Si comincia con un giovane figlio che torna prodigamente a casa, circondato da vitelli grassi, è assiepato sul rimorchio di un camion trasportatore che, dalla Svizzera, dove lui va in collegio, lo scorta fino a casa. Il ragazzo avrebbe potuto concedersi un treno in prima classe, ma non ama i privilegi e si riconosce nella semplicità dei campi, nei vagiti che arrivano dai pascoli. E così meglio fare chilometri circondato dai vitelli, da cui si lascia leccare le mani, sorridendo e accarezzandoli.
Quando però arriva in città, il suo gaudio sparisce, resta la musica ingenua e squillante di Morricone e i musi lappanti degli ignari vitelli mentre per lui, Enrico, così si chiama, compare l’angoscia e la tristezza per la fine che faranno: sono quasi giunti al mattatoio pubblico.
Il mattatoio si trova proprio vicino a dove abita Enrico, che infine scende con i vitelli, raccoglie la sua borsa, si ferma un attimo a guardare il giovane manzo, ex-compagno di viaggio, che sparisce nel capannone magico da cui uscirà sotto forma di bistecche e hamburger.
Enrico sente ancora la grossa lingua del vitello tra le dita. Chissà, forse anche l’animale intuisce che non uscirà più vivo da lì.
Così come lui, Enrico, figlio che torna a casa per salutare un’ultima volta il padre morto, e che avverte, in quel suo arrivo sanguinario e tremendo, una sorta di malinconica preveggenza.
Sigla!
Enrico è l’ultimo discendente della famigerata famiglia Merlo. Pare aleggi una maledizione sulla casata, una roba contadina vecchia di secoli che porta inesorabilmente ogni dieci anni un Merlo nella tomba, in circostanze infauste e violente.
Il giovane intuisce presto che sulla morte di papà qualcosa non torna. Al suo arrivo sorprende subito il fratello Cesare e la cugina Verde mentre furtivi iniettano una siringa di qualcosa nel cadavere del vecchio genitore.
Poco dopo il ragazzo scopre che la servitù è stata tutta licenziata giorni prima del decesso del vecchio Merlo e che per giunta, la donna di servizio più fidata e benvoluta, Italia, è stata giudicata pazza e ricoverata in manicomio.
Lui va subito a trovarla e cerca di capire cosa stia succedendo, ma lei parla per metafore e lascia intuire senza dir nulla di chiaro che, è vero, c’è stato qualcosa di tragico e terribile intorno alla morte del signor Merlo ma non si spinge oltre.
Enrico quindi, aiutato da un poliziotto che ronza intorno alla famiglia e sospetta qualcosa di losco pure lui, inizia un’indagine tra i parenti. Per primo domanda a Verde cosa fosse quell’iniezione sul corpo di papà.
“Era nel testamento” dice lei, “voleva essere sicuro di non risvegliarsi nella tomba”.
La risposta non lo convince. Del resto basta ripensare al funerale per capire di che troiaio sia Casa Merlo.
Nella scena dell’inumazione del padre, il regista Samperi rappresenta, a ritmo da sclero progressive rock morriconiano, una processione di volti torvi e annoiati che sfilano davanti al culo della bara per l’estremo saluto: un covo parentale di malie, indifferenza e di avidità.
C’è un aspetto che mi seduce in Uccidete il vitello grasso e arrostitelo ed è la sua tipologia crossover: si tratta di un film alla Chabrol, con il giallo come pretesto per sollevare il merdaio della classe borghese, ma in più c’è la rabbia anarchica tipica del primo Bellocchio in aggiunta a un ’atmosfera lugubre e malata da gotico italiano. Ganzissimo, non trovate?
Del resto, se metti insieme la musica minacciosa e ossessiva di Morricone, l’atmosfera spiritata dell’abitazione dei Merlo, con la leggenda di morte che vi grava, e i monologhi di poetica follia dei fantasmi resuscitati (la madre) e viventi intombati in anticipo (la serva Italia), cavolo, è impossibile non scivolare in una sorta di sacca ansiogena e voluttuosa di certi film di Mario Bava e Giorgio Ferroni.
Non manca davvero nulla, c’è persino una strega. Verde (interpretata da Marilù Tolo) inquieta lo spettatore e allo stesso tempo lo seduce verso atmosfere salmastre. Lei, insieme alla Asa/Barbara Steele di Bava, la Clara Calamai di Visconti/Argento, completa la triade delle più sinistre megere della storia del nostro cinema.
Verde è la salda comprimaria delle nefandezze di Cesare (Jean Sorel). Lui è il classico figlio shakespeariano avido e arrampicatore, che strozzando e strappando tutto quello che gli si para davanti sale al trono. È pronto a istigare la madre nevrotica a suicidarsi e spingere un po’ prima del tempo il vecchio padre scialacquatore nella tomba. Non è una cosa sicura ma Enrico di questo è convinto fino al midollo. Papà l’ha ammazzato lui. Cesare è ormai a capo dell’azienda e prospera grazie alla determinazione e l’intuito ferino del vero conquistatore capitalistico che non teme di perseguire i suoi scopi corrompendo e barando, massacrando e derubando.
Il personaggio di Enrico, ribelle, idealista, giudicante e anarco-vendicatore, più che dell’Alessandro di I pugni in tasca, è parente del Michele Ardengo degli Indifferenti di Moravia, un giovane arrabbiato ma impotente che dopo aver tentato l’impresa di fermare i piani del fratello, finisce per sbriciolarsi clamorosamente in una serie di infantili illusioni di rinascita, proprio dove non c’è che cannibalismo e natura morta.
