Mario Bava

SPECIALE REAZIONE A CATENA – MARIO BAVA E L’ECOLOGIA DELLA CRITICA ITALIANA

CAPITOLO 1 – L’UOMO CHE NON CI FACEVA

Ogni volta che mi avvicino a un film italiano di genere, mi ritrovo invischiato nella vecchia disputa del cinema d’autore e del cinema artigianale. Si suppone che il primo tipo sia superiore al secondo (come se di significati e di potenti suggestioni non ne abbia mai prodotti anche il cinema su commissione). Antonioni era un autore, Fellini anche. Loro si definivano registi ma sapevano di non essere dei mestieranti. Quei due non avrebbero mai diretto un film thriller su ordinazione o un Maciste contro Totò. Lucio Fulci e Mario Bava sì. Nel tempo questi e molti altri cineasti del nostro paesotto sono stati riscoperti e trattati dalla critica alta con gli stessi strumenti intellettualistici dei “grandi registoni dei festival”. Per tanto tempo erano stati snobbati, sminuiti, maltrattati ma poi all’improvviso si videro, almeno quelli ancora in vita, dedicare retrospettive a Venezia, citare a ripetizione dai nuovi eroi del Cinema Americano (Tarantino, DanteBurton) e ottennero dal mondo un insperato lieto fine.
Una fiaba, appunto. Si è passati dal considerare in modo sbrigativo e supponente i prodotti di questi registi, ignorando, per incapacità dei critici coevi, le loro doti tecniche e inventive. Spesso i Bava e Margheriti erano costretti a tirar fuori un film in pochi giorni, su una sceneggiatura cretina, con dei cast ignobili. Facevano miracoli, questo però non li ha mai resi degli Antonioni agli occhi di un Tullio Kezich o un Goffredo Fofi.

Il mondo della critica, prima fu reso cieco dalle ideologie e i pregiudizi, poi aprì appena gli occhi e li richiuse subito, farcendo “Paura sulla città dei morti viventi” e “La ragazza che sapeva troppo”, di significati e intenti poetici del tutto accidentali e frutto della mente creativa dei critici stessi.

Mario Bava era geniale. Lo fu come direttore della fotografia, autore di effetti speciali e realizzatore della messa in scena. Quando la critica nuova lo riscoprì, gridando al miracolo, dovette fare però i conti con l’uomo. Le interviste del tempo, scritte o filmate, mostrarono un tipo che sembra uscito da un ufficio del catasto: la parlata romanesca, timido e bonario. “I miei film so’ robaccia” diceva incassando il volto puntuto in mezzo alle spalle voltolanti.
“Sono sicuro di aver fatto grandi stronzate. Sono un artigiano. Un artigiano romantico, di quelli scomparsi. Ho fatto il cinema come fare le seggiole… Per quel che riguarda l’estetica quando vedo uno dei miei film vomito… Nei miei film ci sono battute come “Io sono una medium inconscia” (L’Espresso 1979)

Ovviamente i critici si aspettavano un poeta vero, in conflitto col proprio tempo, desideroso di un riconoscimento, amareggiato con gli intelligentoni delle università e con il pubblico beota dei giornali. Invece ecco qui, il più tenace ridimensionatore dei film di Bava, il più avverso agli intellettualismi revisionistici con cui la critica stava mostrando una nuova cecità, era stato proprio lui, Mario il mago.

Se avesse letto le cose scritte su di lui a partire dagli anni 90, si sarebbe messo a ridere e avrebbe mostrato un certo rincrescimento per l’ottimismo visionario dei nuovi giovani critici. “Quando troppo e quando niente”, avrebbe detto.
Ma in questa attitudine gli appassionati sostenitori di Bava hanno sempre visto una conferma del genio: umile, innocente, quasi inconsapevole di se stesso, come un medium naturale che permise a visioni e narrazioni di concretizzarsi e diffondersi nei decenni, senza guastarle con un fastidioso intellettualismo mediante.

CAPITOLO 2 – UNA RICERCA A CATENA

Guardando per la quarta volta Reazione a catena aka Ecologia del delitto, ho pensato come sempre che è un film molto noioso. So cosa ha anticipato, so che è stato modello per tanti film americani slasher. So tutto. Ma continuo a non vederlo come qualcosa di speciale. Mi piace la violenza che c’è, come è rappresentata. Amo gli omicidi, il finale, ma fatico a restare coinvolto per tutta la durata del film.

