Siamo sempre in cerca di qualcuno da amare. Così dicono le canzoni. Così ci raccontiamo. Personalmente ho trascorso ventotto anni della mia vita, i primi ventotto, senza una donna. Mi innamoravo spesso a senso unico, che poi è il miglior modo inconscio di impedirsi di vivere sul serio un amore. Cominciai alle elementari. In prima, al terzo giorno. C’era una bimba nel banco davanti al mio. Si voltò, sorrise a qualcuno, nemmeno a me, a qualcuno al mio fianco. E io mi presi una cotta per lei. Da lì ogni anno, in ogni classe (e ne ho cambiate parecchie nel mio accidentato percorso scolastico) mi fissavo con una delle mie compagne di banco. Qualche volta arrivavo a dichiararmi, tanto per assicurarmi il fallimento completo. Poi, una volta finita la scuola, ho iniziato a perdere la testa per le bariste.
In ogni bar che ho frequentato c’è stata una barista che mi faceva sospirare forte. Non avete idea quante volte ho pronunciato questa frase: “un caffè, per favore” o “ciao, un caffè, per favore” come se stessi implorando la salvezza al demonio. In quelle parole c’era tutto il mio cuore, il mio struggimento e il mio maelstrom ormonale che scivolavano sul sorriso murale di una stanca e indifferente ragazza sotto-pagata e con il fidanzato stronzo.
Nel corso della mia adolescenza, più crescevo e più mi sentivo triste e solo. Iniziai a chiedermi se non avessi qualcosa di sbagliato che gli altri percepissero. Diventavo paranoico. Quando gli anni passano e tu non ce la fai ad avere la tua relazione amorosa, beh, ti convinci che ci sia qualcosa che non va in te. Tutti hanno una donna, tutti hanno una storia, di dici, perché io no? Proprio io? Che poi non è mica vero. Conosco gente che è arrivata alla vecchiaia senza aver mai scopato o vissuto una relazione con qualcuno che non fossero animali o qualche oggetto di casa dalla geometria ginecologica.
E io temevo di essere tra quelli del club dei culi solitari.
Poi, a ventotto anni mi sono sbloccato. E per altri quindici della mia vita ho vissuto quasi sempre al fianco di una donna. Ho avuto relazioni puramente sessuali, amori importanti, relazioni così così, lunghe storie di anni interi in cui sono nate due figlie; per non farmi mancare nulla e soddisfare quel bisogno indotto di normalità e maturazione, ho anche preso la malaugurata decisione di sposarmi. Tutto questo mi ha condotto sempre nello stesso vicolo cieco.
Ero solo e triste prima e mi sono sentito triste e solo anche dopo.
La differenza con il prima è che chiedevo a qualcun altro di darmi quello che da solo non ero mai riuscito a dare a me stesso: affetto, comprensione, ammirazione, devozione, sesso… (beh, di sesso da solo me ne ero dato sempre parecchio, in verità).
Ho vissuto quindici anni difficili, belli, brutti, distruttivi in cui ho pasteggiato con i miei peggiori demoni, ho vegliato le notti giocando a solitario con le mie peggiori paure. Ma non è che ora io ci abbia capito granché. Questo post non vi dirà qualcosa di saggio.
Però rifletterò su un paio di spunti “saggi” che girano in rete e che assumono sempre di più l’aria di moderecci mantra di auto-crescita interiore.
Il primo è che se non ti dai da solo amore, se tu non ti rispetti, non lo faranno gli altri.
Vero, nessuno può, anche quelli che lo vorrebbero con tutto di se stessi potrebbe darti l’amore che tu non dai a te stesso.
Questa cosa suona bene se ci fosse un modo di darsi amore da soli senza diventare egocentrici o ancor peggio narcisi.
Se ci fosse un modo di darsi amore non lo cercheremmo fuori e ci estingueremmo.
Immaginate un mondo in cui tutti si danno amore da soli voluttuosamente. Vai a fare la spesa e il cassiere non si sbriga a fare il suo lavoro, perché si ama da morire e quindi si concede di essere calmo e rilassato. E tu hai tutti quei prodotti nel cestino pieno d’amore: vale a dire verdure e antiossidanti (perché ti ami sul serio, quindi mangi sanissimo). E dietro di te c’è gente che invece di un cellulare ha uno specchio per rimirare l’unico essere che amano più di chiunque nel creato. Se stessi. L’azienda della telefonia fallirebbe, perché se noi ci amassimo non avremmo bisogno di uno smartphone. Ci baceremmo sulla fredda superficie dello specchietto retrovisore dell’auto. L’azienda degli specchi crescerebbe alla grande, così come quella del lattice e della robotica. Magari avremmo un nostro facsimile seduto sul sedile del passeggero in auto. Gli allacceremmo la cintura e parleremmo solo con lui, perché è l’essere che più amiamo al mondo e il solo che è davvero interessato a cosa pensiamo e proviamo. I nostri figli intanto sono rimasti nel carrello della spesa, in mezzo al parcheggio, ma chi se ne frega, si ameranno da soli, pure loro. E si occuperanno di se stessi.
La seconda cosa che gira in rete, la seconda massima del vivere meglio in tre mosse o roba del genere, è conseguente alla prima dell’amarsi da soli: se non riesci a stare bene da solo, non ce la farai nemmeno in due, anzi.
