L’invasione degli ultracorpi di Jack Finney – Una metafora che muta e sopravvive nei decenni

Quando Wilma, la cugina di Bettie Driscoll dice che suo zio Ira non è suo zio Ira, le crediamo all’istante. Stephen King

Leggendo per la prima volta, a 43 anni, il romanzo di Jack Finney, L’invasione degli Ultracorpi (uscito in Italia per diverso tempo con il titolo Gli invasati) mi è venuto in mente quello che rispose David Cronenberg a Enrico Ghezzi a proposito di alcuni autori di fantascienza imparentabili con i suoi film:

“ho una certa idiosincrasia per la prosa degli autori di genere. Avranno grandi idee e magari saranno di certo affini ai miei territori creativi, ma scrivono per lo più maluccio e questo io non riesco proprio a sopportarlo, quindi non li leggo e non so di cosa tu stia parlando esattamente quando mi nomini Philip K. Dick o Jack Finney”

Il libro di Jack Finney ha una prosa sciatta, elementare, da sceneggiatura cinematografica. Il protagonista-narratore, il dottor Miles Bennell è uno che, come si dice dalle mie parti, ne ha pochi spicci e pochi da spicciare, vale a dire che è un uomo concreto e non molto in confidenza con le sue profondità. Scrive di ciò che vede e se deve commentare, esprime le cose come un tipo qualsiasi, nonostante sia la voce narrante di un romanzo.

Volete un esempio?

“Rivelazione, una parola che indica il complesso di pensieri che giungono alla mente dell’uomo simultaneamente, con la chiarezza della verità assoluta. Stando immobile al fianco di Becky, con la bocca socchiusa, la faccia rivolta in alto a fissare lo spettacolo incredibile nel cielo notturno, appresi mille cose che richiederebbero troppo tempo per essere spiegate, ed altre ancora che non riuscirei a spiegare neanche in tutto il resto della mia vita”.

Se Finney avesse scelto un altro personaggio del suo romanzo come io narrante, per esempio, Jack Belicec, scrittore di professione, magari il resoconto sarebbe stato molto più tetro e denso di malumori, considerazioni sull’animo umano e di dubbi su ciò che sia giusto o sbagliato; su quello che abbiamo il diritto di fare, come razza umana e quello che io, individuo ho il diritto di scegliere in nome della razza a cui appartengo.

Ma è il giovane e scoglionato Miles Bennell a parlare e lui non ha esitazioni di sorta: gli esseri venuti dallo spazio vogliono duplicarci e prendere il nostro posto? Vivranno sulla terra in uno stato di equilibrio sconosciuto ai veri umani? Saranno privi di emozioni come l’amore e si estingueranno nel giro di pochi anni? Dobbiamo fermarli. Punto.

La cosa buffa, e che secondo me Finney avrebbe potuto sviluppare un po’ di più, è che Miles, mentre gli si para davanti un quadro spaventosissimo su questa invasione e duplicazione e sostituzione a opera dei rinomati baccelloni, è parimenti terrorizzato dall’idea che la bella Becky Driscoll si innamori di lui e che lui si innamori di lei, finendo ancora una volta, dato che è reduce da una tremenda sentimentale esperienza culminata in un logorante divorzio, nella trappola del matrimonio!

Allora, il romanzo è del 1953 e in Italia è arrivato solo tre anni dopo, nella collana Urania. Il 1956, anno di nascita di mia madre, quattordici anni prima che il divorzio fosse introdotto legalmente in Italia. Quindi c’è da immaginarsi la sensazione di quei lettori italiani, appartenenti a un mondo ancora così indietro (guardate il film di Pietro Germi del 1961) per capire quanto gli Stati Uniti fossero un territorio extra-sensoriale per i lettori italiani. Ma va beh. Miles ha quasi più paura di dormire nello stesso letto di Becky che di scendere in cantina e scovare i baccelli all’opera.

Il romanzo di Jack Finney sul piano artistico-letterario è robetta, ma ha una sua indiscutibile potenza di fondo. A parte il ritmo c’è un’idea che è buona davvero, al punto che ancora oggi può essere metaforizzata con quello che si vuole.

Si citano 1984 di Orwell e Brave New World di Huxley, ma L’invasione degli Ultracorpi è stato profetico il doppio sul mondo di ieri, di oggi e di quando vorrete. Si adatta via via nel tempo. Basta vedere alcune delle migliori trasposizioni filmiche: funzionava come metafora della minaccia comunista (il film del 1956 – “Un mondo dove tutti sono uguali? Povera umanità…” cit. da L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel 1956); si adatta alla grande come spunto per la paranoia fatta cultura degli anni 70 (Terrore dallo spazio profondo di Phil Kaufman); andava bene persino con lo straniamento della generazione X (Ultracorpi – L’invasione continua di Ferrara/St.John, 1993) e funzionerebbe anche oggi che c’è la guerra tra No Vax e Sì Vax.

