SPECIALE CROWBAR 1990-2020 – UN LUNGO E LENTO CAMMINO

“Mia madre mi ha detto: ‘Se vuoi provare a farcela nel mondo della musica, tieni a mente una cosa: coloro che si esaltano sono umiliati e quelli che si umiliano sono esaltati.’ Se sei una diva o uno stronzo, la gente ti umilierà, ma se tratti i tuoi fan con rispetto e comprendi che non sei niente senza di loro, ti sosterranno”. Kirk Windstein

CAPITOLO 1 – LE ORIGINI (CAPITAN KIRK)

In altri tempi non avrei scritto questo articolo. Ci sono delle band su cui proprio non riesco a cavar fuori niente. Passo mesi ad ascoltare e analizzare i loro dischi, raccogliere materiale, portare fino in fondo il mio metodo (sì perché c’è un metodo nella mia follia) ma alla fine non esce nulla, devo rinunciare e basta.

Probabilmente i motivi sono due. Prima cosa si tratta di gruppi per i quali non nutro una sincera ossessione. Me ne occupo per “manie di completismo”, per colmare una lacuna che mi convinco vada assolutamente colmata (Cazzo, non hai mai scritto sui Benediction, come puoi trascurare i Benediction???).

Quando è così in effetti non c’è alcuna maniacalità dietro il mio lavoro di ricerca e di espressione. Si tratta solo di fare dei compitini. La seconda cosa è che le band storiche, almeno quelle che non mi hanno mai scatenato rivoluzioni interiori, vantano discografie nutrite.

Pensare di scovare un filo conduttore, un percorso evolutivo su oltre dieci album spalmati nell’arco di trent’anni o più, è un sistema che non sempre paga. Basta prendere i Dark Tranquillity, i Dream Theater, tutti quei gruppi che togliendo qualche traumatico cambio di line-up, hanno praticato una solidissima etica lavorativa, sostenuti da un sistema discografico affettuoso che, nonostante il succedersi delle etichette, continua a mantenerli nelle condizioni giuste per produrre musica regolare, anche grazie a un pubblico solido, nutrito e che non li abbandona mai (il maledetto!).

Ascoltare tutta la produzione di queste felici fabbriche di metallo, “sderena” qualsiasi uomo di buona volontà che non abbia un “baco” irrisolto nei confronti di questi gruppi.

Per me i Crowbar sono così. Ho ascoltato tutti i lavori che hanno fatto, vale a dire undici dischi in 30 anni, e ho avuto come l’impressione di ascoltare più o meno sempre lo stesso album. Non ci sono “tradimenti” di stile, gustosi voltafaccia, album controversi e ritorni di fiamma alle origini. La band va sempre nella stessa direzione, ovvero contro un muro di impenetrabile terra umida.

Ho esplorato l’opera dei Crowbar in un mese della mia esistenza, dedicando loro ogni mattina o quasi della mia esistenza. Non mi sono annoiato, ma al termine del viaggio ho notato movimenti minimi, come se da Obedience Thru Soffering a The Serpent Only Lies, il gruppo sia stato principalmente un progetto-diario personale di Kirk Windstein, attivato e disattivato a seconda dei momenti; senza che le pause abbiano influito, in bene o in male, sugli esiti creativi e nemmeno quelli commerciali – invero piuttosto ridotti, nonostante la possibilità di calcare il palco con i Pantera all’apice della popolarità, e nonostante il passaggio su Beavis & Butthead o la militanza di Kirk nei Down).

Se lo stile è cambiato con la stessa progressione degli elementi su un sasso, la formazione dei Crowbar ha subìto cambi sostanziosi quasi a ogni disco. Tranne Kirk, il timoniere indefesso con l’aspetto sempre più a metà tra l’Atalante sulla copertina del primo disco e il nano censurato di Biancaneve, a parte lui, dico, i Crowbar hanno avuto quattro ex chitarristi, quattro ex bassisti e quattro ex batteristi in undici uscite ufficiali.

Tolte tutte queste mie beghe personali di scrittoracchio, non posso negare l’importanza storica dei Crowbar. Restano l’incipit di un modo di fare metal ben preciso e alla base di un certo sotto-filone. Hanno un’anima underground mai rinnegata e tutto sommato, non sono accusabili di aver messo in giro lavori scadenti. Tutti e undici gli album (il dodicesimo Zero And Below non l’ho ancora sentito) mantengono ciò che promettono, con varianti minime e una stabilità che sa di Menhir.

CAPITOLO 2 – SEMPRE COLPA DEI KISS

Tutta la generazione anni 90, dai grandi pionieri del death metal e del black, agli sperimentatori “avantguardianz”, tutti vantano una passione un po’ incresciosa per i vecchi Kiss.

In particolare per Alive 2.

Anche Kirk Windstein non fa eccezione e pure lui come tutti gli altri ammette di essersi liberato dall’ossessione per la band di Paul & Gene, dopo la svolta disco-heavy di Dinasty, che è più o meno lo stesso periodo in cui Eddie Van Halen divenne il noto fenomeno chitarristico, soppiantando Ace Frehley nell’immaginario collettivo e imponendo un nuovo modello di guitar hero.