Preferisco il sottovalutatissimo Cinque bambole per la luna d’agosto, che è più o meno Razione a catena con un intreccio più tradizionale e senza il gore. Ma invece di annoiarvi con le mie considerazioni personali, preferisco qui rendervi partecipi di una mia ricerca svolta intorno al film e quello che ne è stato scritto nel corso degli anni.

Cominciamo dalla sua uscita. Datato 1971, non ho idea di quanto abbia guadagnato, ma garantiscono che già allora ricevette critiche positive. Pezzotta sul Castoro dice che “fu presentato al festival di Avoriaz ma che subì poi una pessima programmazione nelle sale italiane. Ebbe la rivincita quando le reti private (Fininvest) un decennio dopo, iniziarono a trasmetterlo “a tappeto”.

Ma ricapitoliamo la rassegna critica. Il primo giudizio che ho rilevato su Reazione a catena, è sul secondo volume della Storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, uscito per Fanucci nel 1978. L’autore non parla del film, giudicandolo solo un thriller e quindi fuori dallo spazio di competenza della sua analisi. Non poteva immaginare che proprio lo stesso anno della pubblicazione del libro edito da Fanucci, Halloween di Carpenter (e poi soprattutto Venerdì 13 di due anni dopo) avrebbero reso Reazione a catena un prototipo orrorifico decisivo.

Senza contare il piccolo cult canadese di Bob Clark, Black Christmas del 1974, a cui si sarebbe ispirato Carpenter stesso per il primo film con Michael Myers, e che nel 1976-77, periodo in cui presumibilmente Mora redasse il secondo volume della sua “Storia”, era troppo piccolo e strano, il film di Clark dico, per illuminare il povero Teo sulle parentele con Bava e soprattutto sulla progenie che da lì si sarebbero via via scatenate.

Citiamo comunque Mora e vediamo cosa scriveva nel 1978 di Mario Bava: “Regista della trasgressione, dell’ambiguità, barocco creatore di realtà oniriche, Bava lo è stato fin dai suoi esordi, ma la sua opera meno recente può essere definita addirittura classica, se paragonata alle folli costruzioni dei suoi film più recenti, in cui l’autore ligure – favorito pare da una situazione produttiva particolare che gli lascia estrema libertà – si diletta a dissolvere ogni possibilità di interpretazione razionale per vicende narrative assurde in cui ha importanza soltanto l’inesauribile susseguirsi di virtuosismi registici”.

A parte la reiterazione “recente” e “recenti” in due righe di fila, quello che emerge dal commento di Mora è la quasi totale sfiducia in un regista, “reso libero” (chissà come mai) dai produttori, di sfarfallare verso realizzazioni sempre meno “classiche” e via via più svuotate di senso, in favore degli “svolazzi registici”.

Questo era Bava nel 1978. Un tipo strano, barocco, ambiguo e soprattutto lasciato da produttori sprovveduti a se stesso. Il Bava anni 70 è quello della vaghezza erotica e la violenza esagerata, di un tardo surrealismo e del declino ambizioso.

Ci sono Le bambole della luna d’agosto, dieci film in sette anni, la baia di sangue e l’attitudine amara, con un western e una commedia così lontani dai territori gotici e cattivi di Lisa e il diavolo, Gli orrori del castello di Norimberga e Cani arrabbiati. Viene la tentazione di riconoscere in Bava un fondale di rabbia, di cinismo e crudeltà verso la razza umana, ma è più probabile che il regista cercasse di soddisfare un mercato sempre più esasperato e fosse, come tutti gli artisti di talento, un valente catalizzatore di un periodo molto difficile per l’Italia, tra bombe e attentati.

Su Reazione a catena (noto anche Antefatto) Teo Mora chiude definendolo “un curioso film giallo”.