In effetti sembra una cosa ragionevole. Pensateci. Stando bene da soli, che va inteso come il risultato di un lungo percorso di ricerca e di auto-medicamento, dopo potremmo anche tornare in coppia, ma non lo faremmo per le ragioni sbagliate, che sono poi le sole ragioni che ci hanno sempre spinto a metterci con qualcuno.
Quali sono le ragioni sbagliate?
Ti amo e mi metto con te perché?
Perché se no, mi sento solo e io sono stanco della mia solitudine.
Perché mi sento vecchio e stanco.
Perché se no non scopo e io a mignotte non ci vado.
Perché se no non cresco come dovrei.
Perché se no non mi sento normale.
Perché se no mi annoio.
Perché se no non so che cazzo farne della mia vita.
Ecco, mettetene anche altre, se vi vengono in mente.
Chi ci dice che dobbiamo imparare prima a stare bene da soli, quindi a vivere nella solitudine, a scoparci da soli o magari a non considerare il sesso una cosa tanto fondamentale per la felicità interiore; chi dice che dobbiamo crescere con noi stessi; sentirci normali o forse rifiutare il concetto di normalità come fuffa sociale; chi dice che dovremmo trovare uno scopo nella nostra vita al di là della presenza di qualcuno accanto che lo condivida e ci aiuti a perseguirlo… chi dice così, ha raggiunto lo stato di cui parla?
Io penso di no, perché chi ho sentito parlare era grasso, iper-ventilato, e passa la vita a girare clip per youtube, ma a parte i miei sospetti superficiali, avrei un’obiezione Vostr’onore.
C’è una parte di noi che viene fuori solo quando siamo in coppia.
C’è un pezzo, in ombra, che noi possiamo solo vedere grazie allo specchio che ci offre la persona che vive accanto a noi. E se camminiamo da soli, quella parte non la vedremo.
Un mio amico era tipo di grande devozione a Dio. Non bestemmiava nemmeno quando si dava una martellata sul dito. Mi ci trovai. Se la diede e io lo guardai dicendogli con gli occhi: “ora potresti, non ti giudicherei, se lo facessi”.
Ma lui niente. Tacque, si medicò la ferita, sospirò forte ma non disse nulla al suo dio.
Poi un giorno si fidanzò con una che lo faceva impazzire. E una sera che dovevano vedersi, l’appuntamento saltò all’improvviso perché lei aveva non so qualche strano programma nuovo. Ebbene, lui bestemmiò tutto quello che aveva tenuto dentro, compreso il porcodio della martellata che si era dato anni prima.
Ecco, cosa intendo con il pezzo che esce solo quando siamo in coppia.
Possiamo darci amore. Possiamo dirci normali. Possiamo trascendere i nostri genitali e avere orgasmi spirituali, ma di fatto, questo non può medicare il nostro insieme se arriviamo solo a una parzialità di noi.
Inoltre, amarsi… qualcuno sa come si fa?
Io mi sono accorto di amarmi sul serio solo quando mi invaghisco dell’altro.
Se ci innamoriamo non vediamo davvero l’altra persona, questo è risaputo, no?
Proiettiamo le nostre speranze e le nostre illusioni sul volto, i glutei, le labbra dell’altro, ma lui/lei non sappiamo ancora chi sia. Ci sembra di conoscerlo da sempre, di averlo cercato una vita, è lui… è proprio lui! Magari ci potremmo anche infilare un punto di domanda, ma è di quei punti di domanda molto emotivi e per nulla scettici.
Ecco, in quel momento il lui che ci sembra di conoscere da una vita siamo sempre noi, è quel pezzo di noi che c’è sempre ma esce solo con l’altro a farci da specchio.
Fantastichiamo di notte, con la voce e il volto dell’altro. Gli facciamo dire e fare cose dolci e gentili mai accadute e che probabilmente mai accadranno, non in quel modo specifico di cui sogniamo a occhi aperti. Ci crogioliamo al pensiero degli abbracci caldi e soffici che arriveranno quando staremo di schifo e poi, il giorno dello schifo lui sarà co-responsabile di quello schifo e ci lascerà in un angolo a gelare di disperazione.
Ci facciamo un lungo film melenso che difficilmente si trasformerà in realtà. Tutte le volte.
Ma in quella proiezione iniziale noi vediamo sempre e solo noi e paradossalmente lì ci amiamo!
Diventiamo l’altro come vorremmo che l’altro sia per noi e ci amiamo da morire. Lo struggimento di quel primo momento non è paragonabile a tutto l’amore che l’altro (via via che si manifesterà, divergendo imperdonabilmente dall’identikit proiettato su di lui) realmente ci ispirerà.
E questo non ci fa uscire da noi stessi, non ci apre a niente che non siamo ancora noi, la parte di noi che spera, che sogna, che desidera…
Cosa?
Quello che immaginiamo possa farci bene. Che casualmente è tutto ciò che sentiamo mancarci quando siamo soli.
Io pensavo di essere felice con una donna perché da solo non lo ero.
La donna non mi ha reso felice e non mi ha fatto sentire meno solo.
Quindi cosa mi resta da fare, adesso che sono di nuovo solo?
Penso che ora cercherò di stare con me per un po’. Non so cosa mi porterà o mi succederà, ma proverò a vivere una relazione con me stesso, come fossi la mia nuova ragazza. Per quindici anni ho pensato che vivere insieme a qualcuno fosse un’impresa difficile ma non impossibile. Adesso voglio provare a vedere quanto riesco a fidanzarmi con me stesso, prima di tradirmi, di lasciarmi, di chiedere il divorzio.
Buona domenica a tutti.