Allora, volete sapere chi era Nikolaj Kardashev e perché questi quattro tizi metallari abbiano deciso di chiamarsi col suo cognome? Io credo di sì. Esatto, Kardashev è il cognome di un astronomo sovietico che inventò un metodo per misurare il progresso tecnologico di una civiltà. Come? Vi mentirei se provassi a spiegarvelo. Non l’ho capito. Ci sono delle spiegazioni ma io in questo genere di cose scientifiche sono come mia madre con l’Inglese.
Tenete però presente che Kardashev e il suo metodo sono diventati sinonimo di civiltà aliene evolute e potenzialmente pericolose per noi piccoli uomini caccolosi.
Alieni cattivi e spazio minaccioso è il nesso col metal anche se tutto questo a me sembra più una roba da nerd. Esatto, una cosa alla Big Bang Theory. E lo so, non possiamo farci niente. I nerd hanno scoperto il metal o forse i metallari sono sempre stati dei nerd con le borchie. Non so bene come questo sodalizio sia venuto fuori, ma ormai è sotto gli occhi di tutti.
E i Kardashev sono fisicamente prestanti come dei secchioncelli che dimenticano appositamente le scarpe da ginnastica per saltare l’ora di educazione fisica. Se poi ci focalizziamo sul loro frontman allora possiamo ipotizzare che all’ora di educazione fisica lui sgattaioli verso il bar della scuola.
Lo dico con simpatia e profonda ammirazione perché sia chiaro, Mark Garrett è uno dei cantanti più in gamba e genuini venuti fuori dal panorama estremo negli ultimi dieci anni. Circa.
Ora, però a vederlo esibirsi ho qualche perplessità perché non è esattamente ciò che la mia mente mi suggerisce quando chiudo gli occhi e ascolto la sua voce. La fantasia mi suggerisce un uomo alto, prestante, muscoloso, uno Zakk Wylde intellettuale, con un libro di fisica quantistica sotto il braccio, occhiali da vista e barba sapiente.
Se apro gli occhi e mi guardo il video di Compost Grave-Song, ok, la barba c’è, ma anche una gran panciona calorica e l’aspetto complessivo è sul modello del tizio di Una notte da leoni che imita John Belushi che fa il verso a Joe Cocker al Saturday Night Live.
Come siamo giunti a questo? Come possiamo definire visivamente metal un uomo con la pancia, le braccine corte e l’aria pasciuta e sudata. Perché oggi tutto questo è figoso, come direbbe Zoolander.
Non possiamo farci niente. Negli anni 60 le ragazze ritenevano avvenente un tipo come Ringo Starr
e oggi invece il non plus ultra dell’uomo sexy è lui.
Quindi Mark Garrett è fico e stracazzutamente bravo.
E infatti voi direte che è questo che conta, la bravura. Allora chiudete gli occhi e godetevi la classe, il talento e una produzione un po’ così.
Non sono il primo e non sarò l’ultimo a dire che Liminal Rite sia un grande album. Nelle fottute classifiche di fine anno molti lo inseriranno ai primi posti.
Vedrete ovunque a dicembre quella faccia pittata di vecchio e penserete che facciano doom e vi sbaglierete.
Perché i Kardashev possono anche essere lenti e cromagnosi, ma rientrano nella sfera del moderno black/death core-gaze qualche cosa.
E quindi hanno una produzione caotica, esasperata, talmente larga da non entrarmi tutta nelle orecchie.
Probabilmente sono solo io che non la capisco ma c’è un dato che voglio sottoporre al vostro giudizio. Ho dovuto ascoltare Liminal Rite in quattro modi diversi prima di sentirlo decentemente. Al pc veniva fuori uno schifo: il basso e la batteria erano in primo piano mentre la voce sembrava in un’altra stanza e quando Garrett passava dal growl al lirismo mellifluo, ecco che usciva dalla finestra di quella stanza e si piazzava sul cornicione fuori della casa.
In macchina le cose miglioravano un po’, se non fosse stato che il basso era così basso che senza una cassa sub woofer, di quelle da musica hip-hop o dubstep per intenderci, si sentiva tutta una scorreggia sotto le chitarre e la voce, mentre la batteria spariva proprio.