“Da Van Halen rimasi ovviamente impressionato ma non ho subito un’influenza decisiva. Basta ascoltare i dischi dei Crowbar per accorgersene. Non ci sono assoli. Io non critico chi li fa, dico però che non sarebbero adatti a un sound come il nostro. Purtroppo negli anni 70/80 questo concetto degli assoli è stato ingigantito a dismisura, tutti i chitarristi finivano per preoccuparsi di quanto velocemente sapessero suonare, della lunghezza di questi intermezzi… non credo che ci sia gente che compra un CD solo se è sicura che ci siano assoli dentro. È una cosa a cui si è data troppa importanza”. Kirk Windstein

Veramente c’è molta gente così, basti pensare agli insulti contro i Metallica quando uscì St. Anger, completamente privo di assoli per espressa volontà di Hammett. Ma andiamo avanti.

È comunque così, Windstein non ha praticamente mai suonato un assolo nei dischi dei Crowbar e il suo stile musicale ha sempre espresso una specie di sottomissione pedantesca verso qualcosa a metà tra Tony Iommi e Greg Ginn, ma diciamo che Ace Frehley, l’uomo dello spazio, con la sua figurazione cartoonesca, sia riuscito a infilarsi nell’erogeno mondo “magista” di Windstein, tra Robot Giapponesi e Ninja. E non solo per lui, tutti i Kiss hanno sempre rappresentato un ponte tra i supereroi e i musicisti nati nel 1970.

Ma parliamo di Kirk fanciullino.

Non è facile credergli ora, a vederlo ma lui assicura che da ragazzo ha sempre fatto parecchio sport, tipo corsa e sollevamento pesi. C’è Pepper Keenan che consiglia tutt’ora di spostarsi ogni volta che Windstein calcia un pallone e si è in traiettoria. Questo per via dei suoi polpacci enormi.

Insomma, da giovane era uno sportivo, prima che la musica lo spingesse a mollare i campi da corsa e le palestre per concentrarsi sulla chitarra e l’impresa di praticare un buco personale nella groviera dell’industria discografica underground.

CAPITOLO 2 – NASCITA DEI CROWBAR

 

Ho detto che la storia dei Crowbar non presenta niente di “spassoso”. Sapete, quelle tipiche cose da rock and roll: morti, overdose, scandali sessuali, bancarotte… niente di niente.

Ma prima di venir fuori con quel nome, che se non lo sapete significa “piede di porco”, sia Kirk Windstein che Jimmy Bower (EyeHateGod, Down e pure Crowbar di tanto in tanto) orbitavano nell’area degli Shell Shock, la prima hardcore band di New Orleans.

Un giorno, Mike Hatch, fondatore del gruppo, si ammazzò.

Windstein e Bower ci restarono comprensibilmente di merda ma non si sognarono di chiudere con la musica. Cambiarono il nome del gruppo in Aftershock, pasticciando ancor più col punk, l’hardcore e seguendo l’esempio sperimentale di Melvins e Carnivore.

(Non sono sicuro che le cose siano davvero andate così, ma dopo aver cercato e cercato, è la sola versione che sono riuscito a desumere).

A proposito dei Carnivore, bisogna sottolineare il ruolo che Peter Steele ha avuto, al tempo del secondo album Retaliation, su tutta la scena di New Orleans.

Molti lo associano soltanto agli anni 90 e alla sua creatura più portentosa e popolaresca, i Type O Negative, ma il “gigan-tipo” fu l’ispiratore principe della nascita dello sludge e del doom più estremo a New Orleans.

“Peter Steele ha avuto un’enorme, dico enorme, influenza su di me e il suono dei Crowbar. Retaliation dei Carnivore è stato fondamentale”

Kirk dice che l’influsso Carnivore si diffuse anche nel resto della piccola scena cittadina, determinando quel sound di cui ancora oggi si parla tanto.

“Non voglio dire che abbiamo inventato questa musica, ma Jimmy Bower e io abbiamo iniziato a scrivere canzoni con le chitarre accordate sul SI intorno al 1988. A quel tempo tutti suonavano Thrash velocizzato. Noi non lo trovavamo interessante. Non era il nostro stile, anche se ovviamente il Thrash ci piaceva. Quindi ci siamo detti: “Facciamo qualcosa di diverso, abbassiamo le chitarre, suoniamo lentamente e vediamo cosa succede”.

“Ricordo che all’inizio alla gente fece davvero schifo” dice Bower. “Tutti odiavano ciò che facevamo”.

“New Orleans è un posto piccolo” riprende Kirk, “lo è davvero, geograficamente. È una piccola scena affiatata. Fondamentalmente tutti noi, Crowbar, Down, Pantera, COC, EyeHateGod, Soilent Green, Goatwhore, condividiamo i musicisti e ci conosciamo tutti da sempre e fondamentalmente siamo cresciuti ascoltando la stessa merda. Tutti quanti abbiamo preso quelle influenze aggiungendo ognuno di noi il proprio tocco personale. Ci sono elementi di tutte le band che sono simili ma nessuno di noi suona come l’altro. I Soilent Green sono l’opposto di Crowbar, per dire. Siamo cresciuti tutti andando agli stessi spettacoli, vedendo le stesse band, ascoltando lo stesso tipo di musica e tutti noi abbiamo preso tutta quella merda e l’abbiamo messa in un frullatore e abbiamo inventato la nostra musica. Non è come ai tempi dell’hair metal di Los Angeles, dove ogni fottuta band suonava esattamente allo stesso modo, nessuno di noi suona come gli altri, ma c’è qualcosa che ci unisce tutti insieme, il che è fantastico”.