Curioso è dire poco. È un giallo de-costruito, ma non da Bava. L’attitudine intellettuale e cattiva non partì da lui. I film si fanno in tanti. Dare al regista l’accollo di ogni senso e intenzionalità è solo una convenzione. Si dice Bava ma si parla di Carlo Reali, montatore, di Dardano Sacchetti e gli altri giovani incazzati che idearono il soggetto e spiegarono poi la sceneggiatura.

La fotografia è dello stesso Bava, ma questo non mi smuove dall’idea che il Bava fotografo non fosse il Bava regista e il Bava regista non poté essere tutte e cento le personalità che si avvicendarono nella realizzazione del film. Questa visione totalizzante del ruolo del regista come autore, applicata come uno stampo troppo rigido alla figura di Bava, ha condotto la critica verso altri film, altri sensi, altri sguardi.

Ma una parte del cervello di chiunque, ha dovuto tacere davanti a roba come Zombi Horror o Non si deve profanare il sonno dei morti la netta sensazione che un film non potesse essere l’opera di un solo tizio e che molte delle cose viste dai critici non nascevano e non si potevano ricondurre solo a chi dirige perché alla fine è colui che aveva detto “va bene, lasciamo così!”.

Prendiamo il contributo di Filippo Ottoni a Reazione. Quasi ignorato in tutte le trattazioni critiche su Bava, a parte Nocturno che ne riporta delle preziose dichiarazioni, lui veniva da una scuola di cinema Inglese, quindi era molto influenzato, come moltissimi al tempo, dalla retorica sul cinema degli autori (da Godard, Truffaut e così via).

“Ho frequentato la scuola di cinema a Londra, alla fine degli anni 60. Era il periodo della Nouvelle Vogue, di Truffaut, Godard… Io venivo da questa esperienza e da questa passione del cinema d’autore, colto, mentre poi mi sono trovato a fare cinque film totalmente diversi” (Filippo Ottoni)

Quando tornò in Italia e si mise a lavorare nel cinema, il suo intento non era certo quello di fare un mestiere, un artigianato per camparci, ma di combinare una qualche rivoluzione. Ecco perché realizzò La grande scrofa nera, fallimentare tentativo di coniugazione tra il verismo, il feuilleton e l’ideologia moderna, risoltosi in una specie di fotoromanzo nero.

E vi pare che quando si trovò di fronte Mario Bava, disperato per via di una situazione finanziaria molto complicata, Dardano Sacchetti e Franco Barberi fuori dalla circolazione (i due giovani soggettisti erano stati licenziati in tronco dalla produzione) e il pittoresco produttore Giuseppe Zaccariello che insisteva a mettere la parola “Ecologia” nel titolo perché era un termine nuovo e che “andava”, vi pare dico che il giovane e ambizioso Ottoni non cercò di rendere un thriller violento qualsiasi come una contestazione critica al genere dal suo interno?

Ecco perché la storia appare così cinica, disinteressata all’intreccio e per molti versi provocatoria verso un pubblico assuefatto a cosce lunghe e pummarola colante. Ecco perché le citazioni letterarie come lo squonk viene de Il manuale di zoologia fantastica di Borges, ma non è Bava il responsabile di tutto questo: è Ottoni.

“Siccome Zaccariello aveva questa strana idea che io fossi un autore colto, nella sua fertile immaginazione mettere un autore colto con un regista di mestiere, in un film di genere, poteva sortire un effetto straordinario. Gli dissi che non ero neanche appassionato di gialli. Provai a scrivere allora questa storia, della quale esisteva la traccia narrativa ideata da altri. Si trattava di rimpilzarla, di ampliare un po’, soprattutto scrivere i dialoghi. Reazione a catena poi io l’ho visto solo di recente e quello che mi ha colpito è il livello letterario (non voglio dire colto) dei dialoghi. In bocca a dei personaggi che secondo me non c’entrano niente e che crea una sorta di bizzarro effetto di straniamento. Claudio Volonté, che fa il guardiano della baia, parla usando i congiuntivi e aggettivi assolutamente improponibili”.