Poi ho tentato con lo stereo di casa e anche lì, la voce era dietro nella doccia, in bagno e con la porta chiusa. Infine, col lettore mp3 e in cuffie ben piantate dentro gli orifizi uditivi, ho più o meno sentito tutti gli strumenti ravvicinati e senza scorregge di basso.
È un problema solo mio?
Ora non pensate male, il disco è magnifico. Nel senso che è la cosa più bella che si potesse fare mescolando elementi shoegaze, deathcore e progressive. I Kardashev non usano la musica come pretesto per andare in tour, loro creano davvero qualcosa. Il disco è un bel concept su un uomo che io ho immaginato con l’aspetto dello stesso Kardashev, di cui potete vedere una foto recente più sopra.
Ecco, dicevo, il tipo, un anziano, perde progressivamente la lucidità e scivola in un gorgo orrorificamente senile, come l’Alzheimer o un tumore al cervello.
E mentre il mondo gli si sbriciola via ogni minuto che passa, e i ricordi si appannano, i volti svaniscono in una specie di nebbia spugnosa e assorbente, il tipo si aggira nella casa in cui è vissuto per tanto tempo, dove un angolo riecheggia dei suoi pianti di bambino e un sottoscala puzza ancora dei suoi umori peccaminosi post-puberali e il giardino fuori custodisce gli scampoli del suo primo incontro con la morte. E mentre prova ad aggrapparsi a ogni oggetto, scuotendolo e sfregandolo nella disperata evocazione di un qualche ricordo, la sua vita scompare come un sogno che uno cerchi di ricordare appena sveglio.
Vi è mai capitato di provare a raccontare alla vostra ragazza cosa avete sognato poche ore prima? Siete a colazione e mentre cercate di ricostruire la giusta sequenza dei fatti, vi accorgete di non potercela fare, perché ricordate sempre meno, sempre meno. Ecco, immagino che sia un po’ la stessa cosa per il personaggio del concept di Liminal Rite. Tutto si cancella.
E siccome lui si rende conto che è inutile aggirarsi nelle stanze, piangersi addosso per una vita perduta così, ecco che si risolve a dar fuoco a tutto quanto, prima di perdersi completamente nell’oblio della propria malattia e non ricordare nemmeno quest’ultima idea.
Un gesto estremo che offre una chiusa col botto, ma che capisco fino a un certo punto. Ma ci sta e l’insieme è bello. Intenso. Così come la musica che inscena un dramma che nel 1984 Ronnie James Dio avrebbe giudicato davvero poco metallico ma oggi sappiamo che l’Alzheimer è metal quanto i buchi neri e i predicatori televisivi americani.
Non sempre riesco a star dietro a Liminal Rite però, specie quando raggiunge livelli di esasperazione tipica dell’estremismo modernista. I suoni sono tutti sparati al massimo, la base ritmica anziché offrire un punto di riferimento si fonde al garbuglio. Giri di basso continui, batteria che blasta e beatta con l’elicottero della doppia cassa che non recede un momento. Sopra ci sono le tastiere che sembrano fantasiosi clacson, le chitarre djent o black riffano variazioni continue dello stesso giro e la voce ruggisce e ruggisce frasi minimaliste pronunciate da un povero vecchio.
Preferirei un po’ più di semplicità. Da quella io trovo che derivi la vera potenza. Qui sovente è tutto un gran tappeto chiassoso su cui vengono spalmate tante buone idee. Per dire, ce ne sono diverse di melodie avvincenti, ma talvolta sono usate una volta sola, en passant. Ed è uno spreco.
Molto fica e memorabile è quella portante di Silvered Shadows, ma ancora di più è la parte di Compost Grave-Song, forse uno dei brani più definiti e accessibili. Mi riferisco a quando Mirolla intona:
I left you in the dirt that day.
How can I stand by your bed?
Quello è un gran momento, perché non ripeterlo ancora e ancora? E invece niente. Se intanto eravate andati a pisciare, ve lo siete perso e basta.
Peccato.
Però abbiate fiducia, il disco è davvero possente. Il personaggio e noi con lui, inseguiamo lo sfuggente baluginio di candele che risale le scale della casa stregata di rimorsi e talvolta fasci di luce accecante ci liberano dalle fauci del buio, come nei rilanci in maggiore di Cellar of Ghosts o nelle girandole atmosferiche di A Vagabond’s Lament.
Voto 8
Di solito non diamo i voti su Sdangher, ma oggi mi gira così. Voto 8.