Enrico si lascia vincere dalle moine sensuali e continenti della cugina Verde, sprofondando nella tradizione genetica depravata e incestuosa di famiglia, e intanto spera di trasformare la cagione atavica in una rivoluzione contro se stessa.
“Fuggiremo io e te” dice a Verde, “ci faremo costruire una casa sugli scogli, tutta di vetro e una terrazza dalla quale ci potremo buttare in acqua…” Chiaro che un tipico vaneggiamento non contraddice il bisogno di rifiuto del benessere di Enrico, conferma invece la mentalità bambina, orfana e in cerca di una mamma a cui poter tornare a devolvere il cuore e regalare fantasie a occhi aperti. “Io e te mammina, solo noi due…”
Tra lui e Verde, a tratti affiora anche quel tipico gioco masochistico dei film di Samperi, dove solitamente il maschio finisce per spingere la donna alle peggiori iniquità. In questo caso però Verde è un peso massimo di bassezze e manipolazioni e l’ingenuo che soccombe è proprio il giovane Enrico.
Verde è una carceriera affabile e spietata. “Volto stregato”, come lo definisce la mamma di Enrico nei nastri.
Nastri che lui ritrova e ascolta, circondandosi di fotografie e oggetti materni, in un disperato tentativo di rievocare lo spirito materno, un po’ come il protagonista Jamesiano del racconto L’altare dei morti, trasposto qualche anno più avanti al cinema da Truffaut, in quella camera dello stesso colore/nome della protagonista del film di Samperi.
Verde, esatto. La camera verde.
Verde finisce per intuire il bisogno puberale del cugino e da perfetta concubina incestuosa, pronta a giocare di pesante freudismo, veste i panni della madre morta di Enrico e offre a lui un seno per la poppata. E lui sugge il veleno lattiginoso stabilendo un rapporto di fiducia letale con la peggiore delle principesse rettilee.
Non c’è nessuna festa per il figliolo ritornato dal collegio, né bestiame immolato per il convivio funebre. Tutto è statico, smorto, nella grande casa di famiglia. E lì dentro, nonostante l’apparenza del benessere, si è conosciuta la fame, la disperazione economica.
Gli anni della fame sono più impressi nella mente di Cesare, il primogenito. Enrico è troppo piccolo per ricordarsene, ma lui, così come la taciturna Verde, rammenta bene gli anni neri della disgrazia e non vuol più viverli a qualsiasi costo.
C’è una canzone che ancora aleggia nella casa, una vecchia stupida canzone che parla di una madre che si sente rinfacciare dalla figlioletta di acquistare profumi per sé e mai balocchi per lei. Quando poi la bimba si ammala e agonizza, la donna pentita le circonda il letto di giocattoli; la figlia ringrazia con un fil di voce e poi muore.
Questa strana canzone, che si intitola Balocchi e profumi, richiama a un tempo dove si pestava pesante sul pietismo nella musica popolare, tra barcaroli sconsolati, pupi morti e genitori impazziti di dolore.
Nei nastri che Enrico ascolta, la sua voce di bambino chiede alla mamma di cantargliela ancora una volta, quella canzone. Lei si lagna dicendo che l’ha imparata senza neanche volerlo, a forza di sentirla in radio (probabilmente badando al tempo del film, nella versione riportata al successo da Vittorio De Sica in Gran Varietà del 1953) ma se per Enrico quel brano è un ricordo dolce della sua mamma, la cugina Verde, irrompe nel suo connubio funebre e improvvisa una reinterpretazione di quel pezzo, incarnando ancora la figura materna e allo stesso tempo trascendendo la dolcezza e la fragilità della voce nel nastro in una veemenza beffarda e sprezzante di chi ha atteso a lungo invano i balocchi e alla fine ha dovuto uccidere la mamma e uscire a comprarseli da sé.
Enrico risponde all’ostentato gallismo del fratello Cesare, che ammazza e scopa tutto quello che vede, mostrando la propria fragilità e nausea femminea (“somiglia sempre più a nostra madre” dice a Verde con preoccupazione).
Il fratellone prova con rabbia e sfottò a coinvolgere Enrico nel suo festino da maschio carnivoro, prima offrendogli un fucile /nerchia con cui provarne gli istinti leonini, e poi dandogli accesso all’harem personale.
Quando però è chiaro che il figliol prodigo ha deciso di far tutto per vendicare suo padre ucciso dalla coppia diabolica, inabissando così la ricchezza ritrovata dalla famiglia Merlo con inganno, sarà Verde, in una trasformazione zoofila da autentica Circe, a rendere Enrico il vitello grasso destinato al sacrificio di prosperità.
Verde gli leggerà proprio la parabola del figliol prodigo sul letto di morte, al povero cuginetto illuso. Il ragazzo infatti si becca una polmonite ma i parenti non gli permettono le cure finché non avrà confessato dove nasconde il documento compromettente che vuol consegnare al suo amico poliziotto.
Enrico non cede e si spegne a poco a poco. Se ne andrà soffiando l’ultimo respiro nel suo vecchio flauto che da bimbo suonava alla mamma. Verde glielo mette davanti alla bocca, come già il seno, in un gesto in apparenza folle, ma che sembra anche dolce, guidato dalla sua esperienza di levatrice dei morti e dei dannati.