E sentite Dardano Sacchetti a proposito della nascita del soggetto di Reazione a catena: “Lessi sui giornali un’intervista ad Argento, il quale diceva che Gatto a 9 code era nato da un suo sogno. Mi incazzai e lo smentii con una lettera allo stesso giornale. Il risultato fu che Zaccarielo mi chiamò per dirmi che stava producendo una cosa insieme a Mario Bava, Così conobbi Mario, che con Zaccariello aveva pensato a una storia ma non c’era un soggetto, non c’era niente ancora. E io scrissi due storie per lui: una si intitolava Così imparano a fare i cattivi. L’altra era Il padrone di casa, che divenne Shock, l’anno dopo”.

“In quel momento collaboravo con un ragazzo di Torino, Franco Barberi. Barberi aveva molti problemi personali e stava antipatico a Bava, per cui ci fu una lite clamorosa tra Barberi, la produzione e Mario. Venne licenziato. Siccome io ero un ragazzo di sinistra, dissi: “se licenziate lui, dovete mandar via anche me”. Praticamente ho mollato il film alla consegna della prima stesura di sceneggiatura. Il film è giocato sul divertimento degli omicidi strani. Mario mi disse proprio che intendeva fare un film con tante morti stravaganti e quindi voleva che io inventassi un numero impressionante di omicidi, uno diverso dall’altro e uno più bizzarro dell’altro. Il tutto però, sotto l’occhio dei bambini. Io ero influenzato da due cose in quel momento: da un certo tipo di letteratura e di film inglesi, in cui i bambini erano usati spesso in maniera diabolica. E poi, non so perché ero influenzato da Farenheit 451, cioè questo mondo diverso, questa discrasia completa”.
“Mario era un poeta d’immagini. Mai vista una persona nata per il cinema, come lui. Scriveva con la cinepresa. Non era in grado di farlo a parole. Non buttava giù soggetti. Gli bastava capire la storia e la reinventava con degli storyboard. Spesso partiva dall’idea di un’angolazione e bisognava scrivere la scena in funzione di quell’inquadratura”.

Il figlio Lamberto ci tiene a precisare che se il padre non scriveva, però inventava scene che faceva inserire nella sceneggiatura: “Nella sceneggiatura ci sono tante cose di mio padre. La scena della vecchia sulla sedia a rotelle è sua e anche quella dei bambini nel finale. Io ho girato la morte di Mario Volonté”.

Insomma, credo di aver dimostrato che non era Bava a volere un film così contestatore, ribelle. Gli piaceva fare le cose in modo diverso, per una volta, ma eseguì il film così poiché Zaccariello aveva combinato la collaborazione con Ottone e perché Ottone aveva ideato le cose in quel modo dissacratorio.

Che coppia quei due! Uno giovane e incazzato, colto e vivace, l’altro un vecchio regista stanco e pensoso, esperto e pratico. I due andavano in giro per il Circeo in cerca delle location e quando Ottoni gli spiegava le scene violente, Bava si impressionava e si turbava visibilmente, lasciando l’altro in uno stato di incredulità.

Dire che Reazione a catena “è il marxismo secondo Bava”, come conclude Giona Nazzaro su un vecchio Dossier di Nocturno dedicato al regista, può anche starci, ma non è “secondo Bava”. È secondo Bava, Sacchetti, Barberi, Ottoni e Giona A. Nazzaro.

Seguitiamo con la ricerca e facciamo un salto di dodici anni dal volume due di Teo Mora: Lo schermo insanguinato di Maurizio Colombo e Antonio Tentori. Sono successe un sacco di cose. Lo slasher è esploso e imploso. Il gore si è tramutato in splatter e poi si è seccato al plumbeo sole degli anni 90 e il cinema di genere italiano è praticamente scomparso. Ecco cosa Colombo, probabilmente lui, più che Tentori, scrisse allora di Bava e di Reazione a catena.

“Per la prima volta Bava si cimenta col il cinema splatter, quando ancora la moda del nuovo horror non era arrivata nel nostro paese. Reazione a catena è un thrilling astratto, fatto di sequenze iper-violente (a cui poi si sono ispirati gli americani) e di un umorismo corrosivo. Il vero divo del film è il regista, le cui trovate di regia e le deliranti immagini lo mettono sempre in primo piano: la macchina da presa impera, in un forsennato inno al Grand Guignol”.

Qui ormai è chiara l’eredità del film e il potenziale genetico verso Venerdì 13 e simili, ma c’è un errore grossolano. Lo splatter nel 1971 non esisteva ancora. Quello che si vede in Reazione a catena è il gore.

