SPECIALE DOWN – TUTTA LA STORIA!

CAPITOLO 1 – BIRRE ALL’ASILO

Aggettivi banditi per questo specifico articolo: fangoso/melmoso, southern, sabbathiano, sonorità sporche.

“Siamo cresciuti tutti insieme e ci conoscevamo prima di entrare in una band, quindi era una cosa molto strana da cortile della scuola rispetto a un grande conglomerato di persone che ci dicevano cosa fare. Eravamo solo un mucchio di idioti che bevevano birra e scrivevano musica”. Pepper 2002

Cominciamo dalla Storia. I Down Nascono nel 1994, anzi nel 1991. Purtroppo le fonti non concordano. Windestain parla di 1994 in un’intervista su Metal Shock risalente al novembre 1995 (a cura di Pino Magliani) mentre Wikipedia dice ‘91.

“Ci siamo incontrati tutti nel 1991 nel garage dei nostri amici e il primo giorno abbiamo scritto Wings, Losing All e Bury Me In Smoke di Temptation”.

Ok, grazie Jimmy Bower.

Prego, Padrecavallo.

Quindi nascono nel 91, dalla noia e come tutte le cose che vengono dal vuoto cosmico, sono una ficata.
I Down nascono dalla noia e da un registratore a non so quante piste. Il risultato è un demo un po’ cagoso da tenersi giusto per riascoltarlo al cesso e magari spararlo nelle orecchie di un amico molto rilassato al sabato sera.

“Esatto” dice Kirk Windstein. “Io e Pepper doppiammo giusto una dozzina di cassette per noi e per qualche amico. Portai le cassette con me durante i tour dei Crowbar, come credo che facessero anche Phil e gli altri, e qualche volta mi capitò di doppiare alcuni nastri per gli amici che venivano ai concerti. Insomma, era una cosa fatta così, a livello amatoriale”

“Nel 1992” aggiunge Phil Anselmo, sono volato con i Pantera in Italia, e abbiamo suonato su questo palco con Danzig (per la verità erano i Warrant), Iron Maiden e Black Sabbath con Ronnie James Dio, e mi sono imbattuto in Chuck Billy dei Testament. Ho pensato: “Fammi provare con lui”. Così siamo andati sul suo bus e io gli ho detto: “Dai un ascolto a questa roba”. Beh, gli è piaciuto subito. Gli ho detto più tardi che eravamo io, Pepper e gli altri ragazzi. Penso che quel demo abbia ingannato le persone perché tutti erano così abituati a sentirmi cantare in stile Pantera” che l’approccio più melodico li abbia davvero spiazzati”.

Poi però iniziano a succedere delle cose strane. Il demo circola oltre il piccolo giro dei coinvolti. Ovviamente l’avvio è di Pepper. Lui ha l’idea stra-figa di spargere in giro il seme, avvolgendo in un mistero cupo la cassetta con su scritto Down. “C’è di mezzo gente grossa che però vuole respirare in pace e godersi la propria creatività”

Chi?

Eh, indovina…

“Un giorno si presentarono dei ragazzi con registrazioni inascoltabili” dice Kirk, erano il frutto di non so quanti passaggi di mano di quei demo. Avevano saputo, e non so come, che io ero coinvolto nei Down. Così per premio gli regalai una versione migliore di quelle orrende cassette copiate. Gli domandai, ma dove le avete prese? Mi risposero di averle comprate da qualcuno che le vendeva in quelle versioni pirata e ci faceva dei soldi. Cazzo, era ora di gestire ufficialmente la nostra roba!”

Riguardo “Nola”, il primo album dei Down, è interessante oggi notare come il tape-trading, nel 1995 potesse ancora determinare la nascita di un nuovo fenomeno underground.

“Quel demo originale di tre tracce” assicura Jimmy Bower, “ora è roba da leggenda, anche perché la band distribuiva cassette senza dire a nessuno chi fosse il gruppo, incoraggiando i fan a copiarlo e passarlo”.
Vero” conferma Pepper, “andavamo in tour e dicevamo, ‘Amico, hai sentito questa nuova band?’ Così alla fine ho fatto io un piccolo logo e l’ho infilato nella scatola della cassetta, ma non ho detto a nessuno che eravamo noi, ovviamente”.

Prima che si spargesse la voce e si capisse che i Down erano chi erano, il demo aveva già fatto il giro del mondo. Tanto che in Scandinavia, durante un concerto dei Corrosion Of Conformity, Pepper lesse uno striscione di un tipo con la maglietta dei Down (fatta in casa) su cui c’era scritto: “Tanto lo sappiamo chi siete!”

CAPITOLO 2 – NOLA

La copertina di Nola è nera con un simbolo sopra. Una specie di giglio, tipo quello della Fiorentina, che è lo stemma di New Orleans, Louisiana. Nola sta per NewOrleansLouisianA. Ok?

Su quel disco il gruppo è formato da:
Phil Anselmo (Pantera)
Pepper Keenan (Corrosion Of Conformity)
Jimmy Bower (Eyehategod) che nei Down suonava la batteria, mentre con gli EyeHateGod sventrava la chitarra.
Kirk Windestain e Todd Strange (entrambi nei Crowbar).
Tutti erano di New Orleans, tutti amici da gran tempo, tutti fanatici consumatori di oppiacei e luppolo. Tutti in preda a una certa insofferenza per come le band principali si fossero ormai intasate in uno spazio stilistico molto caratteristico e limitante.
Nel 1995 e per i cinque anni dopo, Todd Strange fu il bassista della band, ma giusto perché, come dirà Anselmo qualche tempo dopo la sua uscita, “qualcuno doveva suonare il basso e non si sapevamo chi altri chiamare”. Quando Todd decise di lasciare il metal e dedicarsi alla famiglia, Phil lo salutò un po’ di merda perché dichiarò: che Todd nei Down faceva le stesse cose che faceva nei Crowbar. In fondo non era così determinante o sintonizzato sul vero senso della band”

E quale sarebbe il senso della band?
“Questo”, dice Anselmo dal fondo della sua palude di catarro: “se hai voglia di fare qualcosa che non puoi fare altrove, falla qui”.
E in effetti i quattro elementi coinvolti erano già centrali nei gruppi da cui provenivano, ma per esempio Anselmo nei Pantera aveva scarsa libertà d’azione; Kirk e Jimmy volevano tirarsi un po’ fuori dalla melassa oscura di Crowbar e EyeHateGod, e Pepper aveva tutta una sfilza di band anni 70 che avrebbe voluto omaggiare oltre le muraglie sature dei Corrosion Of Conformity di Blind e Deliverance, quindi era la regola sul certificato di nascita della band: non si poteva suonare nei Down solo per fare quello che potevi fare altrove. E basta sentire Nola per accorgersene. Chi amava i Pantera, i Crowbar, Corrosion e OcchicheOdianodiO, non necessariamente amò quel disco quando uscì.

