I medici dicono che il corpo è alla bassa marea, in quel momento. L’anima è spenta. Il sangue si muove lento. Sei più vicino alla morte di quanto lo sarai mai, salvo quando starai per morire. Il sonno è un sentiero di morte, le tre del mattino, quando te ne stai disteso ad occhi spalancati, è la morte vivente! Sogni con gli occhi aperti.
Non so quanto sia vera questa storia, qualcuno la chiama L’ora del lupo. C’è anche un bel film di Bergman, l’unico tentativo di horror del regista svedese. Dicevo, non so quanto sia vera la faccenda però io ci credo. Che poi è la base di ogni nostra verità: il desiderio. Le coincidenze sono lì apposta per supportarlo. Prendete la citazione all’inizio, è un passo di Il popolo dell’autunno. Sono parole di Ray Bradbury, esatto.
E Ray Bradbury, una notte del 1965, nei paraggi dell’ora del lupo “cotolettava” nel suo letto senza riuscire a prender sonno. Capita a tutti prima o poi, no? Se ci aggiungete una prostata sempre più bizzosa via via che si entra nell’età matura, si fa davvero la fine di Cappuccetto rosso.
Bradbury non ne poté più e si alzò dal letto, spinto da una vaga smania, gironzolò per le stanze della propria casa, che immagino grande, spaziosa e pulitissima. Finché non si ritrovò in salotto con in mano uno dei suoi romanzi. Lo sfogliò un po’ e si soffermò a leggerne alcune pagine. E all’improvviso si sorprese. L’aveva scritto lui quel libro, sapeva più di chiunque altro cosa c’era scritto dentro, o almeno era ciò che aveva creduto fin lì.
Continuò a leggere, sempre più agitato e incredulo. E poi scoppiò a piangere.
Il popolo dell’autunno NON è un romanzo di fantascienza. Quasi nulla di ciò che ha scritto Ray Bradbury appartiene a quel genere. Se lo credevate vuol dire che non avete mai letto molto di lui. E vi dirò. Sono diversi gli autori considerati di fantascienza in stile razzi spaziali e dei marziani, che non hanno mai scritto davvero di queste cose. L’equivoco promozionale li ha aiutati a diventare famosi, avvicinando alle loro pagine molta gente che non avrebbe mai dato una possibilità a degli autori HORROR o FANTASTICI.
Del resto Ray Bradbury, anche se ha scritto alcuni classici di horror e lo possiate trovare in quasi tutte le antologie orrorifiche uscite dagli anni 60 a oggi, NON è nemmeno uno scrittore di narrativa dello spavento. Lo sono Poe, Lovecraft, King, Barker, per dire i più famosi, ma non lo è Bradbury e non possiamo considerare tali nemmeno Richard Matheson, Harnan Ellison, e molti altri autori inglesi e americani venuti fuori tra gli anni 40 e i 60.
Hanno tutti scritto dei classici in vari sottogeneri della letteratura d’intrattenimento, ma non si sono specializzati. I loro romanzi e racconti possono essere definiti crossover.
Mai come ora spendo con vera necessità questa parola. CROSSOVER.
Tornando a Il Popolo dell’autunno, credo si possa parlare di horror, anche se pure qui è pure qualcos’altro. Per cominciare i protagonisti sono dei ragazzini. Persino il signor Charles Halloway, padre di uno dei due, è un vecchio bimbo. E questo piccolo nucleo di personaggi deve affrontare una minaccia enorme in arrivo dalla vagina dell’oscurità.
Il popolo dell’autunno iniziò come Black Farris e uscì sulla rivista Weird Tales, ma continuò a crescere.