Dopo la nascita abortita degli Aftershock il gruppo di Kirk e Jimmy si chiamò Wrequiem e poi Slugs, componendo via via le canzoni che sarebbero diventate la scaletta di Obedience Thru Suffering (1990).

C’è chi considera questo primo disco, l’inizio, il centro e la fine di tutto ciò che i Crowbar avevano da dire. C’è chi invece pensa che sia un incipit piuttosto rozzo e irrisolto di ciò che la band avrebbe codificato nella pietra un paio di album dopo.

Per quanto mi riguarda è un bell’esordio, se vi piacciono i riffoni lenti, l’approccio depressivo e soprattutto i film espressionisti con i Vichinghi in bianco e nero… perché altri colori scordate di immaginarli ascoltando quelle canzoni.

Dice Kirk: “mah… per me ‘Obedience Thru Suffering’ è solo un nastro demo promosso a disco. Ha guadagnato subito un seguito di culto, specialmente in Germania ma per la verità non è lì che abbiamo trovato la nostra vera direzione, non completamente. Ecco perché il secondo lavoro si intitola Crowbar, perché è lì che secondo noi ha davvero avuto tutto inizio. “Obedience” lo ascolto ancora e ha delle parti davvero scadenti che non vorrei più suonare dal vivo”.

Beh, io non sarei così severo con Obedience… ma è innegabile che il successivo Crowbar sia un passo avanti da tutti i punti di vista. Invece del bianco e nero siamo sul grigio nero e soprattutto sul nero nero. So che sto parlando come un daltonico ubriaco, ma la verità è che quando ascolto i Crowbar io penso all’assenza di colore, più che all’assenza di speranza.

“Se mi permetti il confronto” dice Kirk, “il primo album è nato già al tempo degli Shell Shock. Alcuni riff e canzoni sono frutto di quei giorni di prove e di tentativi. Io lo vedo un po’ come il primo disco dei Type O, che per certi versi è anche il terzo album mai realizzato dai Carnivore e che per un po’ era stato lo step iniziale di un nuovo progetto di Steele chiamato Repulsion. Inevitabile vedere quindi ‘Slow, Deep And Hard’, come una cosa che passa attraverso troppe fasi per chiamarsi semplicemente Type O, mi spiego? E così è anche Obedience. Quando abbiamo dato il via ai lavori per il successivo Crowbar invece eravamo completamente immersi in quella dimensione. Il gruppo si chiamava così e solo così e quello che stavamo facendo era cercare di fare qualcosa che, certo, non era una novità, c’erano i riff alla Black Sabbath e l’approccio folle ed esasperato dei Melvins, ma come i Sabs e i Melvins cercammo di fare qualcosa che ci rendesse riconoscibili, identificabili in mezzo a tutti gli altri. E sono convinto che Crowbar sia esattamente il modo nostro di dire la stessa cosa che dicevano già tutti gli altri, vale a dire, o ci ami o ci odi, noi siamo esattamente ciò che vogliamo essere”.

Questa filosofia individualista, squisitamente americana, oggi si è perduta. Non possiamo negare che le band giovani amino imitare e assimilarsi ai modelli precedenti. Non c’è il bisogno di affermare se stessi alla propria maniera nel metal, non più. Qui nessuno pretende di inventare nulla di nuovo, sia chiaro. Sono decenni che l’heavy metal fa sempre la stessa cosa (scatenare l’inferno) ma ognuno dovrebbe guadagnarsi una propria formula per evocare i satanassi, altrimenti non ha senso. Vi pare?

Kirk: “Questo è sempre stato molto, molto importante per me. Specialmente in un mondo di saturazione – l’intero metal… la musica pesante è così “esaurita”. Ci sono tante band stoner che pasticciano una versione furbetta degli Eyehategod e sperano di non sentirselo rinfacciare da nessuno. Non parlo solo di quelli che escono con le grandi etichette, ma pure a livello locale. C’è un sacco di roba derivativa anche nell’underground, dove bisognerebbe sperimentare e trovare vie nuove. Mi dispiace dirlo, ma per esempio… sarò solo io o non si riesce a distinguere una fottuta band Black Metal dall’altra?”

Tornando a Crowbar (1993) è innegabile che ci sia una maggiore ispirazione compositiva, svariati bei riffoni e almeno un paio di classici: la debordante High Rate Extinction e All I Had (I Gave) messe all’inizio, tanto per smascellarci il grugno in terra prima di saltarci sopra e ballare la danza dell’uva per altri trenta minuti.

Spicca, sia nella lunare cover di No Quarter degli Zep, che in Fixation e I Have Failed, una maggiore versatilità timbrica nel cantanto di Kirk e il fatto che alla produzione ci sia Phil Anselmo, amico d’infanzia del gruppo e fan sfegatato dei Crowbar già ai tempo del demo, probabilmente qualche differenza l’avrà fatta sull’approccio vocale. No?