Infatti, un momento della storia originale mai utilizzato nelle versioni al cinema parla proprio di un distintivo che tutti i cittadini di Santa Mira, ormai sostituiti dagli ultracorpi, indossano per muoversi in città e per riconoscersi.

E quando Mannie, lo psichiatra e Miles discutono sul cedere o meno alla nuova vita dei baccelloni, pare di sentire i discorsi di chi non vuole fare il vaccino e di chi invece cerca di convincere l’altro che farlo è utile e che andrà tutto bene. “Sarai lo stesso” dice alla fine Mannie, ma sappiamo che non è vero.

Perché noi siamo con Miles, è ovvio, anche se nel tempo, questo valente rappresentante dell’individualismo umano, è stato rimesso in discussione, al punto che negli ultimi decenni, la sua figura non è più così positiva e quella dei baccelloni non è più così negativa, secondo alcuni, per esempio il compianto Giuseppe Lippi: “Si guarda sempre più ai baccelloni come dei rivoluzionari contro la mentalità puritana americana. Non ci laviamo più, non facciamo più ordinazioni ai commessi viaggiatori, non puliamo più le strade e non ci affanniamo appresso alle meccaniche del capitalismo. E allora? Siamo sereni, privi di quelle dannose e logoranti emozioni depressive e nevrotiche di voi umani. Questo è un problema?”

Le emozioni umane dove ci hanno portato? A soffrire, a fare la guerra. Sono sempre le emozioni a causarci problemi e l’uomo oggi, il moderno spiritualista che medita, pratica lo yoga e si imbottisce di psicofarmaci vuole proprio affrancarsi dalla violenza e la tirannide delle emozioni, e gli Ultracorpi era proprio questo che offrivano. Tanto più che, nonostante i film abbiano sempre raffigurato gli alieni in modo aggressivo e sempre più violento, nel romanzo sono tranquilli e pacifici. Sono gli uomini a usare violenza per sfuggirgli.

Anche la figura dello psichiatra, che sin dalla versione di Finney prova a liquidare tutta la gente che insiste a dire “mio padre non è mio padre” come una psicosi di massa, è col tempo diventato sempre più una figura negativa. Il guru mediatico interpretato da Leonard Nimoy aiuta la gente a razionalizzare e scacciare il sospetto che la realtà sia cambiata, a non ascoltare il dolore e la paura, ma abbracciare le cose come stanno.

In un certo senso cosa dicono Philip Kaufman e lo sceneggiatore W.D. Richter nel rifacimento del 1978? Che la psichiatria è al servizio del potere. Ci permette di sopportare l’insopportabile, ci fa dubitare dei nostri dubbi, ci allontana dalle grida di terrore che sentiamo dentro e dalla sofferenza che ci potrebbe spingere verso un cambiamento, una ribellione e non la morte della nostra anima, come paventano loro.

Interessante poi la figura di Jack Balicec: nel libro è un innocuo romanziere, nel film di Siegel nemmeno si specifica che è un letterato, mentre nella versione di Kaufman è un poeta sempre più solo. Lo interpreta Jeff Goldblum. Urla, sbraita, prende la gente per il bavero e li avverte che i libri dello psichiatra Mannie sono porcherie, ma nessuno lo ascolta e alla fine anche lui finisce nel tritatutto degli Ultracorpi.

Comunque pur non amandolo, ho scoperto una cosa interessante leggendo il romanzo e che forse non tutti conoscono. Il finale non è lo stesso dei film. Intendo di qualsiasi film che sia tratto dal libro. E la cosa è curiosa perché di solito avviene il contrario. Intendo non che i film rispettino i finali letterari, anzi, ma che Finney si rivelò troppo ottimista e nessun regista o sceneggiatore, dal 1956 a oggi si è mai sentito di prendere la stessa direzione indicata dall’autore.

Non vi dico altro, tranne che in fondo Santa Mira e Innsmouth, anche nell’epilogo di Finney, finiscano comunque per somigliarsi molto.

Ah, dimenticavo.

Su una versione non ufficiale del romanzo degli Ultracorpi, The Faculty di Robert Rodriguez e Kevin Williamson, si parla della vecchia questione su quanto Il Terrore dalla sesta luna (1951) di Robert Heinlein sia stato scopiazzato in modo vergognoso da Finney.

È una puttanata.

Il romanzo di Heinlein parla di alieni tipo sanguisughe che si attaccano alla schiena e schiavizzano gli umani, mentre quelli di Finney si sostituiscono dopo una perfetta riproduzione. Se dopo tanti anni si parla ancora di Ultracorpi e non del seste lune, per quanto si tratti di un grande romanzo classico del genere, è perché Jack deve aver preso la spora vagante nell’aria dandole una veste più azzeccata ed efficace alle ubbie del consorzio umano, sempre in cerca di metafore in cui incastonare e ridefinire le proprie crisi.