Esistono per me due tipi di solitudini. Quella di quando sei single e quella di quando sei in coppia. Ufficialmente, un partner dovrebbe spazzar via la solitudine che si prova stando soli, ma la verità non è questa. Cresciamo con l’idea di risolvere tutto trovandoci una compagna o un compagno di vita e non provare più quel senso di isolamento, di abbandono del mondo. Si tratta di un abbaglio, come dice il Sole Cane.
La realtà è che la solitudine continua, anche in coppia, solo che assume dei connotati differenti. Diventa talvolta più disperata. Piero Ciampi, che tutti dovreste conoscere e ascoltare specie quando vi sentite di schifo, diceva sempre che per capire davvero cosa sia la solitudine, occorre essere in due.
Probabilmente la solitudine di coppia è la peggiore per via dell’idea preconcetta con cui cresciamo e ci spingiamo verso l’amore: “se pure con Lei/Lui mi sento solo… allora non c’è davvero speranza per me”
Per come ho sperimentato io, la solitudine in coppia e da soli non è la stessa cosa. Non bisognerebbe generalizzarle. Va bene, nascono dallo stesso ceppo di cazzo del sentirsi di merda, esistenzialmente di merda, ma entrambe queste solitudini si muovono su idee, sensazioni differenti.
Per dire, quando mi sentivo solo in coppia, io provavo anche un senso di rabbia verso la persona accanto a me, la ritenevo responsabile. “Lei non c’è e io sto di schifo, stanotte”.
Quando invece mi sento solo da single, la rabbia io la rivolgo verso me stesso e mi dico: “non dovrei sentirmi così solo”.
In entrambi i casi ho provato sempre rabbia ma cambiando bersaglio.
Ora sto cercando di capire, nelle profondità di me dove tutto è davvero attivo e condizionante, che non dovrei prendermela per la solitudine che ho dentro. Non dovrei avercela con la mia amante (“che non capisce, non ascolta, non sente”) e non dovrei avercela con me (“che sono debole, piagnucolone, immaturo, sciocco a sentirmi solo nonostante l’età, le scelte fatte, i miei figli accanto a me eccetera eccetera…”)
Io non scelgo come sentirmi. Non posso farlo neanche volendo. Potrei provare come fanno gli attori a raccogliere una serie di immagini mentali e provocarmi dei sentimenti ma sarebbe una finzione. Quando mi sento per davvero arrabbiato, triste o allegro, non è dovuto a un mio atto di volontà.
Per avere un po’ più di leggerezza dentro posso farmi una mangiata di film dei Fratelli Marx, mi ricorderebbero che bisogna vivere con un piglio più scanzonato e folle, ma durerebbe poco questa mia attitudine. Male non mi farebbe, ma potrei ritrovarmi a piangere in auto ancora prima di ricordarmi come sia successo.
Quindi non posso avercela con me se mi sento solo. Non decido io come sentirmi.
La stessa cosa riguarda la partner quando me la prendo con lei perché “mi fa” sentire solo.
Lei può anche provarci, per qualche sadico bisogno di vendetta o che so io, ma non avrebbe lo stesso effetto se io capissi che lo faccia apposta. Significherebbe che comunque pensa a me. Invece quando proprio non ci arriva a capire che io mi sento come mi sento, che nella sua testa in quel momento io non sembro esserci, allora ecco che mi arrabbio e sprofondo nella disperazione del mio essere solo nell’universo, mollato da tutti, incompreso eccetera.
Ci si arrabbia quando si ha ragione, dice Igor Sibaldi e in fondo è vero. C’è chi si incazza pure se è in torto ma gli dura poco. Nulla invece può arginare la nostra ira se siamo certi di avere la sacrosanta ragione. Saremmo capaci di lottare degli anni rinnovando la rabbia ogni giorno, se sappiamo che il torto subito è il nostro.
Ma non c’è ragione di arrabbiarsi quando ci si sente soli, perché nessuno sceglie di esserlo e nessuno può farci sentire così se lo volesse.
Noi siamo soli e basta. Gli altri ci fanno sentire soli e basta.
Allora, se la rabbia non è una soluzione, se prendendocela con noi o con il nostro amante che ci trascura la solitudine non guarisce, l’unico modo è accoglierla.
Cosa vuol dire accogliere la solitudine?
Già mi vedo in saio bianco, il volto sereno, la testa inghirlandata di fiori in stile Midsommar che apro le braccia e attiro al petto una versione di me, fuligginosa e claudicante.
No.
Accogliere la solitudine significa tenere la porta di casa aperta. Sedersi al tavolo con due tazze di caffè fumanti e attendere che Lei, la solitudine, entri e sieda. Potremmo parlare un po’, tentare di capirci, ma sarebbe inutile, credo.
Lei vuole proprio venirmi a trovare. Non posso spiegarle che può farlo ma sarei più felice se non si facesse più vedere. Andrebbe via offesa e comunque tornerebbe, perché non sa mica dove altro andare.
Questa solitudine è mia, ce l’ho da sempre. Mi è stata data fin da bambino e non può andare in nessun posto che non sia dove io mi trovo.
