What happened to us, my friend – Sul nuovo album dei Cave In

I Cave In hanno realizzato uno di quei dischi che mi fanno scrivere. Ormai non so più quando la musica che ascolto è buona o no. So solo che a volte sento un disco e non riesco nemmeno a finirlo, perché dopo trent’anni di metallo so già come va a finire e mi annoio presto. Però poi capitano degli album che mi costringono a fermare tutto, tenerli con me qualche giorno, a volte anche settimane e non so bene la ragione, finché un giorno mi ritrovo a scriverne ed è il solo modo per congedarmi da essi. Altrimenti sento che non posso, non riesco a venirne fuori.

Non conoscevo questa band, c’è tutto un boschetto di validissime realtà intorno al bitorzoluto e grasso alveare dei Converge e l’ape regina Kurt Ballou, a oggi uno dei pochi grandi produttori che l’underground tallico possa ingaggiare per tirar fuori dalle palle un disco vero.

E i Cave In nascono da una costola dei Converge, il loro ragazzone immagine, chitarra e voce, Stephen Brodsky è stato il loro bassista fino a ‘98. Poi ha salutato e avviato questo gruppo irrequieto, sotterraneo, pastorizzato alla scuola dei Soundgarden e del primissimo Metalcore.

I Cave In hanno avuto il tempo di nascere e morire, con l’incidente fatale del loro bassista Caleb Scofield, prima che mi accorgessi di loro. Spero ora che anche qualcuno di voi, faccia lo stesso, li ascolti, perché vi garantisco che sono dei tipi in gamba e che il nuovo album Heavy Pendulum è una storia a parte e insieme un riassunto fedele di tutto il percorso del gruppo dalla fine degli anni 90 a oggi.

Allora, Caleb Scofield il 28 marzo 2018, mentre io mi stavo dirigendo verso la fine del mio matrimonio con la netta sensazione che invece sarei rimasto per sempre assieme a mia moglie, Caleb si dirigeva verso la morte, con la netta sensazione che invece sarebbe tornato a casa sano e salvo e avrebbe suonato ancora molti anni nei Cave In.

Poi impattò forte contro qualcosa e tutto diventò buio. Quando tornò la luce non era ancora nel tunnel. Già da un po’ Caleb inalava fumo ed era sempre sul suo camioncino. La luce era per via del fuoco, che consumò le parti sane e quelle fratturate dall’impatto.

Caleb salì così, in piccole braci, verso il cielo, una sera qualsiasi della sua vita. Aveva beccato una grossa barriera di cemento a un casello di Bedford, nel New Hampshire, lo Stato che finì a fare da titolo per una canzone dei Sonic Youth.

E una volta morto lui, come dice Wikipedia, il capo del New Hampshire prese in considerazione un progetto di Everett Turnpike da 20 milioni di dollari per aggiornare i fottuti caselli a pedaggio elettronico, così da aumentare i livelli di sicurezza su quelle strade.

Una volta morto Caleb, il resto dei Cave In provò a ragionare un po’. Erano rimasti in tre, compresi i cavalli. E così misero insieme il materiale che avrebbe dovuto essere il nuovo album scritto e suonato insieme al loro bassista deceduto e lo fecero uscire un anno dopo circa, con il titolo abbastanza chiaro: Final Trasmission.

Tutto fece pensare che fosse la fine, e invece Stephen, Adam (McGrath, l’altro chitarrista e cantante) e John-Robert (Conners, il batterista) non si erano detti niente di preciso. Avevano solo portato a termine l’album allo scopo di ricavarne qualche soldo da donare alla famiglia di Caleb.

Dal 2019 al 2021 poi c’è stato il Covid, il lock-down eccetera, ma Stephen Brodsky non ha smesso di creare musica per i Cave In, anzi, proprio la pausa forzata per la pandemia, mandando all’aria il fitto calendario di tour con varie altre band, l’ha costretto a concentrarsi molto sulle canzoni e appena ha raggiunto il resto del gruppo, rileggendo un foglio scritto da Caleb sulle “cose assolutamente da fare per il 2018 se non muoio prima”, ha costretto tutti a prendere l’impegno di incidere un super-disco dei Cave In in uno studio vero.