E a proposito della cover di No Quarter, ecco cosa ne dice Kirk: “Quando ero giovane lavoravo come lavapiatti in un ristorante e ogni sabato dopo il lavoro andavamo, sudici, sporchi e sudati, in un teatro sul lago a New Orleans, dove stavano passando ‘The Song Remains The Same’, il film dei Led Zeppelin, a mezzanotte. La mia parte preferita era ‘No Quarter’,durante la sequenza onirica/fantastica di John Paul Jones con il cavallo e il cimitero e il fottuto grande organo a canne nella cattedrale e tutto il resto. Era inquietante e comunque bello, quindi ho sempre pensato che ‘No Quarter’ sarebbe stata una grande canzone da fare”.

CAPITOLO 3 – IL TEMPO NON GUARISCE UNA CEPPA

Il terzo album dei Crowbar è “la pecora nera” dell’intera discografia del gruppo. Si parla di una produzione meno riuscita dell’omonimo e un’insistenza estenuante per “il martellare esistenziale di un ferramenta frustrato dopo che ha abbassato la saracinesca e non vuole tornare a casa a fare alla moglie quello che fa in officina”.

Per la verità c’è un senso di minaccia che nei dischi successivi si perderà, (a parte un ritorno nel brano Reborn Through Me dal successivo Broken Glass).

In Time Heals Nothing le chitarre si ingrossano di armonie orchestrali (The Only Factor) e Through Walls Of Tears fabbrica nella mia testa, quando l’ascolto, le architetture pietrose e spietate di qualche inferno pagano senza speranza di redenzione o di ritorno alla carne. In effetti è un peccato che il gruppo abbia cambiato il tipo di copertine perché quelle antiche illustrazioni in stile “Dei dell’Olimpo in difficoltà” erano perfette.
I macigni tutti intorno e corpi di carne e muscoli, erano la versione pittorica della vita digestiva di Kirk Windstein.

Un anno dopo Time Heals Nothing, i Crowbar vivono la fase probabilmente più vicina ai sogni ormonali dell’ex giovinastro palestrato mascherato da spaceman.

“Non posso dire di averlo mai provato davvero e mai mi accadrà, ma la cosa più vicina al sentirmi come una rockstar è stata la prima volta che il video di ‘All I Had (I Gave)’ è stato mostrato su MTV quando Headbanger’s Ball era davvero qualcosa. Sono una persona umile, ma vederti su MTV è surreale e lì per lì mi ha un po’ destabilizzato”

Proprio allora si registrò la prima intervista promozionale anche da noi in Italia: Metal Shock!, articolo di Benedetta Ferraro, pubblicato sul secondo numero di ottobre 1996.
Kirk in quell’occasione esprime un concetto abbastanza curioso. Per lui la scelta di andare lenti non rappresenta un bisogno di pesantezza, tipo fare lo schiacciasassi, ma di esprimere la propria emotività. Quindi in quei rutilanti giri di chitarra, nelle burbere melodie catarrali che si inerpicano sulle lisce pareti ritmiche di pezzi come Still I Reach, c’è il suo cuoricione gonfio di malesistenza dell’ipercalorico Windstein.

CAPITOLO 4 – VETRI ROTTI

Con Broken Glass si apre una fase molto importante nella carriera dei Crowbar. Le ragioni sono principalmente queste:

1 – Il gruppo perde stabilità nella formazione, stringendosi via via sempre più attorno alla figura di Windstein.

2 – Una volta dissodato lo stile con i primi tre lavori, la band inizia a permettersi qualche variazione sul tema principale. Peccato che questa fase inizi all’apice, si fa per dire, della popolarità dei Crowbar e si concluda con uno dei lavori meno considerati.

Da qui comincia già la discesa, insomma.

L’intervista su Metal Shock di cui sopra è per l’uscita di Broken Glass, quarto album del gruppo, con Jimmy Bower come batterista e un produttore insolito per la band: Simon Efemey (Paradise Lost, Wildhearts).

“Lo incontrammo quando eravamo in tour con i Paradise Lost” racconta Kirk, “band di cui siamo grandi fan. È nostro amico, è duttile e di fiducia. Ci ha lasciato libero spazio di decidere dando allo stesso tempo consigli preziosi. Per esempio, noi volevamo un album duro e aggressivo, lui ha mantenuto questo punto con una variante, creando cioè un suono più organico come una batteria stile Bonham con doppio pedale e tutto il resto. Il gruppo è sempre Crowbar, con in più sprazzi di originalità”.

Secondo Benedetta Ferraro, i Crowbar “sono un gruppo di cui si sentirà parlare sempre più” e la cosa oggi con tutto il rispetto fa un po’ sorridere. Purtroppo la band, dopo Broken Glass si inabissò, adagiandosi su una mediana di popolarità discreta ma in fondo un po’ frustrante.

Purtroppo il gruppo mancava di un leader carismatico sì ma… che piacesse alle femmine! Diciamo la verità. Se Kirk, con la sua aria qualunque avesse avuto l’aspetto da vichingo grezzone alla Zakk Wylde o il fascino da hippie metropolitano del primo Kory Clarke, i Crowbar sarebbero diventati una delle band più fiche degli anni 90.

Nel tempo Kirk si è fatto crescere la barba e ha guadagnato un suo perché, ma in un contesto doom molto nerd ormai vediamo gente grassa e pelata che domina i palchi con inverosimile carisma.

Nel 1996 però assistere alle performance di Windstein con il berrettino calato sulla faccia, il velo di barba di due giorni, il fisico da giocatore di tennis della domenica, e accanto a lui uno come Todd Strange, dall’aspetto del fumettista obeso dei Simpson, nemmeno a un maschietto sessualmente confuso come me, sarebbe mai scattato qualcosa.

