1991. La rivista Nuovo Metal Hammer presenta un articolo riflessivo con questo titolo: Il thrash è morto?
Non si tratta di un’analisi redatta da Luca Signorelli o da Stefano Pera, è un pezzo tradotto, di un certo Anthony Noguera, ed enumera le cause di una crisi, secondo lui, già evidente.
In effetti, solo un anno più tardi, band come Exodus e Testament deluderanno i fan con gli album più “fonfi” della loro discografia (almeno a detta dei “veri” fan di questi gruppi). Gli Overkill faranno lo stesso passo falso nel 1993 con I Hear Black a cui ho dedicato uno specialone che levati.
L’articolo di Noguera però non si interroga molto sulle possibili nuove leve in grado di scongiurare questa crisi. Parla appena dei Sepultura e non nomina nemmeno una volta i Pantera.E qui immagino qualche lettore inizierà ad agitarsi muovendo un’obiezione, anzi due: “I Sep non sono mai stati thrash e i Pantera ancora meno!”
Giusto, beh, però sappia, questo lettore, che un anno dopo Nuovo Metal Hammer, nel gennaio 1992, anche Metal Shock fece uscire un articolo sulla crisi del thrash metal, profetizzando una ripresa grazie a Wrathchild America e Fear Of God (di entrambi ne riparleremo presto) Il sottotitolo diceva così: Interviste a Carcass ed Entombed!
Che tempi, eh?
Non finisce qui. Nel 1993, sempre Metal Shock tornò ancora sull’argomento con un articolo di Massignani. Stavolta più che fosche previsioni, l’autore constatava le condizioni di un moribondo ospedalizzato. Titolo: “Thrash l’agonia!”
Massignani, ottima penna e spesso anche lucido d’orecchio, medita sulla fine del genere individuando l’inizio della crisi a due anni prima (avrà letto l’articolo di Noguera?) definendo però nel suo ragionare, un elenco di “figli degeneri del thrash” come i possibili prosecutori.
Parla di Fear Factory e la loro fruttuosa contaminazione con qualcosa di più avveneristico, e soprattutto individua nei Pantera gli unici superstiti puri del genere. Boom!
Di nuovo: cosa cazzo c’entrano i Pantera con il thrash?
Massignani contrappone al vecchio e spompo thrash il nuovo e arrembante, per quanto meno accessibile, Death Metal, compiendo un errore grossolano ma molto frequente, ovvero reputare la bolgia dei Morbid Angel e Deicide come una specie di evoluzione del thrash, quando questi due sottogeneri del metal sono nati più o meno allo stesso tempo, esattamente come il black e il grind. E solo il mercato li ha fatti affiorare in successione, come un progressivo avanzamento dentro le viscere dell’inferno. Ma mentre gli Exodus incidevano i loro demo, c’era gente che già meditava di suonare molto più pesante.
Insomma, Massignani scriveva nel 1993 che gli Obies e i Sepultura stavano portando avanti le vecchie cose in modo più esasperato, e inoltre che in Italia, tra Broken Glazz ed Extrema, noi avevamo senza rendercene troppo conto, due rari esempi di qualità ortodossa del povero e saturo thrash metal.
Aribooom!
Ma veniamo ai Pantera. Al tempo dell’articolo di Massignani c’erano già state tre cose: Cowboys From Hell e il tour di spalla ai Priest; Vulgar Display Of Power e il Monsters di Modena.
Nel giro di due anni, una mediocre power-glam metal texana di second’ordine, diventò il nome di punta del neo metallo cazzuto.
Due anni in cui noi italiani uscimmo pazzi per i Pantera, ma dopo un iniziale e, per alcuni metalloni della prima ora tutt’ora esistente, scetticismo.
Uno dei primi a intervistarli e scrivere di loro in Italia fu Alex Ventriglia per HM, sempre 1991.
Leggete pure.
PANTERA “IGNORANCE AND POWER”
“Mi ricordo le prime uffite difcografiche di quefta band texfana, terribilmente mediocri (ok, la smetto, ciao Alex!) corredate da copertine a dir poco ignobili. Forse con troppa fretta, li giudicai una band assolutamente anonima, incapace di sviluppare un sound personale che li sapesse far emergere in maniera evidente. Fortunatamente, le cose sembravano prendere il verso giusto con la realizzazione di Power Metal, del 1986, grazie all’ingresso nella band del vocalist Phil Anselmo; si trattava di un album che, seppur risentiva ancora della vena mediocre del passato, aveva dei considerevoli spunti power, in esatta sintonia con il titolo. Dopodiché silenzio assoluto. Pensavo ormai che la band non esistesse più, ma sono stato smentito quattro anni dopo con il sorprendente Cowboys From Hell, partorito con la major Atlantic. Sorprendente perché lo sviluppo della band è stato notevole, alla già acquisita struttura Power Metal si è aggiunto un gusto ritmico da delirium tremens; quando ormai credi di aver capito la composizione del brano, vieni immediatamente spiazzato da una nuova direzione musicale. Sicuramente uno dei ritorni più graditi e sconcertanti degli anni novanta; chissà se sarà proprio questo decennio a consacrarli definitivamente…”
Cowboys From Hell sorprese davvero un sacco di gente. Ma se Power Metal, titolo didascalico, fu considerato appunto power, l’album successivo cosa era?