Intanto il nome. Lo inventò Anselmo.
“Eravamo tutti nello stesso viaggio allo stesso momento” dice. Era quasi il Mardi Gras e ci eravamo presi tutti un fine settimana libero. Volammo a New Orleans per una ragione… Beh, c’erano diversi motivi, e uno di questi era fare festa e ubriacarsi al Mardi Gras, ma anche per fare la demo di Down. Stavo pensando alla musica a ritmo lento, musica a ritmo lento, e la prima cosa che mi venne in mente per il nome di una band fu stata la sindrome di Down, ma non volevo andarci troppo vicino. Così la parola “Giù” pensai fosse già abbastanza buona perché dava l’idea di una parola lenta, capisci?”
Down. In questa parola c’era tutto il midollo spinale di Phil Anselmo e nel disco del 1995 c’era anche tutto il suo casino esistenziale. L’elemento che faceva più sensazione era ovviamente Anselmo e il suo modo di cantare molto diverso rispetto allo stile Pantera.
Pepper nel 1996: “Esatto, Phil ha un approccio meno diretto e più al servizio della canzone. Anche la parte strumentale è molto diversa dagli schemi che adottiamo con le nostre band. Siamo molto vicini ai grandi classici metal degli anni 70, come i Black Sabbath e i Pentagram e i Witchfinder General. Ci piacciono molto anche gruppi attuali che si rifanno al passato, come Trouble, St. Vitus. E Obsessed. E soprattutto la più grande ispirazione sono i Melvins del 1987, quelli di Gluey Porch Treatments,”.
Melvins, cazzo. Vedrete quanto saranno citati nei prossimi articoli. Ma tornando a Phil, non fu solo l’uso della voce. Anche i testi di Anselmo erano davvero lontani dalle riflessioni “filo-dopiste” di “Domination” o all’individualismo rissoso di “Walk”. Qui c’era un uomo stanco, disperato, pieno di droga fino al culo.
Dopo anni di salti e calci a tutto, la schiena di Phil aveva iniziato a fargli male un casino e gli antidolorifici prescrittigli dal medico non reggevano granché quel casino. L’eroina invece sarebbe stata un toccasana, che non ti dico.

CAPITOLO 3 – I PROBLEMI DI PHIL


Nel 1995, Anselmo non aveva ancora toccato il fondo, ma era cominciata quella fase che Kerry King avrebbe definito: “i demoni neri di Phil Anselmo”.
I Down avrebbero potuto essere solo uno sfogo di un uomo che aveva fatto una mega-rissa di quattro anni lordi con il mondo, sbudellandosi la gola a forza di urlare “paaaawer” “loooove” e “Broooke” e che ora si prendeva una pausa a base di birra ed “erba medica”, ma quando Anselmo tornò nella dimensione Pantera, con The Southern Trendkill, non era più il vecchio Phil, era sempre questo reietto che sprofondava nel quartiere francese di Malebolgia tutte le sere e dalla cui gola usciva ormai solo catrame biliare. Fu l’inizio della fine per i Pantera, anche perché gli Abbott si fecero pizzicare abbondantemente il culo per la faccenda dei Down. Come mai un progettino fatto per cazzeggiare era diventato un gruppo serio da portare in tour, con interviste e tutto il resto? E perché certe idee così stupende non Anselmo non le condivideva con i Pantera invece di sprecarle in quel cazzo di album dei Down?
Phil: “Se avessi portato alle prove una cosa come Bury Me In Smoke, loro mi avrebbero riso in faccia. Non erano assolutamente interessati a quel tipo di cose. Ora che le sentivano su un disco e che questo disco raccoglieva consensi erano gelosi e mi rinfacciavano di non aver pensato alla band ed essermi fatto i cazzi miei con i Down”.
Comunque, al di là delle polemiche, i Down erano indiscutibilmente “la casa del sole nascente” di Phil Anselmo, fu lì che andò a copulare con la propria disperazione nel 1995, era l’unica puttana in grado di ungere un po’ d’amore sulle sue ferite più profonde: la mamma New Orleans che moriva schizzata di sperma e soldi stracci. La prostituta morente che Anselmo avrebbe inneggiato qualche anno dopo.
“Incredibile” dice Phil. Dopo tanto tempo, riascoltare Nola mi fa semore un effetto davvero strano. Per certi versi quei testi sono una visione dettagliata del futuro a cui stavo andando incontro. Io non facevo ancora la vita del tossico di cui canto in quei pezzi, capisci? Ma l’avrei fatta. E le parole di quei brani descrivevano perfettamente ciò che avrei combinato più tardi”
Uno può anche dire, bella forza, dal 1995 al 1996 che profezie vuoi fare? Non è così lontano. Già, ma c’è un particolare che forse non si considera. Alcune di quelle canzoni risalivano a molto prima. Per esempio il brano di apertura, “Temptation’s Wings” era già nel demo di 3 tracce del 1991, quando Anselmo viveva caricato a molla, con il taglio da moicano e si pitturava sul petto la mistura power-groove di Cowboys From Hell. Anni spensierati davvero per lui e la band texana, quelli. Comunque, Anselmo al tempo delle registrazioni di Nola era già immerso fino alle ginocchia nelle acque scure di un lago spettrale. Lo stesso buio senza vita che gli aveva ispirato i testi di The Great Southern Trendkill, che forse avrete notato, non erano più le solite menate anaboliche sull’auto-affermazione e il potere interiore dei precedenti lavori con i Pantera. Si parla molto di tossicodipendenze anche lì (“Suicide Note 1 e 2, “Living Through Me (Hell’s Wrath)”) però se vogliamo insistere sulla chiaroveggenza, pure lì era impossibile ascoltare “Flood” e non pensare che Katrina fosse già in viaggio da qualche parte del cranio rasato di Anselmo. Ma ne riparleremo a proposito di Down III.

CAPITOLO 4 – IL CANTICO DEI DROGATI

Non si sa bene a un certo punto, culturalmente, chi abbia deciso di associare i Blach Sabbath alla marijuana. Certo, Ozzy cantava “Sweet Leaf”, ma la droga preferita dalla band, questo si sa da sempre, era la cocaina. Con l’idea stessa del Doom, però ai riff di Iommi, si associò la pratica oppiacea più amata dagli hippie ecologisti. Gruppi come Saint Vitus e Pentagram mescolarono psichedelia e metallone primigenio e i Down si mostrarono pedanti diffusori del medesimo simposio chimico-creativo.
“Alcol ed erba erano sicuramente una parte del tutto!” ammette Pepper Keenan oggi. “Ho fatto più della mia parte di interviste da sotto le lenzuola, dicendo al tizio di sussurrare le domande, perché mi suonava la testa come un gong! Ho dimenticato più di quanto ho vissuto!”

Di sicuro Pepper non si scorda l’uragano che per poco non ammazzò la band durante le registrazioni. “Oh, sì, quello!” dice lui spingendo fuori gli occhi a palla. Niente rispetto a Katrina, ma insomma… fu una tempesta enorme e tutto si allagò. Era come essere in un acquario al contrario, perché l’intero edificio era di vetro, e poi l’acqua iniziò a riversarsi dentro. Voglio dire, si allagò pure l’interno e noi ci sentimmo fottuti!”
Jimmy: “Stavamo facendo Bury Me In Smoke e l’elettricità andò via. Circa trenta minuti dopo eravamo immersi nell’acqua fino alle ginocchia! Rimanemmo bloccati in studio durante la notte e dovettero ricostruire tutto e ripulire le stanze prima che potessimo tornare dentro e finire l’album”. Phil: “Dopo pochi giorni ci dissero che avremmo dovuto ricominciare da capo l’intero figlio di puttana. Ci sono foto, non so chi le abbia (sempre che esistano ancora, dopo che l’uragano Katrina ha derubato tutti dei ricordi) ma c’erano foto di pezzi di batteria e l’intera band con l’acqua fino alla cintola! Cavolo, è stato un fottuto casino! Stavo aspettando a casa perché non c’era niente da fare per me quel giorno fino a tardi, e il mio piano di sotto si stava allagando. Comunque, abbiamo dovuto ricominciare da zero, ed è andata come è andata, e fino a oggi immagino che NOLA sia ancora il disco preferito di tutta la band”.

