molte superano i cinque minuti e il disco intero, complessivamente sura circa un’oretta. La cosa interessante, sapendo quello che c’era dietro, è vedere in azione Gene Simmons, convinto di poter masticare quel nuovo tipo di rock attingendo al suo inesauribile bacino emozionale e l’esperienza adattativa; mentre Paul, beh, invece lui era tremendamente contrariato e a disagio in quella veste crepuscolare, quasi doom, dei Kiss.
C’è tutto un esercito di autori che li hanno aiutati a fare quel disco, sia chiaro. Il sistema di realizzazione degli album è sempre lo stesso per i Kiss, o meglio, per quei due. Gene e Paul firmano metà album a testa, coinvolgendo due rispettive squadre di penne a supporto.
Simmons recupera un paio di vecchie conoscenze: Jaime St. James e Tommy Thayer dei Black N Blue. Stanley preferisce un certo Curtis Cuomo, con Bruce Kulick a far da ponte tra i due schieramenti creativi.
Su Youtube c’è un file con tutti i demo di Simmons dal 1992 al 1995: un’ora e venti di roba che mostra quanto lui avesse più fervore creativo e maggiori stimoli di Stanley in quel periodo. In quel file inedito ci sono già versioni grezze di Hate, In My Head, Whitin (usata nel successivo Psycho Circus). Non sono canzoni grunge, ma hanno uno stile crudo che non stona con l’hard rock dei nuovi 90s.
C’è un fondo di integrità che non mi sembra Gene intacchi, tutto sommato. Legge il nuovo e tira fuori da se stesso la cosa che può assomigliargli di più. Stanley invece non ha brani utilizzabili per il nuovo album. O meglio, tutto quello che propone dal cassetto gli viene criticato da Gene, che lo esorta a tentare il nuovo percorso depressivo.
Poverino, si adatta. Non è felice. In Rain, per dire, se leggete il testo, finge di dire qualcosa, ma non sa quasi che dire.
“Dimmi cosa vuoi che io sia” – (sembra rivolgersi a Gene)
(Poi tenta di essere cupo e triste come quelli del grunge): “non mi sopporto più”
(Ok, Paul, devi fare di meglio, dacci dentro con la tristezza):
Ok, allora… ecco: “Io non riesco a trovare la mia strada dal pavimento”
(Cosa?)
E via con un ritornello che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani (si spera):
I think it’s gonna rain, yeah
I think it’s gonna rain
Rain down on me
Ok, Paul, riposati.
Però sapete cosa, Rain è un bel pezzo. Ha un riffone alla Motley Crue di s/t 1994 e un bel ritornello cantabile.
Le cose vanno peggio in Master & Slave. Non tanto le parole. Il riff è la cosa più vicina a Revenge di tutto Carnival. No, quello che non si regge è la parte centrale, in cui Paul scopiazza metodicamente gli Alice In Chains. E poco più avanti, in It Never Go Away, fa lo stesso con i Soundgarden.
Gene invece ce la mette tutta a farsi scuro: parla di un amico suicida (Childood’s End), spiega lo yoga in chiave dark (In My Head) e prende a prestito i dissidi religiosi di Ken Tamplin, leader della christian metal band Shout, nel brano piuttosto bello, I Confess.
Paul è di parola e racconta il ehm, il lato oscuro di Beverly Hills (Jungle) che sente filtrare dalla zanzariera della camera, quando di notte fatica a prendere sonno (ambulanze che gemono, urla rimostrose, cani che abbaiano e allarmi costosissimi che saltano).
Lui canta anche, e qui ne sa qualcosa davvero, delle ambivalenze masochistiche nei rapporti amorosi (Master And Slave); e poi offre il meglio sulle tresche narcisistiche in cui è potenzialmente invischiato (In The Mirror). Poi molla tutte queste puttanate e scrive un brano sull’unica cosa che gli stia a cuore: suo figlio e i pensieri difficili da novello padre. Ed ecco, questa è la sua grandissima canzone. Forse la migliore di Carnival Of Souls.
I Will Be There
I Want To Be there
I Will Hear You When You Call
Give You Anything At All
I Will Be There
Anywhere
Like A Father To His Son
Non è niente di speciale, “io ci sarò, ce la metterò tutta eccetera” ma si sente che qui Stanley è lui al cento per cento. Si sente davvero che è tornato. Il lento è molto anni 90, un po’ western Bon Jovi, un po’ roots ed etereo. Autori: Stanley, Cuomo. Kulick
Il disco chiude con I Walk Alone, cantata da Bruce Kulick, che non ha voce per cantare un pezzo tutto da solo, a dire il vero. Un mid-tempo acoustic-pop anni 90, che non è neanche male, ma resta la cosa più lontana dai Kiss, mai fatta. Del tipo che se lo senti e non ti dicono che sono i Kiss, magari rispondi i Dinosaur Jr. o Riccardo Fogli. Molto gagliarde le sperimentazioni “alla Beatles che pasticciano robe ”, verso il solo.
Ok, dopo il disco ripudiato parliamo di quello della reunion, ma nella prossima puntata.