I primi tre o quattro minuti di Hardware sono basati sui miei sogni, uno dello stesso ciclo di sogni. Ho sognato a lungo l’uomo che cammina, e in quel sogno particolare va in giro con cappello e cappotto nella terra desolata, alla ricerca di qualcosa, ma non so cosa. Poi, proprio nel bel mezzo del sogno, inizia a scavare nella sabbia e all’improvviso dissotterra questo teschio di metallo, con negli occhi l’obiettivo di una fotocamera. Non so cosa sia successo dopo, ma i primi minuti di Hardware sono stati sicuramente un sogno. E c’erano molti altri sogni di quello stesso periodo sul medesimo ragazzo con cappello e cappotto che poi sono finiti in Dust Devil. Penso che fosse il simbolo di una sorta di paura, di una sorta di anarchia invadente, in una certa misura… di caos.
Hardware è il cyberpunk. Questa è la prima banalità. La seconda è che si tratta di un film heavy metal. Tutto vero, ma già l’hanno detto in troppi. Tanto vale, nonostante il titolo del pezzo, contestare queste due credenze.
Per prima cosa Hardware di Richard Stanley, grande promessa non mantenuta del cinema horror indipendente di inizio anni 90, poteva sembrare un tripudio al nuovo genere letterario di quegli anni: il cyberpunk; (l’altro era lo splatterpunk e su Sdangher ne abbiamo scritto parecchio).
Poteva sembrare cyberpunk ma non lo era.
Sì, d’accordo: musica industrial heavy, paesaggio post-apocalittico, arti meccanici impiantati su corpi umani, robot assassini e la realizzazione di tutte le peggiori eco-fantasie anni 70, presenti. Ci mancano solo le barrette di Soilent Green.
Ma Hardware è un film gotico. Leggete cosa dice Stanley in proposito.
Sono un fan di Mario Bava, Dario Argento, Sergio Leone, c’è così tanta energia e inventiva in quei film. Hardware fa pensare a Blade Runner e Terminator per via del robot assassino e della cultura avveneristica, ma le mie suggestioni credo siano più antiche. Mi sono divertito a infarcire il film di citazioni cinematografiche. Alcune evidenti, come il personaggio del vicino guardone che richiama Peeping Tom e la scena della doccia ricorda Psycho. Ma altre sono più sottili e solo i fan del genere potranno coglierle. Per esempio, la sequenza in cui l’eroina cade dalla vetrata è un omaggio a Suspiria.
Capite?
Richard Stanley non pensava a Blade Runner o Terminator (che ha criticato molto negli anni). Lui era il tipico autore dei primi anni 90: amante del cinema d’autore e di genere insieme, aveva come modello Tarkovsky, Wenders e il duo Powell-Pressburger, ma nel suo phanteon c’era anche il cinema horror italiano di Dario Argento e Mario Bava.
Soprattutto questo è stato fondamentale per la realizzazione il suo film. Guardate la fotografia usata per dare spessore agli interni. Hardware è infatti quasi tutto girato in uno studio, con attori capaci di essere credibili in un contesto teatrale, così hanno scritto in passato i critici; ma se le cose sono andate tanto bene con un budget davvero miserrimo, che era poco meno di un milione di dollari per nove settimane di riprese, il merito è di Stanley e del suo direttore della fotografia Steven Chivers.
Di Chivers si sono praticamente perse le tracce nel 2017, anche se la sua carriera dopo Dust Devil e Highlander 3 si è incagliata solo nel settore dei videoclip.
Dal videoclip invece arrivava Richard Stanley alla fine degli anni 80: Fields Of The Nephilim, Public Image Ltd., per dire un paio di nomi.
Prima di proseguire però vorrei dire due specifiche parole su Stanley. Già nel 1993 si faceva il suo nome per la regia di Die Hard 3 ma è nel 1996 che stava per diventare un “registone mainstream” di genere (alla Guillermo Del Toro) ma dopo aver litigato con Val Kilmer, e a causa di una brutta meteorologia, è stato licenziato a pedate dal giro grosso.