Avevamo tutti bisogno di eroi epici come Peter Steele e di belve da strada tipo Phil Anselmo, oltre a un Gesù Cristo alla Cobain. Se vedevi Kirk in foto, ok, c’era tanta sofferenza in quegli occhi, c’era solitudine, tristezza, ma ascoltando la musica dei Crowbar, chiudendo gli occhi, io immaginavo un erculeo demone sconfitto che urlava incatenato nelle profondità cavernali dell’Ade a quel figlio di puttana di Zeus che lui non si meritava quelle catene!

Poi riaprivo gli occhi e vedevo l’immagine di Kirk vero.

Cazzo, Kirk era solo uno che avresti potuto vedere per strada mentre si mangia un panino e si sporca la maglietta, impreca e se ne va a testa bassa in qualche zona d’ombra sociale a far dimenticare se stesso.

Questo dovrebbe essere un messaggio di incoraggiamento punk: una cosa del tipo, chiunque può essere un dio del metal, ma non è esattamente così.

No, non era esattamente così nel 1996. I Pantera avevano successo pure con un batterista grasso, ma tutti vedevano i muscoli di Anselmo e il pizzo colorato di Darrell, non importava chi ci fosse là dietro.

Windstein era il frontman dei Crowbar, ma lo scambiavi per il tecnico delle chitarre.
In ogni caso, Broken Glass non andò come avrebbe potuto per varie ragioni, non certo per questa cosa un po’ puerile dell’aspetto fisico della band. Ce lo dice Todd Strange, il bassista più storico del gruppo:

“Beh, negli Stati Uniti all’epoca eravamo con una casa discografica scadente e ci ha fatto un po’ male”. Vale a dire la Pavement Music, che tenne i Crowbar al gioco per tre dischi tre. Dal secondo al quarto.

Broken Glass è un disco possente, con la miglior produzione mai avuta dai Crowbar fin lì, ma la mia sensazione è sempre la stessa: il gruppo è talmente pesante che, pure nei momenti in cui le chitarre si allargano strati su strati in controcanto (Conquering) e quando la valanga si sbriciola nel vuoto in una serie di accordi pianistici molto vicini alle “gotthate” nord-europee dei primi anni 90, pure in quei momenti, il culo dei Crowbar resta fisso al suolo.

C’è più ricerca melodica in Broken Glass (Nothing, I Am Forever) ed è chiaro che Kirk sa anche cantare e imbroccare momenti molto più evocativi con cui pretendere qualcosa di più a livello emotivo dal proprio pubblico che non fosse uno scapoccio rallentato con l’espressione sdegnata in faccia, in stile “questa minestra non mi piace”, ma per carpire un autentico stacco dal bracere primordiale, bisogna aspettare il 1998, con il lavoro successivo intitolato Odd Fellow Rest.

Che poi, l’avrete notato da voi ma…

Comunque…

Con Old Fellows Rest i Crowbar non hanno paura a buttar giù i muri della caverna platonica e annerire in una luce accecante i tipi rivolti verso le ombre. È sempre greve e gravato ma ha quest’apertura fiammeggiante di contro-chitarre e uno sprone melodico che non molla neanche quando si torna a fare i burini esistenziali (sentite Planets Collide).

Ma c’è un sapore grunge in cose come Dicember’s Spawn. Ok, piano, ovviamente dovete spogliare gli Alice In Chains, rivestirli di catrame dell’Anas in un Agosto da global warming e asfaltarli sotto un muletto guidato da capitan barba Kirk, ma insomma, diciamo che l’anima melodica di Windstein emerge nella fierezza un po’ impacciata che lo contraddistingue, proprio nel brano Odd Fellow Rest: chitarra e voce e andatura psichedelica per una litania funebre volta a strani compagni di viaggio ormai nel riposo eterno.

Siamo nel 1998 e la carriera dei Crowbar potrebbe finire qui.

Ci sono i Down che prendono il via oltre le più sborree aspettative, al punto che la carriera del progetto di Kirk Windstein attraversa la fase probabilmente più trascurata e trascurabile, quella di Equilibrium e Sonic Excess In His Purest Form, altri due album che, come in Odd Fellows Rest ci suona la chitarra anche Sammy Pier Duet degli Acid Bath e in cui dice addio, temporaneamente il comprimario fisso di Windstein: Strange Todd, esaurito dalle magre entrate e l’esborso energetico di Crowbar e Down insieme. Il bassista grasso tornerà a farsi vivo con una dignitosa barba bianca e qualche chilo in meno, una quindicina di anni dopo.

Epperò sappiatelo, Equilibrium è un gran disco!

Recuperatelo subito perché è quello su cui Kirk spinge e allarga più che può il range espressivo dei Crowbar. Non si tratta dell’album “piacione”, eh? Siamo sempre in una terra brulla e disgraziata dove la speranza si trova nello stesso sole che ti ammala la pelle (I Feel The Burning Sun) e nelle stelle che ridono sul tuo corpo incartapecorito (To Touch The Hands Of God, interamente piano e voce).

C’è una dinamicità che nei dischi di prima potete scordarvi. Basta prendere il pezzo Down To The Rotting Earth: comincia stoner, si inceppa sul doom puro e decolla con un coro di chitarre epiche perfetto per sorvolare la palude piena di cadaveri di Apocalypse Now.