Che differenza c’è? Beh, diciamo che in un certo senso Bava anticipava il surrealismo e il comico tipici dello splatter, ma inconsapevolmente. Il gore è più la violenza rappresentata in modo generosamente realistico. Per dire, è un machete che mozza di colpo una testa, con il sangue che sgorga sul pavimento e il primo piano della lama lorda di sciroppo rosso. Con lo splatter la testa tagliata volerebbe nella stanza e cadrebbe tra le cosce di una procace biondona, magari piantandole i denti sulla patata prima di cadere in terra con la bocca spalancata e la lingua di fuori.

Il gore in Reazione diventava quasi splatter perché in alcuni dei delitti c’era soprattutto un fondale evidente di ironia. Penso alla testa decapitata di Laura Betti che nel montaggio diventa di coccio e poi ai due amanti messi allo spiedo, che sembrano continuare la copula anche dopo che sono stati trafitti dalla lancia.

Dal 1990 al 1993, quando ormai il cinema splatter era un genere quasi a sé, c’erano amanti di film horror che lo odiavano e amanti di splatter che detestavano l’horror tradizionale, così come oggi ci sono nel metallo tanti in fissa con il Death e il Black Metal che non sopportano il metallo classico. In Italia nel 1993 uscì il definitivo La guida al cinema Splatter di Castoldi & Castoldi con dentro inserite le schede di parecchi film di Bava. Di Reazione a catena scrivevano:

“Questo film di Bava, forse non è uno dei migliori ma indubbiamente è uno di quelli che più ha lasciato in eredità al filone americano…” eccetera eccetera.

Forse non uno dei migliori. Dal “curioso thriller” di Mora all’autoreferenza veniale di Colombo/Tentori, fino a questo ridimensionamento dei Castoldi. Forse un film minore.
Un anno dopo, Fabio Giovannini, nel suo saggio Serial Killer – Guida ai grandi assassini della storia del cinema, parlò di Reazione a catena come di uno dei film più importanti di Bava, sempre per via dell’influenza sullo slasher americano anni 80 ma aggiunse una notizia che non sapevo: “Negli Stati Uniti si sono accorti subito che il film si caratterizzava come una innovativa incursione nello splatter e lo hanno ribattezzato Last House On The Left 2
Ancora con ‘sta storia dello Splatter nel 1972. Ma va beh.

Il critico Tim Lucas dall’estero invece scrisse che “Reazione a catena può essere definito una tragedia elisabettiana… Vista oggi, la violenza di questo film risulta potente ed esplicita quanto un moderno splatter”.

Meglio, no? E nel giugno 1995, ormai in piena rivalutazione, uscì il Castoro di Pezzotta su Mario Bava. E lì fu la fine.

“La mosca che muore all’inizio e i discorsi di Leopoldo Trieste e Claudio Volonté servono a farci capire che gli uomini sono insetti. La coppia trafitta sul letto è seguita da uno scarabeo che si agita pancia all’aria, trafitta da uno spillo nel laboratorio di Trieste (Fossati). E come insetti Bava tratta i suoi personaggi. L’assenza di sfumature, la caratterizzazione mediocre, in questo caso è funzionale al rappresentare un mondo dominato dagli impulsi brutali”.

La caratterizzazione mediocre dei personaggi è quindi voluta. L’uso degli zoom, quello sì è funzionale, ma non per risparmiare soldi e tempo. Mentre secondo Pezzotta è una definitiva scelta stilistica.

Conferma Giona A. Nazzaro dieci anni dopo sullo zoom: “Il valore del film sta nello sguardo, per esempio, che porta al sublime il lavoro sullo zoom, il fuori campo e il fuori fuoco”.

Ecco cosa ne scrisse invece il redivivo Colombo sul dossier dedicato a Bava nell’Almanacco di Dylan Dog del 1996.

“Questo film dovrebbe essere citato nel guinnes dei primati per l’abnorme quantità di zoomate: c’era poco tempo per la lavorazione e quindi il regista ovviava all’impossibilità di eseguire i cambi di scena necessari”.
Ma Pezzotta seguitò imperterrito sul Castoro, a creare significati aulici dalle macerie di una vita vissuta nel cinema, mandando giù rospi vivi e cagando miracoli iridescenti.