Già, il successo di Nola. È una di quelle cose inspiegabili per gli addetti al marketing delle grosse etichette discografiche, convinti di sapere sempre come e cosa gestire sul mercato.
“Non era certo un disco accessibile” dice Anselmo, “io personalmente lo trovavo molto crudo. Le parti vocali sono quiete, certo, ma le canzoni, c’era qualcosa in quelle canzoni che non saprei spiegare, qualcosa di inquietante… Insomma, abbiamo fatto il disco, ha venduto quello che ha venduto (cinquecentomila copie) e con solo due settimane di tour”
Pepper: “Tutti sapevano che Down erano solo un progetto parallelo. Voglio dire, per NOLA abbiamo fatto appena una manciata di spettacoli, e i Pantera invece stavano schiacciando il creato. Perché litigare? Il disco dei Down era buono, ma non è mai stato una priorità. Facemmo un giro dell’isolato negli Stati Uniti e tutti tornammo ai rispettivi affari”

Insomma, è vero, i Down fecero tredici date e basta. Fino al 2002 non successe altro. Ma?
“Eh” sospira Pepper, “ma il disco da allora continuò a guadagnare terreno. Aveva una vita propria senza che nessuno facesse nulla. Per molto tempo, non abbiamo nemmeno fatto interviste, e questo ci si è ritorto contro, perché ha reso quella dannata cosa ancora più misteriosa! Senza alcuna stampa, i ragazzi hanno iniziato a volerlo sempre di più. Avresti potuto tagliargli la testa ma non sarebbe morto. Nola ha continuato a nuotare nell’uragano di cui sopra, fottutamente!”

CAPITOLO 5 – DOWN II – A BUSTLE IN YOUR HEDGEROW

Rex: Abbiamo affittato un granaio in mezzo al niente, dipinto le pareti di nero, disegnato pentacoli, riempito il frigobar da scoppiare e abbiamo dato fuoco alle polveri.

Peppe Keenan (detto Steve McQueenan o SGT Pepper), Anselmo “Nodsferatu”, Kirk “Toots Sweet” Windstein,
Jimmy “Flash” Bower e Rex “Crown Brown” lavorarono sodo dentro al granaio di Phil al successore di Nola. Probabilmente fino a una settimana prima di rifugiarsi nel granaio, tutti loro sarebbero stati gli ultimi a credere possibile una cosa del genere, che ci sarebbe stato qualcosa come un altro disco ufficiale dei Down dopo l’esordio del 1995, ma ormai la cosa stava accadendo e non ci si poteva fermare a pensarlo.
Come andò?
Beh, se domandate in giro quale sia il migliore album dei Down vi diranno quasi tutti ancora Nola. Io preferisco il II. E pensare che qualcuno lo stroncò pure, dicendo che non aveva la freschezza e la lucidità (!) stilistica dell’esordio. Per me è superiore sia a livello produttivo che sul piano delle composizioni. Non c’era “Stone The Crow” e niente che si avvicinasse a quella cosa (ok, forse un po “Stained Glass Cross”) ma la band riuscì proprio nel II a decodificare lo scorcio esistenziale dietro la fumeca depressiva di Nola. In “Bustle” la nebbia si diradava e vedevamo finalmente uno sfondo ideale al dramma. Le città in cui andare a morire sono sempre due per quel che mi riguarda: Venezia (scontato, lo so) e New Orleans. Ed è buffo perché proprio quando la band aggiunse il texano Rex al basso, rompendo la solfa del “siamo tutti di Nola e cagavamo nello stesso pitale alle elementari” i Down realizzarono il definitivo monumento a quella cazzo di città. Sì, c’erano ancora i tributi alla potta (“The Seed”) e la sganasciata vita da tossico irrancidito di Phil (“Tired Dog” e “Learn From My Mistake”) ma qui eravamo oltre il nero, intravedevamo un po’ di luce della consapevolezza:

Believe Me, All My Friends, In The Ending Of The Story
There’s
No Junkie Out There With A Happy Ending
It
Consumes You, And Haunts You Like The Devil
It’s
The Art Of The Process That Kills Off All The Rebels

Traduzione: Credetemi, amici miei, alla fine della storia Non c’è nessun drogato là fuori con un lieto fine da raccontare. Quella merda ti consuma e ti perseguita come il diavolo. È l’arte del processo che uccide tutti i ribelli.

CAPITOLO 6 – SUPERGRUPPO

Nel 2001, l’anno dopo di cui, in cielo un aereo non sarebbe più stato un aereo, i Pantera andavano ancora alla grandissima, anche se gli Slipknot erano la nuova bandiera estrema per il giovinastro ormonale un po’ poser.
Crowbar ed EyeHateGod erano sempre più culi pesi nell’underground, mentre i Corrosion Of Conformity avevano avuto una specie di recessione dalle tavolate del mainstream metal ai banchetti nella cucina del southern rock più peso”.
I Down erano di nuovo in giro, quindi.
Ormai la gente li considerava IL supergruppo. Nessuno si aspetta che durasse (come tutti i supergruppi) ma c’era qualcosa che poteva sorprendere sul serio tutti quanti prima dell’implosione egoica consueta. C’era una luce negli occhi “piallati” di quei ragazzi che diceva al mondo quanto fossero a proprio agio sotto l’insegna dei Down.
“Non siamo un supergruppo” disse Anselmo nel 2002. “O almeno non ci riteniamo tali. La verità è che siamo una band che sarà sempre quella che è stata… Certo, suoniamo in altri gruppi, quelli sì che sono supergruppi, ma non riflettono l’arte che con i Down stiamo creando. Io non canto così nei Pantera e negli altri gruppi in cui sono coinvolto. In questa band io ho un preciso stile vocale, è diverso. I Down sono il risultati di tredici anni passati ad ascoltare in continuazione i Sabs”.

Down II – A Bustle In Your Hedgerow, strofa presa dagli Zep (di non ricordo quale brano, mi pare Starway To Heaven) ha tre grandi picchi. Se non conoscete questi pezzi vi invito ad andarli a sentire subito.

NEW ORLEANS IS A DYING WHORE

In fondo musicalmente è un’altra “Bury Me In Smoke” con un riffone in Mi che avanza minaccioso da subito, però il verso del ritornello è una delle cose più evocative cantate da un gruppo metal nel nuovo millennio e Anselmo imbrocca il ritornello adatto a dargli la stura. I Down sono figli di quella puttana morente e dentro il suo ventre incancrenito sparano la loro serenata alla decadenza materna.
“New Orleans è una città ricchissima di musica”, dice Anselmo, “comunque non penso che quello che facciamo noi sia un riflesso della musica che vi circola. La città è metal, certo, ma soprattutto jazz. Forse noi abbiamo carpito ed espresso quel senso di vuoto che si avverte, al buio nella mente di molta gente, soprattutto da fuori, quella che non ha mai vissuto a New Orleans… E questo buio può fare molto effetto, noi ormai ci viviamo da così tanto tempo che ce l’abbiamo dentro, è talmente una parte di noi che spesso non la notiamo neanche, non ci influenza. Ma senza questo senso di oscurità e di vuoto, i Down sarebbero comunque i Down. Quel brano è una dedica a questa città, e prende il titolo da un articolo pubblicato negli anni 70, dove il giornalista diceva che New Orleans era come una prostituta in fin di vita ma che lui amava ancora… New Orleans è veramente un posto di merda, economicamente parlando, c’è corruzione ovunque, anche la polizia viene comprata. È una città così piccola che tutti sanno i cazzi di tutti, c’è una gran memoria qui. È una città che viene usata in ogni modo possibile. Questo si intende con prostituta morente. Tipo quando c’è una ricorrenza, o presunta tale, da festeggiare, perché ogni occasione è buona per sfasciarsi con l’alcol. Se alle tre di pomeriggio incontri una vecchia signora in strada, una che ha certamente visto giorni migliori, e le domandi il suo nome, ti risponderà New Orleans.

