Avete mai sentito parlare di RocKabul? Tratta di metal ma praticato in una terra ostile a qualunque forma di modernità occidentale. Basato sulla storia dei District Unknow, prima band heavy metal in Afghanistan, il documentario è coraggioso e curioso, soprattutto visto che si tratta di un’opera di un regista straniero, australiano per la precisione. Ma il film di Travis Beard non poteva non conquistarmi vista la carica di energia contenuta nelle esibizioni live di questi ragazzi di Kabul.
Ma chi sono i District Unknow?
Loro nel docu-film si definiscono così:
“Siamo l’unica fottuta band metal in Afghanistan, usiamo la nostra musica e vogliamo solo suonare davanti a migliaia di ragazzi e ragazze e stare insieme”
Fondati nel 2009, hanno cominciato in maniera assolutamente clandestina a fare concerti, all’inizio suonando per un pubblico straniero; e suonavano mascherati come i Portal, ma a differenza della schiera di gruppi incappucciati e mascherati per fare scena, loro si coprivano il volto per non essere riconosciuti e quindi passare dei guai seri.
L’importanza che il gruppo ha assunto per la rivoluzione musicale afghana è senza pari e i District Unknown, giovani animati da sana voglia di far casino, hanno saputo essere artefici del proprio destino, anche quando questo si è rivelato davvero arduo e rischiosissimo per le loro vite e quelle di amici e famigliari.
“Se non possiamo suonare, allora è come se fossimo morti”
Ecco cosa dicono al regista Beard, e non ho dubbi che sia davvero così vista la determinazione con cui hanno lottato per ottenere la libertà di esibirsi.
I District Unknow sono stati fondati da due fratelli e due cugini, appassionati di metal e disposti a sfidare il mondo intero pur di portare il loro messaggio di libertà sul palco.
Travis Beard li incontrò a Kabul nel 2009 e li aiutò in ogni modo, arrivando a mettere a disposizione casa sua per le loro prove, cosa che rappresentava e rappresenta ancora un crimine in un Paese comandato con pugno di ferro dai talebani.
Il metal assume, nella musica dei District Unknown, il canale ideale per discostarsi da una realtà fatta di guerra, povertà e assolutismo. E in un contesto così ostile riguadagna il potenziale sovversivo e rivoluzionario che in Europa e in America ha espresso solo per brevi periodi e in modo piuttosto blando.
Il metal rende i District Unknown così vicini a noi da farli apparire uno di quei gruppi che potremmo trovare nel club dietro casa, nonostante lo sfondo culturale sia lontano anni luce dal nostro.
Beard registrò una loro sessione di prove (che definisce spaventosa!) e li aiutò con consigli e supporto, vedendoli migliorare velocemente fino a raggiungere un livello che gli permise di esibirsi decentemente davanti a un pubblico.
Nel 2011 Travis Beard concorse a organizzare un festival musicale a Kabul, dove finalmente gli Unknown District si ritrovarono davanti ad un pubblico afghano di giovani entusiasti, suonando senza maschere.
Dopo diversi cambi di formazione, la band ha incontrato, nel 2012, i due elementi che ne decreteranno lo sviluppo artistico più determinante, traghettandoli da un suono influenzato in origine dal thrash e dal doom, in una direzione più psichedelica, trasformazione che i District Unknow stavano già cercando da tempo in verità, ma che arrivò ad essere più visibile proprio grazie al lavoro creativo dei nuovi elementi.
I due innesti che hanno permesso questo passo decisivo verso la maturazione del gruppo sono l’iconico cantante Yusef “Yo Khalifa” Ahmad Shah e Sulleiman Omar, chitarrista e tastierista.
Sempre dal 2012 i ragazzi sono stati notati dai media occidentali, divenendo di fatto i volti della ribellione giovanile contro la censura talebana in Afghanistan.
Due anni dopo, nel 2014, è uscito il loro primo lavoro in studio, intitolato Anatomy of a 24 Hour Lifetime.
“In Afghanistan la musica heavy metal non è socialmente accettata come in Europa e se questo genere musicale rappresenta già di per sé una rottura con la società, da noi la contrapposizione è ancora più forte” Yusef Ahmad Shah
“Molti ragazzi che ci seguono non sanno nemmeno cosa sia l’heavy metal” assicura il frontman, “magari non lo amano nemmeno troppo, ma la possibilità di poter gridare e di ballare a Kabul è qualcosa che va ben oltre il divertimento, è libera espressione. I leader tribali proibiscono alle ragazzine di andare a scuola, figurati se accettano la nostra musica. In India abbiamo suonato davanti a migliaia di persone, ed è stata un’esperienza incredibile poterlo fare così liberamente”.
Il loro singolo più famoso si intitola 64, come il numero di vittime dell’attentato di cui parla il testo, ed è uscito nel 2016. Il commento al video scritto dalla band dice: “un canto funebre scritto per commemorare le 64 persone che sono morte il 13 aprile nell’attacco suicida del 2016 a Kabul, Afghanistan. Riposino in pace.”.
Nonostante il gruppo abbia dovuto sciogliersi nel 2019, Yusef Ahmad Shah e Sulleiman Omar hanno continuato a portare il loro messaggio in giro per il mondo, fondando una nuova band, gli Afrit, dallo stile ancora più psichedelico.
Tutti i membri della band sono dovuti espatriare dopo aver subito persecuzioni di ogni tipo, in alcuni casi addirittura il carcere.