“Nel film l’uso del fuori-fuoco diventa quasi sistematico, forse irritante – a seconda dei gusti – comunque giustificato da una poetica coerente”.

“Cose e persone sono sospese tra visibilità e invisibilità. Se la funzione dello zoom è quella di mettere in rilievo, di avvicinare l’occhio alle cose, il fuori-fuoco ne è la negazione: è il ritorno della materia in un caos indistinto e inorganico, o forse il segno di una visione mentale, come i colori che si vedono quando si chiudono le palpebre. C’è un gioco di cambio di focali molto bello, dove quello che sembra un sole in cielo si trasforma in un occhio che spia (quello di Simone). L’occhio dell’assassino è dunque quello della natura, il sole sempre al tramonto che splende sulla baia”

Tutto molto bello, complimenti a Pezzotta, ma quello non è Bava, nemmeno Ottoni. Quello è lui che crea un “Bava autore” e partendo dalle immagini, inventa un cinema che non esiste, se non nella sua testa e sulla carta del volume Il castoro. Nulla di male, dopo quelle suggestioni, rivedendo Reazione a catena, ho ammirato di più le sequenze nell’ottica di Pezzotta, ma non si tratta del film ideato da Bava per salvarsi dal lastrico.

Va bene così, ma contesto il voler mettere in bocca a Bava certe illuminazioni che sono del critico. Essendo tutte cose molto belle, nessuno si sognerebbe di denunciare Pezzotta per infamia, ma anche le cose belle possono essere fasulle e compromettenti.

“Reazione è un vero film d’avanguardia che se ne infischia delle regole e che non fa nulla per essere commerciale. A Bava non interessa l’omicidio in sé, quanto le sue conseguenze: per questo inquadra i corpi dopo che sono stati feriti mortalmente, spiandone gli ultimi sussulti, come se vi si nascondesse qualche segreto”.

Altroché se non gli fregava di vedere qualche soldo con Reazione a catena! L’indugio sui corpi, semmai era controproducente, perché gli attori erano talmente incapaci, alcuni di loro, da non riuscire nemmeno a star fermi e fare “il morto” senza scattare con gli occhi o gonfiare il petto leggermente.

Ancora Pezzotta: “Interessante, a proposito di verosimiglianza sabotata, un uso delle luci irrealistico. A partire dall’arrivo di Renata e Alberto, la vicenda si svolge in un eterno crepuscolo, ma quando la Betti vaga per i boschi, la luce sembra molto più chiara di quando sono inquadrati gli altri personaggi. Semplice trascuratezza della script girl che non ha fatto il suo lavoro? Fatto sta che il film precipita in un’atmosfera spiccatamente onirica”.

“La scena del bosco (che non c’era) è stata raccontata dalla Betti come uno dei momenti più complicati del film, con lei e l’altro attore che non riuscivano a rimanere seri, a fingersi in un bosco ricreato da Bava con qualche ramo intorno alla camera. Ecco cosa intendo quando si vuole vedere volontà dove c’è solo mestiere, e il mestiere è saper tirare fuori un film in qualsiasi condizione avversa. Non è controllo totale e totale funzionalità nella messa in scena. Se l’attore non sa fare l’espressione, il regista risoluto (e Bava lo era) sceglie di inquadrarlo da lontano. Poi arriva il critico e scrive: “questo stacco improvviso da primo piano che ci aspetteremmo a un piano largo crea un effetto onirico molto suggestivo che rimanda alle origini del surrealismo”.

Certo, come no?

Maurizio Colombo sull’Almanacco di DYD del 1996 scriveva un dossier su Bava, e questo era il segno che ormai Mario fosse ovunque e per tutti un regista importante del genere horror.
A proposito di Reazione a catena, Colombo non disse nulla di nuovo, a parte che fu una delusione per Bava a causa degli scarsi incassi.