GHOST ALONG THE MISSISSIPPI

Qui siamo tra le rovine meravigliose di un posto davvero morente. Case coloniche bramate dai rampicanti, salici barbuti che fanno pensare a giganti capelloni con i capelli davanti alla faccia, pronti a emergere dalla terra e fare un gran casino. Ci sono fantasmi incastrati negli specchi, altri impigliati sui balconi sfondati e poi c’è un esercito di anime puzzolenti che fluttuano sull’acqua gorgeggiante del fiume Mississippi. Al di là delle mie facezie poetastre che scrivo io, c’è un libro che dovreste quantomeno sfogliare, non serve neanche leggerlo. Si intitola come la canzone, “Ghost Along The Mississippi”. Quando ho sentito citarlo da Anselmo, mi sono subito sbrigato a cercarne una copia su ebay. Ne ho una in condizioni buone (tranne per la puzza di muffa che sale dalle pagine) recapitatami dall’Inghilterra.
Vi dico che potreste non leggerlo e che vi basterebbe sfogliarlo perché è un libro fotografico. Sono rappresentate le antiche case coloniche in rovina lungo gli argini del fiume Mississippi. L’autore si chiama Clarence John Laughlin. Lui ha scritto anche dei testi evocativi in abbinamento alle foto, ma non c’è traduzione in italiano, quindi se non capite l’Inglese potete lasciar perdere e concentrarvi sulle foto. In quell’abbandono, nell’ineluttabile morsa del tempo, c’è tutta la bieca fierezza degli spettri sudisti, vissuti al tempo della grande guerra con il Nord. Il libro è stato pubblicato nel 1948, ma le abitazioni risalgono al 1750 e a tutto il 1800. Attraverso una serie di tecniche di sovrimpressione, Laughlin ottiene certi effetti magici, con ombre e figure sfocate che si aggirano tra queste dimore decrepite, dove antichi sfarzi e imponenti architetture sembrano ormai più dei volti seccati dalla morte in un eterno, sciocco sorriso di soddisfazione.
Vi parlo di questo libro perché è utile per capire cosa significhi vivere dalle parti dove sono cresciuti i Down, tra le paludi, i cajun, il fiume carontesco pieno di coccodrilli e i vicoli famelici di strani spiriti ostili.
“Ghost Along The Mississippi”, dice Phil sulla canzone, “è più che altro un’auto-analisi, su quello che non vuoi essere e su quello che sai di dover fare, se non vuoi che ti considerino soltanto un fantasma che vaga per il Mississipi. È un modo di dire delle nostre parti, con il quale si intende una persona che non ha più nulla da dare, che cammina a stretto contatto con il pericolo, che si sta auto-distruggendo con le droghe pesanti. E quanti ti fai di quella roba pesante non distingui più la realtà dalla fantasia, molte volte la realtà ti sembra ancora più oscura e peggiore di quel che in effetti è, questo perché la vedi così quando sei ridotto di merda. La cosa più spiacevole e più brutta in assoluto, è come stai diventando, è quello che sta accadendo a te e non te ne rendi conto. Diciamo che questa canzone è come fosse quasi un monito, parla di disperazione e vuole esortare a sconfiggere e a superare certe drammatiche situazioni. Non è una predica la mia, faccio solo mente locale su un dato di fatto”.

LANDING ON THE MOUNTAIN OF MEGIDDO

Megiddo è dove avviene, secondo il libro delle Rivelazioni, la battaglia tra bene e male. Bravi, da questa parola viene Armageddon. È il brano più fico del secondo disco, secondo me: progressivo nella migliore accezione ovvero che cammina senza sapere dove sta andando, è minaccioso come un’apocalisse, ma nonostante questo, non smette di parlare di New Orleans. Megiddo è sempre New Orleans. Io ce la vedo come città dove bene e male si faranno il culo a vicenda un giorno fatale. Solo che £Landing On The Mountain Of Megiddo”, tira dentro tutto il casino con l’Afghanistan, i discorsi deliranti da predicatore di Bush alle TV unificate, quelli sanguinari e altrettanto mitomani dei terroristi nelle grotte di Hollywood. Anselmo ci sussurra, esatto, lo canta piano ma è potentissimo, di come ogni culto debba essere professato liberamente, senza conflitti.

CAPITOLO 7 – DOWN III – FROM THE UNDER

A quattro anni dal secondo disco, i Down riemergono dalle acque del disastro Katrina. C’è stata la morte di Dimebag Darrell e il fiele infuocato piovigginato sul “crapo lungapelluto” di Phil. Sono finiti una volta per tutte i Pantera, nonostante le voci su una fanta-reunion con Zakk Wylde alla chitarra. Pepper Keenan è fuori dai Corrosion Of Conformity. Jimmy Bower è ancora negli EyeHateGod (al centro dell’attenzione dopo l’arresto per droga del frontman Mike IX Williams). I Crowbar sono in sella come sempre, ma ormai è tutta roba privata di Kirk Windestain, nulla di male, in questo, però sono un progetto da chiudere e tirar fuori dal cassetto quando fa comodo a lui. Anselmo si è dato una ripulita e si è operato alla schiena.
“Siamo tornati tutti a casa circa tre mesi dopo” dice, “e io avevo una prenotazione per un intervento chirurgico. Katrina ha colpito, quindi è stato come, oh, mio Dio, l’ospedale è ancora lì? Sono tornato a casa e almeno quella era in piedi. Ho fatto la telefonata e di sicuro è stato fantastico sentire che, sì, potevo ancora operarmi come previsto. Il fine settimana del Ringraziamento quindi io ho avuto un intervento di tripla fusione alla schiena. E all’epoca ero una persona su 10 nell’intero pianeta a subire questo tipo di intervento chirurgico, che si chiama chirurgia non invasiva alla schiena. Quindi, invece di spaccarmi completamente la spina dorsale, il tipo mi ha fatto cinque piccole incisioni e ha persino risparmiato il mio tatuaggio dei Venom!”

La schiena malconcia di Phil non è uno scherzo, sapete? Se conoscete la storia dei Pantera sapete quanto abbia pesato su tutto quanto il suo mal di schiena.
“Prima non ne avrei mai parlato di queste cose, perché volevo sempre mantenere quell’aria da “New Level Of Confidence And Power “. Quando avevo circa vent’anni, potevo camminare attraverso i muri. Non c’era un uomo abbastanza grande da prendermi a calci nelle palle. Avrei fatto a botte con chiunque, e non ricordo di aver perso una battaglia. Poi venne questo dolore alla schiena durante il tour di Far Beyond Driven. Domandai al mio medico: ‘Cosa posso fare al riguardo?’ E lui mi ha detto: “Beh, dovrai indossare un tutore per la schiena”. Ok, che tu ci creda o no, è quello che faccio da 10 anni ormai. Si tratta di un grosso rinforzo per la schiena. Non lo sapeva nessuno. Chiunque abbia mai pensato che avessi una pancia da birra o che fossi grasso, sbagliava. Il tutore mi teneva le ossa insieme. Poi, dopo altri due, tre tour, altra risonanza magnetica e altro disco danneggiato, e nessuna cartilagine tra quello inferiore e quello successivo, il che significa raschiamento osso su osso e danni ai nervi, quindi gli antidolorifici che dovevo prendere erano diventati più forti, più forti, più forti solo per salire su quel dannato palco e fare quello che facevo sempre, amico. Voglio dire, sono nato per fare questo e lo so da quando avevo 6 anni. Negli anni Novanta, sono andato da così tanti dannati chirurghi, e tutti volevano tagliarmi la pancia, togliere pezzi del mio osso iliaco, togliere tutte le mie budella, adagiarli su un tavolo e poi fondere i dischi dalla parte anteriore, usando pezzi della mia anca per riempire gli spazi vuoti nell’osso e nella cartilagine, poi rimettere dentro tutte le mie budella, ricucirmi e via. Ho chiesto al dottore: “Bene, ma qual è il tempo di recupero per una cosa del genere?” E lui: “Oh, da 10 mesi a un anno, forse un anno e mezzo”. E io: “Assolutamente no. Devo lavorare, fratello. Stiamo andando in Europa. Stiamo facendo l’Ozzfest. Non posso prendermi un anno di pausa”. E poi, come se non bastasse, i medici mi hanno chiesto se me la sentivo di finire su una sedia a rotelle. Ecco quanto è stato brutto. E non l’ho mai raccontato a nessuno tutto questo. Ho detto: “Una sedia a rotelle?! Salto ancora dal dannato riser della batteria, amico”. “E loro: “Se lo farai ancora sarà un gran casino”.