Black Ferris diventò una sceneggiatura nel 1958, quando tornai dal Cinema la notte che vidi “Invitation to the Dance” di Gene Kelly. Realizzai lo script perché volevo lavorare con lui. Glielo inviai e accettò di farlo. Andò in Europa a cercare i soldi ma non riuscì a trovarli. Tornò a casa scoraggiato. Mi rese la sceneggiatura e mi augurò buona fortuna. Allora io mi misi sotto a scrivere Il popolo dell’autunno, in cui inserii tutto quello che pensavo su quella cosa terrificante chiamata Vita. E sull’altro terrore: la morte. E la loro gaiezza. Ma soprattutto feci un atto d’amore a mio padre, senza rendermene conto fino a una certa notte di molti anni dopo. Una notte in cui non riuscivo a dormire. (Ray Bradbury)
Ecco di cosa piangeva Bradbury. Dopo anni e anni si era accorto che Charles Halloway non era altri se non il papà e che molte di quelle pagine ce ne descrivono la grandezza, il genio, la fragilità e il gran cuore.
Tuo padre non può riuscire a essere il tuo più caro amico, i testi psicologici te lo dicono, ma ci sono pochi padri, credo, che non abbiano desiderato di essere amici dei propri figli, e pochi figli che non abbiano desiderato di avere un amico come padre. Stephen King – Danse Macabre
Il titolo originale del libro uscito in Italia come Il popolo dell’autunno è Something Wicked This Way Comes, frase ripresa dal Machbeth di Shakespeare e che descrive alla grandissima l’enorme qualità del libro di Bradbury: l’attesa di un temporale gigantesco e cattivo.
Ho pensato rileggendolo che in fondo non è un gran romanzo. Non fraintendetemi, è un capolavoro, ma tecnicamente non è sempre impeccabile. Lo dice anche Stephen King, quindi sono in buona compagnia. Lui sostiene che Bradbury abbia sempre avuto problemi con la gestione dei romanzi e che sia, un’annosa e irrisolvibile questione, un grande autore con il respiro giusto per i racconti ma non cose più lunghe e sistematiche.
Ci sono autori che non hanno mai scritto romanzi (Raymond Carver, Anton Checov) perché pare sapessero di non essere tagliati per farlo. Erano geni del racconto e della novella.
Bradbury potrebbe essere così e non è un caso che Il popolo dell’autunno sia stato una cosa breve che però non voleva proprio starci in quelle poche pagine, chiedeva spazio e l’autore alla fine decise di concederglielo.
Le prime venti pagine circa del libro hanno un’intensità che rischia di farlo collassare oltre quella lunghezza. A un certo punto si inizia a percepire un’eccessiva tensione e soprattutto c’è quel senso sciropposo di complicità con i buoni da parte dell’autore (comprensibile visto che c’era di mezzo una questione di famiglia) da provare quasi una certa antipatia per i due ragazzini, Will e Jim.
Ma basta tener duro fino all’arrivo dei “cattivi” e soprattutto alla scena della biblioteca, quando Charles Halloway la smette di essere un vecchio depresso che si piange addosso sugli anni perduti e rivela a se stesso e ai due bambini la sua grande levatura di pensatore e di uomo. (Da pag 161 a 164 il romanzo diventa enorme, credetemi…)
Il film della Disney del 1983, è uscito come Qualcosa di sinistro sta per accadere. Forse l’avete visto. Anche lì c’è l’imbarazzo di aver messo una storia da adulti, inquietante e pericolosa, in un contesto innocuo dove già Pomi d’ottone e manici di scopa, Quello strano cane… di papà e Zanna Gialla, avevano regalato a ragazzini come me, alcuni brividi imprevisti ma tutto sommato gestibili. Il film di Jack Clayton invece faceva sul serio e levò il sonno a molti cuccioli della mia generazione.
Ma era inevitabile che la storia di Bradbury provocasse simili equivoci in un sistema industriale che deve scegliere sempre un preciso canale commerciale in cui piazzare qualsiasi prodotto. Il popolo dell’autunno era un horror, un romanzo d’avventura e soprattutto una fiaba vecchio stile, con dei piccoli eroi alle prese con giganti e orchi.