Allora dicevo, potrei tacere e accettare che stia un po’ in casa con me, prendere il caffè con lei in silenzio e attendere pazientemente che esca a farsi un giro. Non resta mai molto, questo lo so, anche se ogni volta che viene, ho l’impressione che potrebbe non andarsene mai più. So per esperienza che uscirà di nuovo e che tornerà. Qualsiasi cosa io dica, pensi o faccia, chiunque sia in casa, anche una festa con duecento invitati, lei tornerebbe, si siederebbe lì, nel posto che nessuno dei miei invitati, anche se io li implorassi, accetterebbero o saprebbero mai occupare.
Potrei tacere o parlarle. Ma cosa potrei dire io alla mia solitudine che lei non sappia già? Lei sa tutto di me. Sono io che forse potrei scoprire qualcosa di lei, se invece di inondarla di obiezioni, rimostranze, lamenti e lacrime, la ascoltassi un po’.
Saprei qualcosa di lei e scoprirei che lei sono sempre io. Quindi saprei qualcosa in più di me.
Quanto durerebbe?
Non finiamo mai di conoscerci, di scoprire cose di noi, giusto? Quindi durerebbe finché siamo qui su questo pianeta, in questa vita, nel nostro corpo sensoriale.
In fondo viviamo la nostra esistenza per conoscere e cosa c’è di più disponibile a questa nostra ricerca, del nostro corpo, la mente e le varie connessioni interne che avvertiamo ogni secondo dentro di noi?
La solitudine mi direbbe cose interessanti se io la guardassi senza sprezzo o paura.
Sorseggerebbe il suo caffè, mangerebbe qualche biscottino attorno alla tazzina e mi racconterebbe di quella volta in cui mia madre si dimenticò di venirmi a prendere a scuola. Allora io avrei con lei un dialogo del genere.
“Conosco bene quella storia. C’ero. Perché torni qui e me la racconti?”
“Non lo so”
“Grazie tante”
“Non ho scelto io di essere come sono”
“Lo so, ma mi domando perché dovresti mettermi di cattivo umore ricordandomi un episodio doloroso della mia vita passata. Non voglio arrabbiarmi con te, solo capire di più come mai agisci così”
“Perché è successo. Tua madre si dimenticò di te, lei non doveva ma lo fece e io lo ricordo”
“Ok, ma è capitato una volta. E ti dirò di più. Anche io sono genitore e pur amando le mie figlie, una volta ho dimenticato di andare a prendere a scuola una di loro”
“E come ti sei sentito?”
“Male. Non meno male del bambino che fui, il quale un giorno del 1985 attendeva la mamma e non la vedeva arrivare, mentre tutti i suoi compagni se ne andavano mano nella mano con i loro padri e le loro madri. E io restavo lì… e fu orribile”
“Lo so, non ti dimenticare che in quel momento, anche io ero lì. E crescevo accanto te”
“Vero, c’eri anche tu”
“Non eri solo, eravamo in due. Tu che piangevi e io che ti guardavo piangere”
“Già”
“Ci sono sempre quando ti senti solo”
“…”
La solitudine mi guarda come se debba capire qualcosa a quel punto ma io non so bene cosa pensare.
E lei poi prosegue: “E ti ricordi però…” mi dice.
“Cosa?”
“Quella volta di cui stavamo parlando, a scuola, mentre eri fuori nel giardino… ricordi gli alberi, i pini mossi dal vento?”
“Sì. Erano belli, scuri, e il cielo era grigio e pensavo che stesse per piovere”
“Già, e pensasti che quel cielo grigio era soffice e…”
“Che era come il pastello che mi guarda ogni mattina dal mio astuccio”
“Triste e solo, perché era il solo colore che non usavi mai per i tuoi disegni sul quaderno”
“Già, cosa mi fai ricordare, è vero”
“Lo scrivesti su un tuo pensierino della mattina, qualche tempo dopo”
“Sì, di quelli tipo “Oggi piove, pensieri e riflessioni”
“La maestra rimase molto colpita da questa frase. Disse a tua madre che eri diverso dagli altri”
“Diverso?”
“In senso buono, che avevi una tua specialità”
“Specialità”
“Esatto”
“Che altro ricordi di quel giorno a scuola?”
“Gli alberi alti, scuri, bellissimi, con il vento che li muoveva. Il cielo pesante. Le macchine oltre le sbarre del cortile che sfrecciavano. Tu oggi ami i pomeriggi così. Provi uno strano senso di conforto, è vero?”
“Vero. Mi piacciono le giornate un po’ cupe. Mi fanno sentire un po’ come un membro della Famiglia Addams. Loro si affacciavano alla finestra e vedendo la tempesta in corso dicevano, che tempo meraviglioso! Cose del genere… Ma aspetta, vuoi dirmi che c’è un nesso tra quel pomeriggio e i miei gusti in fatto di metereologia?”
“Non ne ho idea” dice la solitudine e a quel punto si alza, ringrazia per il caffè e i biscotti e lascia la sua scia di fuliggine lungo la cucina, giù per le scale e fuori in giardino. Quasi mi dispiace di vederla partire, così presto. La conversazione, per la prima volta, mi ha coinvolto senza farmi soffrire.
Potrei raggiungerla se lo voglio. Lei mi offre sempre un modo per trovarla, una traccia di fuliggine. Ma non c’è bisogno. Tornerà.
Tornerà da ma, ogni volta che mi sentirò solo.