E così alla fine mi hanno dato l’antidolorifico più pesante che l’umanità conosca: si chiama metadone. La maggior parte delle persone mette in relazione il metadone con l’eroina, ma ho conservato ogni bottiglia, ogni documento: posso provare che era tutto per la mia schiena. E sai, mi faceva ancora male essere lassù sul palco, e quando mi svegliavo la mattina, mi sembrava che un rompighiaccio mi fosse stato infilato nella parte bassa della schiena, e più faceva freddo, peggio diventava. E quando vai in Europa in pieno inverno, non puoi farlo senza medicine”.
“Quindi penso che le persone, in particolare i giornalisti, abbiano lavorato parecchio di fantasia, ma non posso davvero biasimarli, perché non ho mai raccontato come stessero le cose e loro si sono limitati a interpretare quello che vedevano. Ero lì che biascicavo le parole, con lo sguardo spento. Cosa potevo sembrare, se non un tossico?
Ma non era l’eroina. Sì, l’ho provata, perché dentro di me al tempo del Power and Confidence Style credevo che non c’era modo che nessuna droga potesse conquistarmi. Non c’è modo, mi dicevo. Ma la seconda volta che mi feci una pera in tutta la mia vita, quasi mi uccise”.
Mi ripresi subito da quello che per me fu solo un incidente di percorso, l’overdose, suonai uno spettacolo la sera successiva, sapevo che non c’era più modo di scherzare con quella spazzatura. Ma restava il problema della schiena, qualcosa non andava. Dolore, forte dolore. Essere sul palco da quando avevo 14 anni, saltando giù dal palco, dalla batteria di Vinnie, impazzendo il più possibile, tutto questo ha richiesto un prezzo alto, amico”.

Nel 2006 i Down ci sono ancora, sorpresi per l’interesse e il fervore della gente intorno a loro. “Al Download, in Inghilterra”, dice Pepper, “eravamo addirittura il cosiddetto “surprise act”. Vale a dire la band misteriosa. Eppure la gente ci aspettava con ansia e c’erano decine e decine di ragazzi con la nostra maglietta. La Roadrunner si è accorta che le cose stavano andando benissimo per noi, e così ci ha fatto un’offerta”.
Prima della Roadrunner, la band era stata sotto contratto con la Elektra per tre dischi, ma dopo l’uscita del secondo, Phil si era fatto rodere molto il culo per la scarsa pubblicità che l’etichetta aveva dedicato a II, quindi c’era stata la rescissione.
In ogni caso, nel 2007, ecco “Down III – From The Under”. Il disco era prodotto, così come il secondo, da Warren Riker (mentre il primo lo aveva fatto Matt Thomas dei Crowbar). Perché vi scasso le pile con questi dati? Boh, per spiegare come mai il terzo disco sia quello più a fuoco, con i suoni e le rifiniture. È il “più disco” di tutti, anche se forse in questa levigatezza generale, qualcosa iniziò a sembrarmi troppo “normale” e inquadrata per un gruppo come i Down, sempre filosoficamente per i cazzi propri.
Tra i primi due lavori della band c’era un abisso. Entrambi erano giustamente le fotografie fedeli a momenti molto diversi della loro storia. Così anche III, che forse è il miglior disco di Anselmo come cantante in assoluto, e sta un po’ per conto proprio rispetto ai predecessori, ma si abbina tranquillamente con la solfa generale degli album metal nel 2007. Non sa più di evento a parte, ecco.
Anselmo in From The Under ci stava alla grande. Forse non era così fico dal 1992. La sua voce è pulita ma grattata a puntino, calda, morbidosa. In III la voce di Phil “veste” tutto quanto il disco e la band in modo coerente e maturo. Diciamo che è la versione definitiva dell’Anselmo “crooning Doom”.
“Già nel lontano 1988” dice lui, “quando registrai Power Metal con i Pantera, bevevo almeno una birra, se non bicchierini di whisky, prima di suonare. Onestamente, mi piace ancora un po’ di… influenza a base di erbe. Non vedo alcun problema in questo, quindi “Hail the Leaf”, se vuoi. Ma il punto è che questo è il primo disco che ho fatto totalmente sobrio… in assoluto. E la cosa ha influito sul processo di scrittura. Mi alzavo nel cuore della notte per andare a pisciare, e scrivevo nel sonno. Voglio dire che questo disco ci ha consumato, abbiamo passato più di un anno a lavorarci. E tutti noi eravamo estremamente duri con noi stessi, figuriamoci gli uni con gli altri”.
Ma riandando indietro al 2007, i Down sembravano uno squadrone indistruttibile, uno dei nomi davvero grossi in giro, punto e basta. E quello è il loro terzo lavoro. In bianco e nero, leggermente ingiallito. Quando lo ascolto io vedo questi colori per tutto il tempo, sulla faccia di Anselmo, sulle chitarre, le orbite lunari di Pepper e via così.
Anselmo ha sempre fatto ‘sto lavoro. Ha riversato una delle sue numerose personalità in una precisa band. Lì dentro ha dato sfogo al riottoso, al depresso, al nichilista, al vecchio ragazzo del sud e così via. I Down forse sono stati da subito il luogo dove tutte queste entità potevano esprimersi insieme (quasi tutte…) Down III non sembrava una ricreazione per dei veterani schiavizzati dal music business. Aveva una marcia a parte. Era un lavoro energico, buono, pieno di riff, armonie molto più ricercate e sfiziose. Mi sembra ancora oggi un disco più meditato, cesellato e controllato. Il che non è proprio il massimo per i Down, i quali hanno lasciato la briglia scioltissima a tutto, nei primi due lavori. E rispetto a quelli non ho individuato dei gran momenti. La media è alta ma senza episodi clou. Mi torna in testa “On March The Saints”, con quel rimbalzo di chitarre, un brano che (non so dirvi meglio) respira dentro. È espanso, gonfio, pieno di cunicoli d’aria gelida che gli girano tra le viscere, come bave spettrali, cazzo. Però è forse il momento più vicino a “Virgin Radio” mai toccato dalla band. Qui c’è posto per tutti, anche chi sbadiglia tutto il resto dell’album e non sa nulla di Nola. È una gran canzone, sia chiaro ma il pezzo accessibile e che traduce in soldoni cosa sono i Down per chi non volesse approfondire ma tenersi la superficie.
Per quanto riguarda i testi, Anselmo non tira più molto in ballo gli spettri tossici dei natali futuri (Nola) e nemmeno la città cimiteriale piena di zombi di New Orleans (Down II). Sì, c’è N.O.D. C’è l’uragano Katrina, stavolta.

Per esempio quando canta su “March” e come ci si sentiva subito dopo la tempesta/Non c’era una voce sicura che dicesse che New Orleans sarebbe tornata/Ci chiedevamo tutti se la nostra casa sarebbe stata solo un ricordo.

