Sto scrivendo questo articolo durante una crisi sentimentale con la mia ragazza, quindi potete immaginare quanto io sia scosso di mio. Interessante scoprire, e prendiamolo come un esperimento psicanalitico, la reazione di una mente e un corpo provati da digiuno, insonnia e rabbia depressiva, al cospetto di uno dei film più atroci, insopportabilmente dolorosi della storia del cinema recente.Gardens Of The Night è difficile da trovare in rete e se non fosse stato per un bellissimo articolo di un amico che non è più su questa terra, non in forma di blogger almeno, Elvezio Sciallis, non ne avrei saputo che esisteva.
L’umanità ha avuto tutto il piacere di evitare e, chi non l’ha fatto di rimuovere, un film così diretto e infelice. C’è un fenomeno strano alla base della visione di un film terrorizzante. Lo si guarda sapendo di spaventarsi, inorridire o inquietarsi. Sono emozioni faticose, difficili, sgradevoli, ma esistono molti spettatori che non vedono l’ora di cimentarsi in qualcosa capace di suscitare questi stati d’animo in loro.
Non si ha davvero paura, non si prova un autentico orrore, ovvio. Si entra in una dimensione della paura e dell’orrore e se ne esce dopo aver spento la TV dicendosi: “è solo un film”.
Ma finché non si arriva a spingere il tasto rosso del telecomando e finché non si dice a se stessi che si tratta di un film, si resta immersi in queste emozioni logoranti, che desideriamo provare per qualche oscura ragione della mente.
Gardens Of The Night racconta una storia molto comune e per questo tra le più spaventevoli: una bambina viene rapita. Noi spettatori sappiamo subito chi è stato. Alcuni vicini dall’apparenza paciosa e amichevole.
I vicini introducono la bimba (e un altro bambino) in un giro di pedofilia, come carne viva, a uso e consumo di perversi ricconi.
Seguiamo la fase dell’adescamento, a opera di un mai così rassicurante Tom Arnold.
Sapete chi è?
Questo qui:
Forse lo ricorderete nella serie televisiva anni 90 Pappa e Ciccia, con John Goodman e Roseanne Barr. Tom era anche produttore oltre che attore.
La scelta del regista Damian Harris (e del responsabile di casting Shannon Makhanian) di dare a Tod quel ruolo, è stata geniale perché tutti gli spettatori che hanno familiarità con lui non possono evitare di sentirsi ingannati e traditi.
“Lo Zio Alex”, questo è il nome con cui si staziona nel cuore spaurito e distrutto di una piccola biondina di sette anni, è un tipo buffo, sorridente, amorevole a suo modo.
Accanto c’è un ragazzo più giovane dall’aria sudicia e scorbutica, Frank (Kevin Zegers). Lui la ragazzina non la chiama tesoro come fa lo zio Alex, ma “merdina!”.
Insieme a Leslie (Ryan Simpkins) questo è il nome della piccola, c’è un altro bimbo, di colore: Donnie (Jermaine Scooter Smith). I due chiedono di poter parlare con mamma e papà, ma la coppia di adulti esercita su di loro una sapiente opera manipolatoria che ha il fine ultimo la convinzione, un po’ come succede nelle fiabe, che mamma e papà non li volessero più e che quindi li abbiano abbandonati nel bosco della vita.
Ogni bambino, a sette anni, ha il terrore di non rivedere più i suoi genitori. Personalmente da piccolo ricordo di aver vissuto lunghi periodi angosciosi al pensiero che mi mollassero, come Hansel e Gretel o Pollicino e i suoi fratellini.
La mia ansia raggiungeva picchi di terrore quando papà tardava o addirittura dimenticava di venirmi a prendere a scuola.
Mio padre era infermiere e a volte lo accompagnavo quando andava in qualche casa per medicare una vecchietta o che so. Mi lasciava in auto e magari non tornava per un’ora, se la medicazione risultava complicata. Avevo tutto il tempo di piangere e disperarmi prima che tornasse.
Parlo di quello che mi succedeva per tentare solo di sguincio di entrare nell’ordine dell’idea di cosa possa provare un bambino di sette anni, quando la peggiore di ogni paura si realizza: papà e la mamma non torneranno. E non è tutto, loro non ti volevano!
Zio Alex non fa mancare nulla ai due bambini: libri, giochi, cibo fritto, televisione. Non ci sono più le regole ferree di quando si stava a casa. I piccoli possono fare ciò che desiderano, purché siano buoni, purché non piangano e seguano fiduciosamente tutto ciò che Alex e Frank o “Ratboy” gli dicano di fare.
E succede ogni tanto che i due adulti conducano Leslie o Donnie in qualche motel, dove uno sconosciuto gli chiede di fare strane cose. Può capita pure che Leslie inizi a piangere e che l’adulto, il quale ha pagato e vuole divertirsi, abbia noia di quelle lacrime e magari diventi scontroso e violento.
