L’altra sera ho avuto la fortuna di tornare live con i miei progetti, sulla qual cosa non voglio ammorbarvi. Avendo la possibilità anche di trasmettere un video per completare la visione del live in un formato non solo uditivo, ma anche visivo, decido di trasmettere il breve film The Act of Seeing With One’s Own Eyes, di Stan Brakhage del 1971.
Ora questa non è una recensione del film, né soprattutto un report del live, ma un discorso sulle emozioni provate da me e le persone vicino a me nella visione di questa pellicola.
Ma di cosa si tratta esattamente?
Semplice: Stan Brakhage, dopo aver avuto il consenso dei medici, riesce a filmarli al lavoro nell’obitorio mentre trascinano, dissezionano e, oserei dire, quasi maciullano cadaveri durante le autopsie, a patto di non filmare un singolo volto dei corpi. Il tutto accompagnato da una colonna sonora di pianoforte e nessun altro rumore. Insomma come la scena del threesome di Nekromantik, ma senza necrofilia e tubi di acciaio.
Perché vi voglio parlare di ciò? Semplicemente perché questa visione ha dato spunti incredibili a molta gente sui temi della vita e della morte. Ammesso che le due cose siano separabili come usiamo pensare.
Molti erano basiti davanti a un film del genere, ma non sconvolti. Curiosi, anche capaci di condividere diverse idee a riguardo. Riascoltando la registrazione del live, qualcuno dice nel sottofondo del sintetizzatore “si vede che è un video vecchio, hai visto che macellai?”. Eppure io stesso ho notato che in quanto autopsie, aprire il corpo è un lavoro di macelleria, perché in fondo chi se ne lamenta, poi? Eppure io stesso sono rimasto turbato da questa cosa della macelleria, lo ammetto.
Gettati sul tavolino come manzi, squartati, sventrati e manca poco che li disossino. Ammetto che l’estrazione del cervello, ogni volta che la rivedo, mi lascia sempre perplesso. Prima gli strappano la pelle del cranio che viene via come una buccia d’arancia, piegandoti il viso in avanti, poi aprono il cranio ed estraggono quello che alla fine era il contenitore dell’anima di quell’uomo. E lo fanno come io prendo le patatine dalla busta, con cura di non farle cadere. Prima una vita, ora un oggetto. E poi lo puliscono di ogni rimasuglio interno, occhi compresi.
C’è un altro film, che seppure faccia cagare, In The Market (peggior citazione di sempre) questo concetto lo esprimeva chiaramente. Una volta tagliata la carne e posta sul bancone, “nessuno noterà mai la differenza tra un filetto di manzo e quello di una persona”. Terribile ma vero.
E se qualcuno obiettasse che il sapore sarebbe diverso, io gli risponderei che personalmente non so che sapore abbia la carne umana, a malapena conosco quello del mio sangue. Se poi avessi bisogno di un vero gourmet al riguardo, riporterei in vita Jeffrey Dahmer per una opinione al riguardo.
The Act of Seeing With One’s Own Eyes rappresenta un valido immaginario visivo per i vegani che vogliono farti smettere di mangiare canre usando video disgustosamente proteici incalzandoti dopo ogni fotogramma con domande tipo: “hai ancora fame? HAI ANCORA FAMEEE?”
E poi come finisce il film di Stan Brakhage? Com’è iniziato. Con i cadaveri che continuano a essere lavorati, poi archiviati e infine ridati ridati alla famiglia per il funerale. Il ciclo della morte dopo la morte.
Più di una persona dopo la visione al mio live ha ammesso di non provare un’emozione precisa. Ed è incredibile come basti sostituire una persona con un agnello che lo shock diventi l’inizio della fame, perché del resto l’unica differenza è il “rapporto che abbiamo con ciò che vediamo”, perché se lo mangio, mica mi può spaventare?