On March The Saints e quasi tutto III parla tra i denti di Katrina, ma soprattutto di chi era rimasto e di chi era tornato nella città che sembrava andata e di cosa significasse convivere con gli spettri coloniali senza più un confine giuridico-dimensionale con essi, trascinarsi in case mezzo sprofondate in una mota voodoo e sperare di non svanire da un momento all’altro nella pancia del bayou
On March The Saints, non è dedicata ai Saints, la squadra di football di New Orleans. Va beh, se la gente ha voluto associarla a loro, non è che i Down si siano offesi a riguardo, ci poteva stare, ma quel pezzo è una cosa molto più seria di un inno sportivo. Il rimando ai santi del celebre spiritual che ispirò anche The Number Of The Beast (When The Saints Go Marching In) non è un’innocua tarantella negra sugli angeli del cielo e cose del genere. Per cominciare il legame tra religione cristiana e gli dei del voodoo è moooolto pesante e tira giù l’ascoltatore in certe profondità. I santi dei neri di New Orleans sono qualcosa di più magico e truculento dei nostri San Francesco e San Gennaro. Dietro ogni santo cristiano si nasconde un dio della religione afro-haitiana. Inoltre, se guardate al testo mica è una roba tanto leggera. When The Saints Go Marching In, nonostante la voce cioccolatosa di Louis Armstrong, parla dell’Apocalisse. Le parole dicono che il giorno in cui viene la fine del mondo, chi canta preferisce stare insieme ai santi. Ma c’è la fine del mondo, cazzo. Quindi per Phil associare la città di New Orleans, l’uragano Katrina, i morti e i santi e l’Apocalisse, è una cosa abbastanza scontata forse, ma per me resta una grandissima ficata.
Anselmo qui è stato davvero grande. Punto. Katrina è l’apocalisse in una bagnarola, l’apocalisse privata di New Orleans, la cosa più vicina a un’apocalisse che abbiano mai vissuto dei sopravvissuti. E chiaramente, Phil e tutti gli altri, mentre l’uragano spazza via il quartiere francese come un ubriaco farebbe con una tavola imbandita, i moscerini attorno alle pozze di vino vorrebbero stare con i santi. E i santi eccoli che marciano, sulla terra che marcisce.
Ma non c’è solo quel pezzo da ricordare su III. “Beneath The Ties” per dire, con l’andazzo tra psichedelia e grunge rarefatto da Cobain all’ultimo stadio, mette davvero i brividi. Non commuove capite? Spaventa, cazzo. New Orleans è soggetta a disastri come Katrina. Stare lì vuol dire convivere con un grande senso di incertezza e di pericolo. Ed è questo sentimento precario e di perenne minaccia ogni volta che il cielo si oscura e borbotta, che viene espresso in “Beneath”
Pepper: Dopo Katrina la notte era diventata una fottuta partita completamente diversa. Girare per la città su una fottuta bicicletta con un fottuto fucile a canne mozze sulla tua fottuta schiena era un fottuto viaggio avventuroso, amico. Non riesco a spiegarlo”.
Bower: “Beh, se vivi a New Orleans, sei abituato a essere in allerta, quindi per molti l’arrivo di Katrina non fece scattare nessun campanello”.
Pepper: “No, secondo me, chiunque si aspettasse la solita tempesta o magari un intervento repentino del governo è stato solo uno sciocco. Io lo so benissimo dato che vivo qui finché ho memoria. Solo crescendo a New Orleans, quando vedi una tempesta di quel calibro, con quel tipo di pressione barometrica, anche se sei un fottuto idiota, sai come andartene, cazzo. Chiunque sia rimasto non se l’è cavata e mi dispiace per tutti loro, ma le persone avevano opzioni, amico, molte opzioni per uscire di lì. Un biglietto dell’autobus per Baton Rouge costa 10 dollari, cazzo. Ho tirato fuori tutti quelli che conoscevo dalla città. Ho fatto uscire mio nonno disabile, mio zio veterinario del Vietnam che era sotto-shock, ho tirato fuori tutti. Ma li ho lasciati nella hall di un hotel a Baton Rouge e io sono tornato a prenderne altri”
Io sono fuggito a Huston prima che Katrina toccasse terra a New Orleans” dice Anselmo. “Sono stato bloccato in una stanza d’albergo per due settimane e mezzo, in Texas, con il mio Rottweiler, l’altro mio cane e questo gatto che ho avuto dal 1992 o qualcosa del genere. Il gatto non ero nemmeno sicuro che ce l’avrebbe fatta a causa del trauma di spostarlo così di colpo, ma è un bastardo cazzuto. Ero circondato da altra gente fuggita da New Orleans, tipi della classe operaia che guadagnavano stipendi settimanali solo per comprare generi alimentari e pagare l’affitto, e tutto ciò per loro era ormai sparito. Ma pensiamo alla città, la sua cultura, i suoi personaggi, le band che sono uscite da qui negli ultimi 20 anni, disperse e letteralmente spazzate via.”
Pepper: Purtroppo non sarà mai più come prima. Quella New Orleans come la conosci non c’è più. Non c’è praticamente più nessuno lì. È bizzarro. può guidare per le strade vuote e vedere il vuoto lasciato dove c’erano le case. Solo rovine, solo polvere. È un viaggio desolante che attraversa quartieri, miglia e miglia. Sembra che siano esplose 50 bombe atomiche. Letteralmente”.
Queste dichiarazioni le riporto giusto per farvi un’idea di come potete approcciarvi non tanto ai momenti più duri ed esasperati di Down III, che parlano delle solite droghe e crisi esistenziali, ma le parti più trattenute, che vagano su un lurido tappeto di detriti: “Nothing In Return”, quasi nove minuti a galleggio tra Doors e Sabbath, con quel testo molto vago, ripetitivo, che per alcuni è dedicato a Vinnie Paul.
“Amico, le canzoni dedicate a Dimebag, sono tre e nessuna di quelle tre è Nothing In Return. I Scream è una di esse. Prima c’è il pezzo d’apertura dell’album “Three Suns and One Star”, assolutamente, positivamente ispirato alla memoria di Darrell. I Scream poi parla della divisione tra me e tutte le persone che mi mancano in Texas. Onestamente, si tratta della divisione tra Vinnie Paul e tutti noi, me in particolare. Non capisco da dove venga l’odio. Non quel tipo di odio. Provo pietà per lui e provo compassione, ma deve capire che Dimebag era sia mio fratello che il fratello di Rex, oltre che il suo. Abbiamo sudato anche noi in quelle maledette sale prove, furgoni, piccoli club, amico… ecco di cosa parla quella canzone. “I Scream” parla della divisione. E infine c’è “Mourn”
“Mourn”, (Piagnucolare) non è una melensa raccomandata d’addio a Darrell. Nel brano c’è tutto, dal viaggio di Anselmo a Dallas per il funerale, dove gli è stato detto che non era il benvenuto, alle ore seduto in una stanza d’albergo in attesa disperata di una chiamata che non è mai arrivata.

Confusione dolorante da cuore spezzato
Lenzuola e cuscini inzuppati di lacrime
(Il mio) telefono sembra rotto
Mi sento crocifisso
Senza risposta, nella lista nera…

“Questa è una canzone molto dura per me, davvero… onestamente parla da sola. Riguarda il sentirmi isolato dalla mia famiglia in Texas. Sai, sono stato molto silenzioso dall’incidente, ma va tutto bene. Tutti hanno glissato su tutto ciò che i Pantera hanno fatto al e per il metal, e non una volta… ma i media hanno raccontato che l’assassino di Darrell, Nathan Gale, era “scontento perché la band si era sciolta”. Ma non una volta i media sono entrati nella psicologia dell’omicida, e come è stato congedato con disonore dai Marines, che sua madre gli ha comprato la pistola per Natale perché era depresso! Come era stato cacciato dallo stesso club un fine settimana prima per essersi comportato in modo strano. Stava per sparare a chiunque, e ha colpito uno dei miei migliori amici, uno dei miei fratelli e una delle persone più belle che abbia mai conosciuto…”

CAPITOLO 8 – DOWN IV E V – PAGHI DUE PRENDI QUATTRO, ANZI NO.