Nel 1999, Luca Rea dedicò un volume al thriller all’italiana, I Colori del buio. Lì Bava impera. E a proposito di Reazione a catena scrive: “In un momento di massiccia richiesta di gialli “alla Dario Argento” Bava, fingendo di adeguarsi, reinventa il genere, scoprendo il “gore” (qui uno parla sapendo) e lanciando lo “slasher Movie” che farà la fortuna dell’horror americano… e bla bla. Lo stile abbandona di colpo il legame con il passato (in cui Bava ha affondato le radici di autore) e si lancia nel nervoso futuro prossimo (L’azione da “macchina a spalla” anni 70) e futuro remoto (il cosiddetto “pulp” degli anni 90, che il Maestro codificherà ancor più profeticamente con il successivo e sfortunatissimo Cani arrabbiati)”.

Maestro. Autore. Da quel “privilegiato” e “autoreferenziale” degli anni 70 ne è passato di sangue sotto i ponti. E lo stesso Mereghetti nel suo dizionario del 2000 definì Reazione come uno dei migliori film di Bava, alla faccia dei Castoldi.

A chiudere ci pensa Curti nel 2003 sul volume seminale Sex & Violence.

“Reazione a catena è un film morale. Tutti muoiono perché tutti sbagliano e quindi meritano la fine che fanno. Qui il sadismo c’è ma è in funzione della maturazione di un distacco ironico che si trasforma in feroce e doloroso sarcasmo. Gli uomini si ostinano a essere stupidi e meschini, e Bava li punisce trattandoli come animaletti”.

Anche per Curti non conta che sia stato Ottoni a scrivere la sceneggiatura e probabilmente ideare la metafora uomini/insetti. È Bava entomologo marxista e uomo morale a dare la bastonata decisiva all’Italia violenta del 1971.

L’ultimo a scrivere una cosa interessante su Reazione a catena è stato l’imponderabile Giona A. Nazzaro, sul Nocturno Dossier dedicato a Bava padre e figlio, nei primi anni del nuovo millennio.

“E comunque continuare a dire che ha ispirato Venerdì 13 e altre scempiaggini del genere non sembra certo un gran complimento”.

E aggiunge un’altra cosa vera:

“Oggi il cinema di Bava è tanto prezioso, perché anche quando si pensa di averlo smascherato, il nostro sguardo si trova sempre a scrutare altre maschere, altre identità. E questo gioco è il gioco del cinema”.

Un gioco, esattamente come l’omicidio per i due pischelli del finale.

CAPITOLO 3 – LA MORTE A MANOVELLA

Concludo con un altro gioco che di solito pratico da solo ma che qui voglio condividere con voi. Come sono morte davvero le vittime di Reazione a catena?

Vediamo un po’:

Leopoldo Trieste: l’entomologo Paolo Fossati, strangolato con il filo del telefono mentre cerca di chiamare la polizia, muore davvero d’infarto in ospedale, 33 anni dopo.

Claudine Auger: Renata Donati, uccisa dai figli stessi nel finale del film, muore 48 anni dopo, al termine di una lunga malattia.

Luigi Pistilli: l’Alberto diabolico che fa coppia con Renata e muore insieme a lei nel finale, nella realtà si suicida 25 anni più tardi dopo una lunga depressione.

Claudio Volonté: Simone, ucciso da Alberto nel film, realmente si sarebbe ammazzato sei anni più tardi in carcere dopo aver ammazzato per sbaglio un amico.

Chris Avram: il sanguinario Ventura, muore diciannove anni dopo il film, nel 1989, per cause che non conosco.

Laura Betti: la cartomante decapitata, muore 33 anni dopo, in ospedale, a settant’anni.

Brigitte Sky: la ragazza che si tuffa, muore 41 anni dopo. Non so come.

Isa Miranda: Federica Donati, la vecchia contessa, non era così vecchia, sarebbe morta dodici anni dopo, a 67 anni, in ospedale alla Garbatella,

Paola Montenero: la ragazza trafitta nel letto, muore 45 anni dopo, non so come.

Roberto Bonanni: è ancora vivo e mi fa le corna.

Giovanni Nuvoletti: conte anche nella vita vera, muore 37 anni dopo.

Renato Cestié e Nicoletta Elmi: i due bambini assassini del finale, sono ancora vivi ed entrambi sopravvissuti alla serie I Ragazzi della terza C.