In un certo senso Il popolo dell’autunno però è anche assai moderno, come i film della Pixar, per intenderci, in cui gli sceneggiatori scrivono praticamente i film con un senso per i bambini e uno per gli adulti che li accompagnano a vederli.
Dopo i suoi discorsi profondi e irrequieti, Charles Halloway si ferma a guardare suo figlio e il migliore amico di suo figlio (Will e Jim) e scuotendo la testa dice loro: “mi sa che non avete capito granché di quello che vi sto dicendo”. I due ammettono che è così. Ma il significato delle parole del vecchio non conta perché loro, istintivamente comprendono la sua insospettabile grandezza.
Charles Halloway è un uomo in gamba e i bambini capiscono di poter contare sul suo aiuto per difendersi dalla minaccia del popolo dell’autunno.
Ma chi è il popolo dell’autunno?
Un incubo profondamente americano. Per cominciare si parla di un luna-park cattivo. Qui da noi ci sono “le giostre” e il circo. Negli Stati Uniti quando si dice Luna-park si può intendere un ibrido tra queste due cose. Ci sono i leoni che ruggiscono da dietro le sbarre e c’è il calcinculo. Ma soprattutto, cosa mai vista nel nostro paese e non credo sia stata mai molto frequente nella cultura europea, c’erano i freak, già decantati da Tod Browning nel suo più grande capolavoro e blah blah blah.
La donna cannone, il nano, le gemelle siamesi, la donna barbuta, l’uomo illustrato… quei tipi lì.
E riguardo quest’ultimo, una tipica figura di freak da Luna-park (mi domando perché continui a scriverlo con la lettera grande) qui non ne sapevamo una ceppa fino al libro di Bradbury e anche dopo siamo cresciuti con un’idea abbastanza confusa e allarmata di un tipo che è solo un uomo tatuato dalla testa ai piedi.
Charles Halloway guardò quella mano e quella mano lo guardò. Sul dorso di ogni dito era tatuato un occhio.
I tatuaggi dell’uomo illustrato di Bradbury si muovono, cambiano, esprimono attraverso la pelle tutta la minaccia di un capo-demone che comanda una schiera di creature deformi, una comitiva ben poco allegra, nonostante le apparenze, e che arriva ogni tot di anni nel paesino di Green Town portandosi via le anime di parecchi sventurati.
Tre anni prima di Bradbury c’era già stato un altro libro con due bambini in fuga dalle grinfie di un adulto molto pericoloso e dalla pessima condotta che vuole toglierli di mezzo. Si intitola La morte corre sul fiume e l’ha scritto Davis Grubb (anche questo recuperatelo, vi prego). Ne è stato tratto un film con Robert Mitchum, esatto.
Ma il luna-park cattivo nella narrativa di genere (e nel cinema di genere) parte praticamente da Bradbury e dal suo romanzo diventa un filone abbastanza scontato ma appassionante (vi consiglio di leggere Il tunnel dell’orrore di Dean R. Koontz, tratto dalla sceneggiatura originale del film di Tobe Hooper Funhouse e Il luna-park dell’orrore di Richard Laymon (che è forse uno dei miei dieci romanzi horror preferiti di sempre, ma potete dire anche sticazzi). Ancora per il cinema guardatevi Night Tide del sottovalutato Curtis Harrington).
Ma chi ha davvero cercato di portare la fiaba di Bradbury nel mondo degli adulti è stato Stephen King con IT (grate fognarie incluse).
E King in Danse Macabre scrive: L’infanzia stessa è un mito per tutti noi. Pensiamo di ricordarci quello che succedeva ma non è così. La ragione è semplice: allora eravamo pazzi. Guardando indietro dentro a questo pozzo di buon senso come adulti, che quando non sono completamente pazzi, sono almeno nevrotici se non veri e proprio psicotici, cerchiamo di dare senso a cose che non ne avevano, trovare importanti cose che non avevano importanza e ricordare motivazioni che semplicemente non esistevano. Qui è dove inizia il processo di creazione del mito.