Ha trascorso circa vent’anni a scrivere piccole sceneggiature, dirigere documentari elitari, sballarsi di chissà quali droghe e fare la guida turistica a Monségur.
È tornato di recente con The Color Out Of Space, convincendo la critica, ma a causa di una brutta storia di violenza domestica che ha coinvolto la sua sceneggiatrice e compagna Scarlett Amaris, sembra che il ritorno al cinema di Stanley sia già finito. La casa di produzione infatti l’ha scaricato, nonostante lui abbia risposto con una denuncia per diffamazione alla sua ex, ma è un bruuutto momento se sei maschio, rivesti una posizione di maggior potere della donna che dice di aver subito violenze/molestie/sfioramenti sospetti.
Torniamo ora ad Hardware. Oltre al grande lavoro del regista e del direttore della fotografia, va citato Bob Keene e la sua squadra di effettisti. Se il film funziona è anche merito della resa potente del Mark 13. A vederlo dagli schizzi ideati dal regista e da altri visual designer, sembrava un brutto incrocio tra il Numero5 di Corto Circuito e il T800 all’ultimo stadio, e sebbene il risultato finale non sia tanto lontano da questo identikitm c’è poco da ridere quando vediamo il mostro di metallo tirar fuori degli aghi terribili dalle dita (Freddy Krueger) e un fallo pistonato con cui vorrebbe fare la festa a Jill (i Sex Pistols presi alla lettera).
Torniamo ad Hardware. Dicevamo che è essenzialmente un film gotico in cui il maniaco che assedia la bella Jill (bella davvero cazzo, Stacey Travis), è un robot. Oltre lui nel mondo ostile che circonda l’appartamento della scultrice non affermata e che vive di sussidio, c’è un ciccione spione che le fa telefonate oscene e la fotografa mentre lei scopa con il suo fidanzato. Fuori dall’appartamento da cui Jill non si sogna nemmeno di uscire, c’è il mondo incandescente, radioattivo e pieno di predoni stuproni. Il mostro metallico però trasformerà il covo iper-protetto della ragazza in un campo di battaglia terribile.
L’altra questione da contestare che dicevamo all’inizio è l’idea che Hardware sia un film metallicissimo. In Italiano è uscito persino con il sottotitolo “Metallo letale”. Lo è quanto possono esserlo Robocop e Aliens 2, intendiamoci. Sì, ci sono diversi ospiti amati dal “pubblico borchio”: tipo Lemmy che fa il tassista nautico e Iggy Pop nella parte invisibile di uno speaker radiofonico dal cazzo bionico, ma si tratta di gadget per appassionati.
Il film ha una colonna sonora chiassosa che spazia tra Ministry, Public Image, Fields Of The Nephilim, Iggy Pop, Motorhead, Simon Boswell, e la musica da meditazione orientale con sitar e lo Stabat Mater di Rossini.
C’è di tutto e sovente la scelta è ammiccante e ironica. Non si tende mai a usare le canzoni per dare maggiore enfasi al racconto. È lo stesso discorso che riguarda i video che passano sulla tele che Jill ogni tanto guarda invece di dormire. Sono cose orribili, chiassose, lascive e riflessi di un mondo ormai completamente perso nella propria deviante perversità. Quindi in un certo senso, Stanley, scegliendo immagini e suoni violenti non vuole mostrarne la poesia, ma usarli come termometri del decadimento umano generale. Un po’ il discorso che faceva Tolstoj sull’arte che è ormai perversa perché c’è un pubblico perverso in grado di accoglierla e trarne piacere deviato.