Thrash?
Ni.
Per cominciare c’era Terry Date, capace di aiutare gli Overkill a tirar fuori il disco più pieno di palle della loro prima parte di storia thrash, Horrorscope, esatto. Il suono corposo e i riff giungiosi di Cowboys pure erano thrash. La voce di Anselmo, con i falsetti alla Halford e la raucedine alla Hetfield, era anch’essa possibilmente thrash, ma Cowboys From Hell non era Among The Living, Extreme Aggression o Year Of Decay.
Insomma, in assenza di un termine diverso in grado di esprimere l’essenza contaminata dei Pantera, i giornalisti scrissero “Power Band” e “Thrash Band”. Punto.
E questo ci suggerisce come la critica, invece di aprirsi e tentare un ponte creativo che esprima ciò che ha davanti, finisce per usare parole stantie sperando di inchiodare un’altra farfalla sul muro mentre va in cerca di una cornice libera, senza domandarsi se invece non sia una specie diversa di volatile insettiforme, cosa che erano i Pantera del 1990.
La novità non era solo il sound. C’era un chitarrista mingherlino in fissa con Van Halen e Billy Gibbons. Bob Gustafson o il duo Cannavino e Gant, con tutto il rispetto e l’affetto, non erano stati in grado di esaltare al massimo le potenzialità combinatorie della pasta sonica ideata da Terry Date. Ci volle Dimebag Darrell, il quale al tempo si faceva chiamare in un altro modo, Diamond Darrell o qualcosa del genere. Fu lui esaltare al massimo quella “satureide” produttiva.
Ciò che si sente in Cowboys From Hell, in termini puramente “guitaristici” non sconvolse nessuno dei recensori. Quel ragazzo stava espandendo la matrice del nuovo suono metal nei due decenni successivi, ma nel giro borchiato non fu un ruzzolare e strapparsi gli orecchini dai capezzoli come al tempo in cui venne fuori Van Halen.
Eppure Dimebag era già indiscutibilmente rivoluzionario e di fatto avrebbe influenzato il metal successivo, forse più del suo vecchio maestro.
Ma non è tutto lì. Phil Anselmo.
Già il nome Anselmo è strano. Non si chiama St.James o Blaster o Dio: è un Anselmo qualunque. Nome d’altri tempi, che fa pensare a un provincialotto del meridione con la passione per le burle volgari, neanche tanto sveglio. “Ehi, ecco che arriva Anselmo, tiriamo fuori i coriandoli”.
Anselmo però era qualcosa di mai visto e sentito prima. A vederlo sembrava un nazi, ma anche un moicano. Aveva l’aspetto dell’aguzzino e il genocida e del perseguitato e lo sterminato. Aveva (e ha ancora) un tatuaggio sulla parte rasata della testa e pareva davvero l’ultimo avamposto del ragazzo metallaro impresentabile.
Dopo quasi dieci anni, dagli Scorpions convertiti al cuoio e jeans, i Metallica sempre più bravi a farsi la barba e la marea di fighe maschie in stile Axl Rose e Sebastian Bach, il metal tornava a far ribrezzo e anche un po’ di paura. Guardavi Phil e pensavi: “quello mena!”.
Anselmo però non era solo un frontman inquietante e istintivamente anche un po’ detestabile, lui aveva una vena nichilista e boriosa che lasciava diverse miglia indietro le tirate sociali della bay area; piuttosto infantili nonostante gli sforzi di dare impressioni opposte.
E la tetraggine decadente del crepuscolo metal di inizio anni 90, affascinato dal grunge e spaventato dall’indifferenza ufficializzata di MTV si volse a guardare con curiosità quella specie di cazzone leader.
Non voglio mettermi a esaminare i testi di Cowboys From Hell, ma basta far cenno al fallo duro della title-track, alla necrofilia politica di Cemetary Gates e la psicopatica zingarata vissuta sul serio da Phil in Psycho Holiday, per capire quanto i Pantera non fossero solo avanti come impatto, ma anche sul piano dei contenuti lirici, n’altra roba.
Non intendo dire che le tematiche sopracitate risultassero originali nel 1990, anzi, ma dentro c’era una cosa che mancava ormai ai Testament, agli Exodus e ai Kreator: la sbruffoneria, l’orgoglio, le palle e la vita vissuta. Male.
Ora vedremo come questa attitudine si trasformò in auto-distruzione nel giro di pochi anni e di quanto sia ancora oggi sconsigliabile mandare a braccetto l’aggressività e il lato oscuro. È una storia interessante, neh? Ma per ora ci fermiamo qui. Alla prossima puntata che si intitolerà: Pantera – Under The Groove.
(Continua…)