Anche in IT dei ragazzini devono trovare la forza di sconfiggere l’oscurità e ci riescono proprio grazie alla loro essenza di fanciulli che hanno fede nell’irrealtà e nella fantasia. La retorica di Bradbury è praticamente la stessa: se vuoi diventare grande bisogna che ti misuri con l’orrore che dilaga in questo mondo, ma puoi sopravvivere solo impedendo che il tuo bambino interiore muoia nello scontro. Si cresce con l’idea di dover invecchiare prima possibile (cit. Benedetto Croce) ma quello che ci insegna tanta narrativa horror è proprio il contrario e Bradbury, riprendendo il seme delle fiabe dei Grimm e piantandolo nel Novecento, è stato il primo a insegnarcelo.
Poi.
Tutti pensano a Farenheit 451, quando parlano dell’amore per i libri di Bradbury e hanno ragione. In fondo non c’è dichiarazione più ispirata e coinvolgente verso essi di quel romanzo, ma già in Il popolo dell’autunno l’autore decanta l’amore per i libri e soprattutto per le biblioteche.
Alla base del libro infatti c’è sia la fascinazione per i luna-park come caos che irrompe nella vita di tutti i giorni e poi c’è la grande biblioteca come rifugio in cui correre a nascondersi per sfuggire a quel caos attraente e corruttore che è simboleggiato dal signor Dark. Aule buie e piene di strane eco, scaffali enormi da cui muraglie di titoli richiamano il bisogno del sapere e del viaggio fantastico, ecco il mondo meraviglioso in cui è cresciuto Bradbury.
C’è un capitolo stupendo in cui Charles Halloway va in biblioteca per capire cosa stia capitando in città (con quello strano signor Dark e il suo esercito di pandemonio che marcia per le strade e con sguardo minaccioso scruta negli angoli in cerca di due bambini), la biblioteca è il solo posto in cui può capirci qualcosa, e anche preparare una strategia di difesa.
In questo capitolo vediamo quindi una serie di libri disposti come un orologio sul tavolo dal signor Halloway: racconti di stregoneria, una storia ragionata dei luna-park, Dracula, una raccolta delle bizzarrie dell’incisore Giambattista Bracelli e altro ancora. Non ci sono le risposte che oggi i protagonisti dei film dell’orrore trovano immancabilmente su internet (per quanto fino a pochi anni fa, dovevano recarsi in una biblioteca per consultare l’INTERNET AL PC DELLA BIBLIOTECA) ma è nella biblioteca, dicevo, che Halloway trova tutti i tasselli che la sua mente dovrà essere capace di collegare assieme per trovare la risposta che cerca.
Charles Halloway capisce chi è il signor Dark, chi è il signor Cooger, l’uomo elettrico, e chi si nasconde dietro la Strega della polvere o il nano folle con gli occhi cattivi e confusi. Ma non lo trova sui libri. Sì, ci sono alcune notizie sull’archivio del giornale locale che lo illuminano, però è lui con la propria fantasia di bambino a raggiungere il fondo di quel mistero e definire Il popolo dell’autunno in tutta la sua fascinosa pericolosità.
“Per alcuni, l’autunno viene presto, e permane, per tutta la vita… senza inverno, senza primavera, senza estate vivificatrice. Per questi esseri l’autunno è la stagione normale, l’unica e non è per loro scelta. Da dove vengono? Dalla polvere. Dove vanno? Verso la tomba… Si agitano frenetici. Corrono come scarafaggi, strisciano, tessono, filtrano, fanno oscurare tutte le lune, e rannuvolano le acque chiare. La ragnatela li ode, trema… si spezza. Questo è il popolo dell’autunno. Guardatevi da loro”
Mi sono rotto le palle di scrivere, leggetelo se non l’avete mai fatto. Non ve ne pentirete.