Hardware comunque è sempre piaciuto tanto alla critica, che si è divertita a vederci anti-americanismo, misoginia e anarchismo filo-cinese. Nella realtà è un film reazionario, almeno secondo l’intenzione del regista, autore della sceneggiatura. Dice ancora Stanley:
Mi piacerebbe vedere un sequel/riavvio. Soprattutto perché l’idea è ancora attuale. L’uso dei droni come strumento della politica statale e del controllo autoritario sulle persone è ancora super forte. Mi piacerebbe molto vedere un film cyborg in cui le creature non sono fuori controllo o cercano di conquistare il mondo come Skynet, ma in realtà sono perfettamente funzionanti e agiscono come un’estensione della politica statale come dovrebbero fare. È qualcosa che non ho davvero visto in un film, che mi piacerebbe ancora provare ad affrontare. Un piccolo film horror di fantascienza a basso budget come Hardware guadagna punti semplicemente perché la sua pura negatività lo porta a fare ipotesi migliori, come la sorveglianza totale, le oscene chiamate Skype e la marijuana legalizzata monopolio del governo, per non parlare del cataclismatico impoverimento dell’ambiente e del dispiegamento di droni killer come strumento di politica statale autoritaria .
Richard Stanley a riguardo ha sempre ammesso la propria tecno-fobia, la sfiducia nella scienza e nel progresso concepito come qualcosa di infinito e inarrestabile.
Inoltre il regista ha manifestato in più tempi la sua preoccupazione per l’aumento demografico umano.
In Hardware si parla di un decreto che vieta la procreazione umana, la gente gira con delle maschere anti-gas e la cosa di questi tempi torna piuttosto attuale, non vi pare?
Siamo stati due anni in vacanza pandemica mentre ora l’ordine del giorno è una nuova Guerra che magari non sarà così fredda come l’altra, per quanto gli scienziati (quelli non al soldo delle multinazionali) continuino a ribadire che il tempo di invertire la rotta al progressivo e inevitabile eco-malus sia ormai davvero finito e che si debba sperare in un miracolo.
Hardware, che sembrava un caciarone fanta-horror un po’ datato fino al 2010, adesso pare più uno sguardo ottimistico sul futuro.
Non sono i robot il problema dell’umanità. Non credo che avremo mai difficoltà con una macchina da guerra antropomorfizzata ma tutto il devasto suggerito dalla luce rossa alle finestre dell’appartamento di Jill, le fronti sempre imperlate dei protagonisti e la vita di merda che uno come Mo, interpretato dalla futura star TV Dylan McDermott, deve fare per sopravvivere, a farci paura sul serio, oggi.
Chiudiamo lasciando ancora una volta la parola a Richard Stanley:
Io ho sempre creduto che i film horror siano l’inconscio spostato, anche a livello razziale, della massa. Il pubblico cerca qualcosa che rifletta le sue fantasie e i suoi sogni, incubi compresi. Noi siamo i dream doctors della gente, il nostro compito è scoprire che cosa preoccupa di più le persone. Per quanto mi riguarda, uno degli incubi più spaventosi è il crescente dominio delle macchine, associato al problema della diffusa militarizzazione. Io sono sono terrorizzato dal fatto che un giorno il computer possa riprodurre perfettamente ogni aspetto della vita reale e che, guardando un monitor, non si riesca più a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Senza le stampelle tecnologiche la gente non riesce più ad affrontare la vita, e questa dipendenza totale mi sconcerta. È finito il tempo della fiducia nella scienza e nel progresso. Così come viene intesa, la tecnologia ci rende solo più deboli, non porta da nessuna parte e genera mostri. Sarà perché vengo dal Sudafrica, ma l’America mi sembra molto più in pericolo di quanto credessi. È credo che come autori di horror abbiamo sostituito la figura dello sciamano nelle antiche tribù. Ma siamo stati buttati fuori dal sistema, nella nostra società siamo i paria che nessuno vuole toccare.
Queste consolanti parole, Stanley le riferiva al pubblico italiano del Dylan Dog Horror Fest nel 1993.