Sonic Excess in Its Purest Form, nonostante il titolo belligerante, è forse l’album più ricco di melodie dell’intera storia della band. Basta prendere la strumentale In Times Of Sorrow, con due chitarre che si piangono addosso, davanti a un paesaggio mentale pieno di vecchie tombe ed eterni rimorsi.

Potrei citare tutti i brani ma vi basterà ascoltare The Lasting Dose per rendervi conto che Kirk Windstein è ormai arrivato dove doveva arrivare come compositore.

CAPITOLO 5 – IBERNATI E RINATI IN DIO

Lifeblood For The Downtrodden è un gran bel titolo in generale. Chissà che vuol dire Downtrodden? Però di sicuro mi fa pensare ai Down. E i Down sono il motivo per cui Kirk ha messo nel freezer i Crowbar dal 2002, anno di uscita di Down II, al 2005.

Ma non è il solo pretesto che ha causato questo stop temporaneo.

“Mia moglie è rimasta incinta” ha spiegato ai giornalisti con un mezzo sorriso, “poi abbiamo avuto nostra figlia nel marzo del 2003. Quindi è stato bello prendersi un po’ di tempo libero mentre lei era incinta e dopo, per la bimba che è nata, poter uscire come una famiglia, i primi mesi con la carrozzina, è stato davvero bello”.

Il ritorno dei Crowbar vede ulteriori cambi di line-up.

Dopo Todd Strange, al basso è entrato un certo Jeff Okoneski, ma per il ritorno del 2005, Kirk pensa bene di rimpiazzarlo con Rex Brown.
“Praticamente avevo Rex che suonava con i Pantera, parlavo con lui quasi tutti i giorni e quando gli ho detto che saremmo tornati in studio con i Crowbar mi ha chiesto chi suonava il basso e io ho detto ‘di solito suono io il basso sui dischi’ e allora lui ha detto, ‘fanculo, ci penso io!’”

Oltre a Rex c’è il ritorno di Craig Nunenmacher alla batteria. Lui era già con la band dall’esordio fino al terzo album, prima di passare per un po’ alla Black Label Society. Come produttore, Windstein coinvolge lo stesso che ha supervisionato Down II, Warren Ricker.

L’esperienza con lui, nel fienile di Anselmo, registrando, fumando e sbronzandosi di continuo, con una media di tre ore di sonno a notte, ha dato la stura a un approccio più cameratesco per Kirk. Appena ha fatto ripartire i Crowbar, si è trasferito con Craig e Rex in un vecchio studio di New Orleans.

Lì c’erano anche tre camere da letto al piano di sopra. “Avevamo una grande cucina e tenevamo la dispensa rifornita” dice Windstein, “cucinavamo tutti i giorni a turno ed è stato fantastico, abbiamo vissuto lì per un mese intero, è stata un’esperienza fichissima”

Il titolo dell’album per la verità è un riferimento al rapporto vampirico dei fan, certi fan, i quali si aggrappano a Kirk e i Crowbar con una nevrastenia piuttosto tenera ma tenace.

“Incontro così tanti ragazzi e ricevo così tante e-mail e alcune sono molto serie. Voglio dire, c’è questo ragazzo di Israele che vuole uccidersi e ha bisogno di parlarmi dei testi delle mie canzoni o qualcosa del genere, quindi puoi capire che io sento una grandissima responsabilità. Tante persone mi hanno detto che la mia musica e le mie parole li hanno aiutati a superare momenti davvero difficili della loro vita, che si tratti di parenti che muoiono o genitori che divorziano, solo cose brutte. Quindi, questo è un po’ come il mio regalo ai fan, se può aiutarli a superare i momenti difficili della loro vita, allora è una cosa fantastica, ed è di questo che si tratta”.

Bello, no?

Ma come sono i testi che Windstein scrive con i Crowbar?

INTERLUDIO – I TESTI DEI CROWBAR

Allora, in principio, nel 1990, è chiara l’influenza dei Black Flag e dell’hardcore, riguardo le parole. Kirk parla di dolore, odio, rabbia, del prossimo suo come di un mondo indifferenziato che ti frega, tradisce, delude, abbandona.
Si tratta ovviamente di cose che lui ha scritto tra i 20 e i 25 anni, in un momento di crescita artistica ed epidermica, perdendo anche i capelli.

In fondo l’impostazione dialogica tra un IO che sanguina e un ambiente esterno impassibile o quasi, resta l’impalcatura per tutto il lavoro futuro di Kirk come paroliere, solo che già dal secondo album, l’omonimo, la vena riottosa si addolcisce un po’.

Non c’è più solo rabbia o depressione, ma anche un varco sentimentale molto più audace. Ci vogliono le palle per scrivere e poi urlare al mondo testi come questo:

Brucio d’amore. Assaporo i ricordi
Lecco le mie ferite con orgoglio
Conta i miei giorni e le mie notti nella miseria
Alimentato da questa rabbia che ho dentro
Non posso guardare indietro
Non posso guardare indietro (“Negative Pollution”)

“Sono un ragazzo con il cuore in mano” dice Kirk con un mezzo sorriso. “Mi sento a mio agio nell’essere una persona emotiva. Non fischietto tutto il giorno ma sono una persona generalmente ottimista e positiva, però probabilmente piango più spesso di quanto la maggior parte degli uomini ami ammettere. Per fortuna piango più spesso con lacrime di gioia che per cose tristi o depressione. Mia moglie mi regala un bellissimo biglietto di auguri di Natale e mi metto a piangere, per dire!”