Dopo un disco, più o meno normale, come Down III nel 2007, la band produce due EP in 14 anni. A vederla così, dall’alto del 2022, non è una gran media creativa. Ma come mai? Cosa è capitato da “Over The Under”, un lavoro che fotografa un gruppo in grande salute, con Anselmo e Rex ripuliti e pienamente in forma, grandi progetti, la fan base in crescita, la Roadrunner a cosce aperte, a questo frammentarsi in tante piccole uscite dopo una lunga serie di annunci controversi e autentiche sparate sceme degne degli Spinal Tap?
Allora, intanto devo avvertirvi, da qui in poi lo speciale prende una piega un po’ più cronachistica e meno incentrata sui contenuti discografici, perché prima cosa, non li reputo così interessanti rispetto alle prime tre uscite dei Down e secondo, è molto più filosoficamente appassionante la china che il gruppo ha imboccato e che a me piace definire “Slayeresca”.

Perché Slayeresca?

Perché gli Slayer sono famosi per farsi mangiare il cazzo dalle mosche anni e anni prima di pubblicare un disco. Tenetevi, c’è da raccontare un sacco di cose, qui.
Nel 2008, visto che le sessioni di “Over The Under” sono state così ricche e generose, il gruppo ha subito pensato di riutilizzare i brani rimasti per un EP cotto e mangiato. È un buon affare. Si fa subito e poi tutti di nuovo in tour a vendere magliette e schioppare miccette.
Per un anno non se ne sa più nulla. Nel 2010 rispunta Pepper, che ammette di non essere più tanto sicuro se quell’EP sarebbe uscito o meno.
Va bene, tanto erano rimasugli, no?
Intanto Rex è fuori dalla band. Ufficialmente deve operarsi per una pancreatite. Un anno dopo, invece dell’EP arriva un DVD live, “Diary Of A Mad Band”, tratto dal tour di “Over The Under”, ma in più di un’intervista, sia Bower che Anselmo promettono un disco nuovo entro il 2011.
Nel 2011 succedono diverse cose ma non esce nessun disco: Pepper ferisce accidentalmente alla testa Anselmo durante un concerto e la band rifila un ultimatum a Rex, che è tornato nel gruppo dopo l’intervento ma, a dispetto del cleaning up del 2006, sembra ripiombato nei soliti casini alcolici. “Purtroppo i vecchi tempi sono finiti e Rex deve capirlo dice Keenan con un sorriso senza gioa.
Kirk intanto fa sapere che il gruppo non pubblicherà più quell’EP di brani avanzati ma ha intenzione di far uscire ben quattro EP di pezzi nuovissimi, tra cui almeno uno di questi EP interamente acustico.
I giornalisti gli domandano come mai la decisione di fare quattro EP invece di un album doppio?
Windstein risponde: “Perché l’industria musicale è diventata una merda e nessuno compra più dischi. Abbiamo pensato di fare qualcosa di più economico da acquistare. La gente vuole tutto gratis, noi gli offriremo sei canzoni a un prezzo onesto“.
Sono lontani i tempi in cui i Down facevano demo da spargere nel mondo senza pensarci su, del resto l’età avanza e bisogna pensare al futuro.
“Down IV”, il primo dei quattro EP, esce finalmente nel 2012. Il titolo completo è “The Purple EP”. La novità è che non c’è Rex. Evidentemente l’ultimatum non ha funzionato. A sostituirlo troviamo Patrick Bruders (Crowbar, Goatwhore), sempre un amicone del giro metal di New Orleans. Curioso che i giornalisti al tempo non sottolineino come i Down siano con Bruders tornati al completo un gruppo della città di New Orleans. Evidentemente di quella solfa campanilista non è mai fregato davvero un cazzo a nessuno.
L’EP non è sembrato così esaltante. Non parlo per me, è stato accolto un po’ ovunque in modo abbastanza tiepido. Io non riesco a ricordarmi nulla, nemmeno un giro, un riff. Ogni volta che lo ascolto, al di là del domandarmi perché insista a farlo, penso che sì, i pezzi sembrano sempre discreti, non male, li risento e dico “uhm, però…” poi stacco le orecchie, faccio passare qualche minuto, e se mi rimetto lì con la testa e ci ripenso, mi resta davvero poco nel cranio da rivangare a proposito di Down IV, The Purple EP.
Phil Anselmo spiega che non capisco un cazzo. “L’EP è grandioso, così come il progetto di tutti e quattro gli EP. Ora ti spiego. Secondo il progetto della band, i quattro EP mostreranno ciascuno una faccia del gruppo. Il primo è ispirato alla scena Doom americana anni 80 e per questo ti appare classico e un po’ scontato. Gli altri invece potrebbero stupirti di brutto!”.
“Quanto dovremo aspettare per il secondo EP?”
“Pochissimo, è praticamente già scritto”
Intanto il 2013 comincia con Kirk Windestain che saluta pure lui i Down ma “Down IV part Two”, come promesso da Phil, esce sul serio e stavolta è recensito favorevolmente da tutti quanti. A sostituire Kirk, andatosene in via amichevole e per dedicarsi solo ai Crowbar e come dice Jimmy Bower “condurli a un livello superiore”, ecco che arriva nientepopodimeno che Bobby Landgraf?
Come chi è, Bobby Landgraf?
Ma chi lo conosce? Pensavo lo sapeste almeno voi.
Jimmy lo presenta al pubblico dicendo che è un bravo ragazzo di Nola e che ha uno stile alla Steve Ray Vaughan e che ha trasmesso un nuovo entusiasmo alla band. Le solite carinerie sull’ultimo arrivato. Immaginate se avesse detto: “ci ha contagiati con il suo pessimismo e il suo pesaculismo” Ma no, figurarsi, “è arrivato lui e ora siamo tutti più energizzati e ispirati”. Di solito è davvero così, mica voglio sminuire Landgraf, però suona sempre un po’ scontato e di circostanza dire cose del genere.
Insomma, “Down IV Part 2” è il secondo dei quattro EP, e personalmente presenta per me gli stessi problemi mnemonici del primo, però io non faccio testo, magari sono solo rincoglionito. Riguardo gli altri EP, ehm…
Jimmy Bower puntualizza: “Allora, lo so, ci è venuta l’idea di pubblicare quattro EP diversi l’uno dall’altro perché i Down sono una band con un sacco di influenze. Il nostro sound racchiude stili diversi che si incastrano perfettamente insieme. L’idea di pubblicare singoli EP, ognuno dei quali con un proprio sound e un proprio stile, ci è parsa geniale. All’inizio. Ma se ti dovessi dire quale facciata del gruppo rappresenti questa parte 2, non saprei. Forse la stoner. Oppure no. Il fatto è che non ci siamo messi lì e abbiamo inciso questi nuovi pezzi dicendoci, adesso tiriamo fuori lo stoner che c’è in noi. Abbiamo attaccato il jack dandoci dentro, come sempre, finché non sono usciti questi pezzi del secondo EP. Il primo EP era composto dai brani avanzati nelle sessioni di Over The Under. So che vi avevamo detto che forse non li avremmo più usati, ma avevamo detto forse. In verità alla fine li abbiamo usati. E quando Phil vi ha spiegato che erano programmaticamente ispirati alla scena Doom americana anni 80 vi ha detto solo una cazzata, temo. Questi pezzi del secondo EP sono stati composti di fresco, ecco perché suonano meglio, probabilmente. E dopo averli incisi e pubblicati, non c’è rimasta fuori una sola nota da usare in un terzo EP. Il prossimo disco potrebbe non essere un EP. O forse sì. Sarà sicuramente molto cazzuto e pesante e tutto il resto, ma in modo diverso dai precedenti, anche se ancora non sappiamo come sarà. Dobbiamo scriverlo di sana pianta. Anche io come Phil sostengo la nostra scelta degli EP ma non posso assicurarti cosa faremo in futuro, va bene?”.
Va bene, e tempo un annetto, Pepper stesso lascia intendere che la questione dei quattro EP è ancora decisamente in piedi e che, anzi, il gruppo è quasi in procinto di mettersi a scrivere il terzo o qualcosa del genere, ma poi succede il casino dei casini. Non è un altro Katrina (per il suo degno successore, Irma, si dovrà aspettare il 2021) ma per i Down succede metaforicamente un cataclisma che quasi spazza via la band, partendo da un momento di leggerezza, un gesto fatto senza pensar su molto alle conseguenze.
Non puoi credere che se oggi sei in una stanza con venti persone (o anche duecento) e fai un gesto scemo pensando che resti tutto lì. Non vivi nel nuovo millennio perché di fatto ci saranno molte probabilità che invece quel gesto qualcuno lo fotograferà o filmerà col fottuto telefonino e così lo vedranno milioni di persone e ti giudicheranno a sangue da Dallas a Vetrallas. Secondo, c’è un sempre più pressante “resettaggio culturale correttivo” nell’aria. Se al tempo dei Sex Pistols potevi sfoggiare vestiti o posture nazi e diventare celebre, oggi il nazismo è passato dall’altra parte della barricata, si fa chiamare politically correct o Metoo# e rischi di finire in un definitivo fuori campo antisociale. Basta chiedere a Michael Richards (il Cosmo Kramer della serie Seinfield).