Può succedere che lo zio Alex piombi nella stanza e lo uccida davanti a lei.
Non voglio indugiare in questa parte del film. Sono genitore e per me è letteralmente insostenibile vedere la galleria di mostri che masticano via l’innocenza di quei ragazzini. Ma non posso uscirne dicendo “è solo un film” perché so che è reale, fedele a come vanno le cose là fuori.
Il Donnie adulto, o meglio l’attore che interpreta il Donnie adulto, Evan Ross (figlio di Diana Ross) ha ammesso di essere rimasto sconvolto dalla scoperta di quanti ragazzini orfani si aggirino per gli Stati Unit. Sono ex vittime di pedofili, rapiti da piccoli e mollati in strada quando sono diventati troppo grandi per andar bene ai clienti di quel tipo di mercato.
A dodici anni diventano praticamente dei tossici prostituti, dormono sotto i ponti e questo è tutto ciò che gli resta da vivere.
Famiglia è qualcuno che tiene gli occhi aperti per te quando tu vuoi chiuderli.
Questa è una delle battute più significative che dice la piccola Leslie. Si riferisce ovviamente a Donnie, che una volta adulto, dopo tutto ciò che hanno passato assieme, è diventato suo partner indivisibile nella non vita che conducono.
Leslie però non lo sta dicendo a lui, né a un cliente con cui racimola i soldi per un cheesburger e una dose. Lo sta dicendo a una ragazzina che si trova in un centro di riabilitazione. Vuole convincerla che le persone da cui lei la porterebbe, siano quelli che guarderanno al posto suo, una famiglia.
Leslie infatti è diventata come lo zio Alex. Adesca ragazzine e le mette in mano a quei pedo-papponi. Viene pagata molto bene e quindi non deve prostituirsi.
Donnie vorrebbe che loro continuassero a vivere da barboni, elemosinando o battendo di tanto in tanto, ma Leslie non vuole quello. Preferisce conquistare una nuova esistenza, non importa come, e per farlo ha bisogno di molti soldi.
I due si mollano e ve lo anticipo, non si ritroveranno più.
Guadagnarsi da vivere portando dagli orchi delle bambine come quella innocente che fu lei, non è facile da sopportare, anche se là sotto credi di non sentire più nulla. Così Leslie a un certo punto la smette e fugge via.
Nel centro di riabilitazione, lo psicologo Michael (John Malkovich) la convince a tornare dai suoi genitori. Al contrario di quello che pensa lei e quindi delle bugie dello zio Alex, loro sono vivi e hanno mai smesso di cercarla.
Il dottor Michael scopre l’identità della ragazza e la fa riaccompagnare a casa.
“Ormai è ora che torni a casa, Leslie”
Leslie ci si fa portare, riabbraccia madre e padre e scopre che è proprio come dice Michael. I suoi l’amano e speravano di riaverla. Ma dopo la sua scomparsa non si sono fermati ad attenderla e hanno fatto altri due figli, crescendoli con l’idea che c’era una sorella più grande… in Paradiso.
Per Leslie è sufficiente a capire che non c’è più posto per lei in quella casa. Dice la cosa più straziante che possiate sentire, spiegando cosa frulla in testa di una ex-bambina violentata dai pedofili, ex-prostituta e tossica: “non mi rivorranno più, così. Ho fatto troppe cose. Non mi rivorranno così corrotta”
Torna in strada e non sappiamo più nulla di lei.
Si suiciderà?
Farà la vita?
Non importa.
Questo film non racconta fiabe, anche se usa uno sfondo letterario per ragazzi al fine di temperare una vicenda troppo realistica da mandar giù, con un doppio-fondo fantastico.
Leslie e Donnie da piccoli si rifugiavano nel mondo di Mowgli di Kipling. Il libro della giungla. Il cucciolo d’uomo che finisce in mezzo ai lupi e cresce nella foresta, tra serpenti e pantere, orsi e scimmie. E a un certo punto quel bimbo cresce e un giorno torna tra gli uomini.
Leslie ci prova ma decide presto di rifugiarsi nelle coltri scure e umide della foresta. La giungla piena di predatori, serpi, fauci letali, come dice al fratellino, quando le domanda come mai non era in Paradiso, come mai era tornata.
“Ero in una foresta, c’erano dei mostri lì…”
Il padre la interrompe subito, non vuole che terrorizzi il figlio, tenuto all’oscuro di tutto quell’orrore che alla sua stessa età, Leslie aveva dovuto scoprire e accettare da sola, lontana dall’abbraccio forte e sicuro del padre e lo sguardo premuroso della madre.
Ma nella foresta, come dice Leslie a Donnie, “nessuno può raggiungerci, siamo al sicuro, nessuno può farci del male”
Lontano dagli uomini.