Ho dato il mio cuore e la mia anima a te amico mio
Mi hai lasciato cadere
Se solo tu potessi vedere cosa c’è nel mio cuore
Mi prenderesti per mano
Ho vissuto questa vita come farebbe un vero uomo (“Existence Is Punishment”)

Il suo paroliere preferito è Phil Lynott, ma Windstein non ha nulla dell’epica urbana fantasticata nei Thin Lizzy. Non racconta storie, non inventa personaggi, non celebra gli antichi miti della confederazione irlandese. Però tira fuori il cuore e lo mostra al mondo, lasciandolo sanguinare.

E via via che si procede dal secondo album in su, c’è sempre più un dio nel mondo dei Crowbar.

Non a casa Kirk nel tempo matura un afflato lirico quasi da preghiera. Non voglio tediarvi con ulteriori esempi ma i testi da Time Heals Nothing in poi si ingrossano di fato.

Direi che tutta l’opera lirica di Windstein è poesia Doom a palla. Basta prendere December’s Spawn. La progenie di dicembre. Anche se Kirk è nato ad aprile, per me è inevitabile pensare che parli di chi è venuto al mondo nel mese più freddo, folle e spietato dell’anno, tra le feste natalizie causa di infinite sofferenze e suicidi nel mondo, al clima assassino del culo di sacco annuale. Probabilmente è una cosa più metaforica, ma mi ritrovo in queste parole:

Tu sei la progenie di dicembre
agonia che tieni dentro di te
dall’alba dei tempi
sei costretta a fare quello che fai
pelle rotta, così secca
polmoni brucianti, respiro così lento
non riesco a vedere il sole
non riesco a vederlo

Insomma, siamo lontani dalla rabbia giovane di I Despise, qui è più un accorato canto compassionevole verso chi è venuto al mondo quando il mondo era voltato dall’altra parte, troppo occupato a scaldarsi le chiappe e avaro di abbracci verso i nascituri nell’umidume dicembrino.

Ma è innegabile un tono più profetico, da Antico Testamento, come se nel tempo fosse riemersa l’educazione spirituale di Windstein, esprimendosi nel canto raucedinico e nelle strofe pregne di nefandezze interne, disperazione, violenza verso se stessi.

Ma Kirk è cristiano o ci fa?

“È strano parlarne” risponde lui. “Molte volte, affiorano immagini religiose nei Crowbar, Personalmente, io e Tommy (il nostro batterista), siamo cristiani nel senso che crediamo in Dio e in Gesù. Però non andiamo in chiesa, non crediamo nell’ipocrisia della religione organizzata. La mia relazione spirituale personale con Dio è tra me e Dio. Non lo impongo a nessuno e non ne parlo molto in giro”.

“Non ho bisogno di mettere un pesce sul retro della mia macchina. La mia relazione spirituale è che credo in Dio e questo mi dà forza. Non ho bisogno di predicarlo. Entrerò a casa di Phil e avrà teste di capra ovunque, e io sarò a casa mia con una croce sul muro, a bere una birra, e ci ridiamo sopra. È così che dovrebbe essere. Se ti senti meglio a parlare con un albero, qualunque cosa, così sia, tutto ciò che ti fa sentire meglio è tutto ciò che conta. Siamo quello che siamo e basta. Molte persone fanno jogging. Ci sono così tante cose diverse che le persone fanno per aprire la mente e sollevare il morale. Qualunque cosa possa essere va bene, che sia Dio o il tuo cane”.

C’è anche chi mette insieme le due cose, eh? Sempre di spiritualità si parla. Comunque Lifeblood… riprende la violenza delle origini nella prima parte, ma non dura molto. Ormai la melodia è diventata una componente irrinunciabile per Windstein. Prendete “Moon” e la title-track, poi parliamone.

CAPITOLO 7 – PAUSE DIMENSIONALI

Dal 2005 si registra un altro balzo temporale fino al 2011, sempre perché di mezzo ci sono i Down, ormai diventati una roba davvero troppo grossa per chiamarli progetto parallelo; senza dubbio lo sono meno dei Crowbar.

E il nuovo album dei Crowbar, Sever The Wicked End, segna una svolta. O meglio, la commenta e ne risente.

Kirk ha deciso di smetterla col bere. È il suo grande problema da una vita. L’album tratta ogni sorta di dipendenze: droghe, sesso, accumuli seriali.

Di sicuro riconoscere la propria schiavitù, ha spinto Windstein a vedere tutte le altre che la circondano. Siamo un mondo sempre più “addicted”. La società in cui viviamo produce bisogni consumistici, sublima il nostro desiderio carnale, ci fa sentire tristi, soli e inutili, un perfetto alveo per una nidiata di invertebrati che strisciano come lumaconi e lasciano scie di vomito, sborra e lacrime.