Insomma: Phil Anselmo ha fatto il saluto romano con l’aggravante che è stato durante il Dimebash.
Cos’è il Dimebash?
Allora, il Dimebash è un concerto commemorativo dedicato a Dimebag Darrell. Ora, tu hai pianto lacrime di sangue per la tragedia che ha portato via il tuo amico da questo mondo. I fan dei Pantera hanno dato a te la colpa, versando merda liquida a litri sul tuo viso, per anni. Vinnie Paul non ti vuole vedere nemmeno per iscritto. In Texas hai chiuso. Tu vieni invitato a un evento che è dedicato al tuo amico Dime. Canti col cuore in mano, abbracci un po’ di gente, piangi un po’ prima e dopo, fai un applauso verso il cielo e te ne vai.
Purtroppo dal 2006, quando i tipi di Revolver scrivevano “oh ma che braccia muscolose ha Phil, che forma fisica, si è proprio ripulito, il mondo deve aver pensato, “ora sarà una brava persona, più intelligente e responsabile”. Beh, sono passati circa dieci anni. Anselmo nel video che fa il giro del mondo è di nuovo sovrappeso (e non c’è più un busto ortopedico da accusare) è in evidente sbandamento alcolico e non si sa per quale oscura ragione, a un certo punto gli viene l’idea di rivolgere al pubblico un bel Sieg Heil, berciando poi “Waiiiit Pawaaaar”.
Nel 1991 la cosa sarebbe stata una news da pubblicare sulle riviste specializzate e poco altro. Nel 2016 è stata l’ecatombe.

Dopo il fattaccio di Anselmo è significativo che la rete abbia rigettato dai forum diverse altre foto di artisti metal celebri (Mustaine, Ulrich) che in un momento di luppolosità eccessiva avevano, nel lontano 1988 o 1992, giocato a fare il saluto nazista. Quelle vecchie foto però, scattate allora da qualche groupie, sono rimaste per decenni in un cassetto. Non esisteva facebook e non c’erano le webzines specializzate a caccia di scoop. Vederle a distanza di tanti anni non ha scatenato alcuna tempesta su quegli artisti (si tratta di vecchi cimeli che nessuno prende in considerazione, (erano regazzi)… ma se nel 2016 fai ancora il Sieg Heil sono cazzi tuoi, amico.
“Amico, io scherzavo” dice Anselmo. “Ero ubriaco e ho fatto una cazzata. Il giorno dopo mi è bastato accendere il computer e scoprire che ero diventato il nuovo Adolf Hitler mondiale! Direi che è un tantino esagerato. Io ho sbagliato, ma si esagera, no?”
Secondo me sì, Phil, ma da quel momento, oltre agli innumerevoli commenti spregiativi e truculenti su di te, di cui potevi sbatterti, sono iniziati i dolori veri. Tutti i festival che avevano in cartellone i Down, li hanno buttati fuori dal bill.
Prima si è mostto il Fortarock in Olanda, poi il Download in Inghilterra. Phil si è affrettato a pubblicare un video di scuse, ma ormai la palla di merda aveva iniziato a rotolare dalla cima: alla band è stata vietata l’esibizione persino a New Orleans. Phil ha azzardato un “andate avanti senza di me” al resto della band, ma come si fa a sostituire Anselmo in un gruppo, qualsiasi gruppo, e nel giro di poche settimane, per giunta?
Pepper ha ammesso la delusione per il gesto dell’amico, ma ha fatto sapere di perdonarlo. Chiaro però che la situazione per i Down e qualsiasi progetto abbia coinvolto Anselmo, era ormai di cacca placcata in oro.
I Down hanno finito per essere cacciati da tutti i festival europei, incluso l’Hellfest e il Gods Of Metal. Keenan ha assicurato che per il gruppo ci sarebbe stato ancora un futuro, e qualche fan ha mostrato subito solidarietà, comprando una t-shirt stampata in anticipo con la scritta Download 2016. “Insomma, chi conosce Phil dai tempi di Cowboys From Hell, sa che piglia qualche cantonata, ma la realtà” dice Pepper “è che il mondo di oggi può perdonare che ti fai le pere e che ti ammazzi, però niente saluto nazi a una festa da ubriachi”.
L’unica soluzione è rimettere nel surgelatore la band, fino a data da destinarsi, in attesa che l’occhio della pubblica indignazione passi ad altro.
E dopo tre anni dal fattaccio si è tornati a parlare dei Down. Il pretesto è stato proprio un’idea di Anselmo, che nel 2019 avrebbe voluto rimettere insieme il gruppo per festeggiare i 25 anni dell’uscita di Nola.
Detto, fatto. Si sono rifatti vivi tutti alla chiamata, persino Kirk Windestain, che era uscito dai Down per ragioni molto più profonde di un nuovo disco dei Crowbar, dicesse Keenan. Dal 2016 ha infatti smesso sul serio di bere, cosa che probabilmente non gli sarebbe stata possibile se avesse continuato a frequentare Jimmy Bower, Anselmo e Pepper Keenan.
Va beh, i Down nel 2019 erano di nuovo in attività, anche se solo per qualche concerto. Peccato che il mondo aveva in serbo per loro una sorpresa-sorpresona. Il Covid. Così, il gruppo ha dovuto disdire il tour e offrire un solo show in livestreaming.
Dopodiché, visto che il pubblico ha iniziato a chiedere un altro album e Kirk si è dichiarato possibilista, a patto che “non si metta tra i piedi agli altri impegni che ha”, il gruppo alla fine ha annunciato di pensare sul serio alla realizzare un disco, va bene, però di cover dei vecchi classici e probabilmente sì, sarà un EP!