Non era scontato che i Cave In tornassero in studio, da Kurt Ballou. Ora magari uno che li conosce direbbe, e dove se no? Ma loro era un po’, da Perfect Pitch Black che non trasportavano il culo in una sala d’incisione professionale, con un producer a fumargli sui capelli. Come tante band anche i Cave In hanno finito per creare i propri dischi a casa, dandoli poi da mixare e masterizzare a qualcuno per mail. Secondo Caleb quella faccenda doveva finire. I Cave In avevano bisogno di riprendere la vecchia strada e realizzare un “disco vero”, così era scritto su quel foglietto testamentario rimasto tra le scartoffie di Stephen Brodsky.

E così i Cave In hanno fatto. Chiedendo aiuto a Nate Newton, bassista dei Converge e sostituto ideale di Caleb, il gruppo si è messo nelle mani di Ballou e ha realizzato non un grande capolavoro, sia chiaro, ma di sicuro un album con tutti i sentimenti. Heavy Pendulum è pieno di fantasmi, sappiatelo. C’è dentro Caleb, che viene evocato e salutato in Reckoning, ma non solo lui. Ci sono spettri amorosi, di guerra, presenti, passati e futuri. È un lavoro che usa come sponda le vecchie cose dei Soundgarden, ok, ma non ci pensereste se non ve lo dicessi. C’è tanto altro, dallo space rock, allo stoner, al thrash metal, i Metallica, il progressive acido e il death metal vecchia maniera.

Ma soprattutto ci sono le le canzoni dei Cave In. Alcune davvero grandi. Blinded By The Blaze, che sembra farsi largo in una bufera grunge; Nightmare Eyes, che arranca lungo la pericolante scalinata di una casa infestata in cerca di vecchi spaventi; Waiting For Love, che ruzzola ai vostri piedi e vi parla di un grande avvenire da cuore spezzato giusto al vostro prossimo orizzonte; e per chiudere Reckoning e Wavering Angel sono le due preghiere più accese, dove la magia si fa davvero alta e potente, ragazzi.

La prima si apre con un sospiro e finisce nell’abbraccio ustionante dello spirito di Caleb, rinato dalle ceneri di una vecchia combinazione d’accordi rimasti appesi alle dita di Stephen e Adam per un sacco di tempo. Il giusto sacco di tempo, pieno di polvere di morti e di sogni accecanti.

Sentite come cresce la mia prosa, qui?

Cazzo, non sono io, è il disco dei Cave In che mi guida i polpastrelli: Reckoning mi solleva dalla sedia, mi fa dimenticare l’afa di questo pomeriggio e porta il mio gozzo sul limitare di una gigantesca cascata di lacrime. I morti e i vivi non esistono. Ci siete solo voi. Siete gli ultimi uomini sulla terra, convinti che un oceano di ologrammi siano gli altri. E morite e nascete e amate e odiate, e vivete e cambiate, senza mai staccarvi dal ciglio del vostro povero cuore sgualcito.

Wavering Angel è una chiusa di dodici minuti che ho ascoltato aggrappato alla rete di protezione della discarica in cui lavoro, mentre la fila di alberi del bosco lì davanti si agitò all’improvviso, per via del forte vento che si è alzato. La voce di Stephen o Adam, chissà chi dei due, in un falsetto che ricorda Neil Young, dice cose terribili e indecenti sull’amore e sull’amarsi.

Mentre la sentivo, quel pomeriggio, poi ha iniziato a tuonare e a piovere terra. La temperatura è calata e il cielo ha iniziato a schiacciarci tutti. Sono tornato a casa sporco e bagnato, mentre il crescendo di Wavering Angel nelle mie cuffie era diventò non so come un bolero da Arena Rock d’altri tempi, ma senza la nostalgia dei vigliacchissimi vecchi tempi. Siamo qui e ora, anzi, non siamo morti qui e ora.

E i Cave In domandano semplicemente: “cosa ci è successo, amico mio? Perché ci amavamo e ora invece non vogliamo più vederci? Cosa ci è successo, amico mio?”

Già, cosa?