La dico pesante, come del resto è l’album di Kirk. Inizia la fase matura ma anche un po’ di mestiere, per lui. Il nuovo lavoro e i due successivi, Simmetry In Black del 2014 e The Serpents Only Lies del 2016 e in aggiunta il solista Dream In Motion, rappresentano il lato più intimo e autoriale di Windstein, che corre in parallelo all’esperienza con i Down (a cui si sottrae dal 2013 al 2019) e la precedente dei Kingdom Of Sorrow con Jamey Jasta degli Hatebreed

Sul piano compositivo, gli ultimi tre dischi dei Crowbar/Windstein presentano alcune percettibili novità.

Per prima cosa spicca il brano Amaranthine, da Simmetry In Black,

una composizione acustica dedicata alla moglie, ma tutt’altro che una tirata sdolcinata e retorica sull’amore coniugale. Non è la prima volta che Kirk gioca con questo tipo di contrasti tra musica e parole. Embracing Emptiness è una preghiera a Dio, ma suonata come un tumore in avanzato stato di saturazione.

“Amaranthine è una di quelle canzoni che è sì emotiva, ma anche inquietante e pesante” dice lui. “Parla di mia moglie. È dedicata a lei. Quella donna ha una grande influenza sulla mia vita. È la mia migliore amica e mi capisce. È meravigliosa e la amo, quindi quella canzone è per lei. La gente potrebbe dire: “Oh, l’ha scritto su sua moglie. Ma quanto è gay!” ma a me non importa. Ci tenevo sul serio a farlo e l’ho fatto a modo mio, sinceramente e pesantemente”.

Nell’arco di sette anni, Kirk ha smesso di bere e sebbene resti un nevrotico squisitamente disadattato e abbia divorziato da quella donna di cui parla con tanto trasporto in Amaranthine, ha continuato a comporre più e meglio di prima, curando come ha potuto il vortice di pece lenta che mulina dentro il suo petto fin da quando era un ragazzotto.

“Il mio problema con il bere e tutto il resto” dice lui, “era che ogni disco dei Crowbar, ogni singolo, persino ‘Lifesblood…’, che in realtà è stato registrato nel 2003, io scrivevo ogni riff completamente sobrio. Potrei aver bevuto della birra la sera prima, ma scrivevo riff alle due del pomeriggio seduto nella mia cucina, qualunque cosa fosse. Non ho mai scritto o suonato parti di chitarra o altro bevendo, ma la vita ha iniziato a sfuggirmi comunque di mano”.

“Passare attraverso un divorzio e avere problemi con il non poter vedere mia figlia e bla, bla, bla, essere estremamente oberato di lavoro, è davvero ciò che mi ha portato a svegliarmi e darmi una ripulita. Ero arrivato al punto di dovermi fare un drink perché non riuscivo a tener ferme le mani, tremavano e io dovevo fare il soundcheck, capisci?”

“Sono diventato dipendente dall’alcol. Al punto che non era più una situazione tanto normale. In passato, Phil diceva sempre: “Amico, hai quell’interruttore on/off”. Beh, a un certo punto l’interruttore si è rotto e ho superato tutto. Ora però va tutto bene con me e la mia ex moglie, io e mia figlia, la mia vita personale in questo momento è in ordine”

Siamo passati dalla canzone dedicata alla moglie, a una ex moglie che gli impedisce di vedere la figlia, ma sappiamo come vanno certe cose. E nonostante gli americani amino strutturare le vite dei musicisti come risalite a lieto fine dall’inferno di Babilonia, noi sappiamo bene che non c’è mai lieto fine in giro e un nuovo casino è sempre dietro l’angolo.

Lo sappiamo. Nella vita il solo lieto fine è quando uno muore. Siamo stati chiari?

EPILOGO – LA PERSEVERANZA

Crowbar è una band che non cambierà. Mentre molte persone desiderano l’evoluzione in una band, i Crowbar non sono una di quelle band ma per Kirk Windstein questo non è mai stato un problema.

Vi lascio con le sue parole sul cammino attraverso la perseveranza.

“Se ascolti Obedience Through Suffering e poi Symmetry in Black” dice, “ci sono molti cambiamenti ma praticamente, i Crowbar sono sempre i vecchi Crowbar. Suoniamo veloce, suoniamo lento. Abbiamo anche le melodie. La perseveranza vince. Le bande cadono come mosche. La merda che faceva fico due o tre anni fa, ora è stata dimenticata. Non siamo mai stati grandi, quindi è difficile scendere. Per me, voglio solo andare avanti”.

“Guardo un gruppo come i Melvins. Sono probabilmente uno dei migliori esempi di band a cui voglio assomigliare con i Crowbar. Continuano a costruire, hanno un fantastico seguito di culto. L’unica cassetta che Jimmy Bower aveva nella sua Toyota Celica scassata era, oltre alle lattine di Coca Cola Light vuote e mozziconi dappertutto, ‘Ozma’ da una parte e ‘Gluey Porch Treatments’ dall’altra. Avremo ascoltato quel nastro per mesi e mesi, andando a fare le prove prima come Slugs e poi chiamandoci Crowbar. I Melvins, capito? Non sono grandi, non sono un nome famoso ma sono una delle band più incredibili che abbia mai visto in vita mia”.

“Non abbiamo bisogno di essere il gusto del mese o di far soldi. Ci guadagniamo da vivere così e tanto basta; è una vita migliore di quella che fanno molte persone che si tengono strette lavori schifosi, quindi non abbiamo nulla di cui lamentarci”.