Tornano i Darkane. Riecco i Darkane. Finalmente i Darkane. Ma come, non ne sapevate nulla? A leggere le recensioni pare che tutti non aspettassero altro nella vita. Personalmente non sapevo nemmeno che esistessero. E il nome, essendo di Vetralla, mi fa solo pensare a un pastore maremmano che abbaia ferocemente contro di me da dietro una cancellata pericolante.
A dire il vero, nonostante tutti i “conoscitori” citino il loro debutto Rusted Angel, pare che la piccola popolarità della band sia nata dopo che Peter Wildoer è diventato il batterista di James LaBrie e ancora di più quando poi ha tentato un’audizione per far parte dei Dream Theater. Sono bastate queste due cose per far girare il nome Darkane nell’inter-sfera e trasformarli da gruppo di culto della tarda scena periferica di Göteborg, in qualcosa di molto più intrigante e “ma come, non conosci i grandi Darkane?”
No. Ora però sì e mi rallegro, sia chiaro. Bella band. Bella per me, come dicono a Ladispoli. Il loro nuovo album mi piace. Si intitola Inhuman Spirits e sa tanto di metallo svedese thrashettone di inizio anni duemila. Il tizio di No Clean Singing li mette storicamente nel filone Carnal Forge, Hatebreed, The Haunted e via tuppattando, anche se in alcuni momenti trova che i Darkane di questo nuovo corso tentino un recupero vistoso di idee lasciate nel ripostiglio dei primissimi Soilwork, ma provano a gareggiare pure con i più recenti Kreator e su questo sono d’accordo anche io.
Il singer, con pancia e pelata ormai d’ordinanza nel metal odierno quanto le toppe e “la stanza dei CD”, si chiama Lawrence Mackrory, è inglese, ha prodotto lui stesso il disco facendo un gran lavoro ed è fisicamente indifendibile come il cantante dei Kardashev.
È tornato nella band dopo una pausa di dodici anni, durante i quali i Darkane hanno avuto un paio di rimpiazzi non memorabili alla voce: Andreas Sydow (1999-2007) e Jens Broman (2007-2011). Ah, prima di Lawrence, in formazione ci fu persino la testuggine Björn “Speed” Strid dei Soilwork, quindi aridaije.
Ma al di là delle cliniche individuazioni da anatometallici, va detto che i Darkane hanno una dote ormai piuttosto rara tra i gruppi metal di ogni genere e patologiche derivazioni: l’equilibrio. Non eccedono in tecnicismi, non ci frollano le carni con un eccesso di melensaggini gotiche, usano, grazie al versatile Lawrence, due tipi di voci e quindi, aggiungo con polemica, di generi. Perché in fondo è la voce a determinare i generi nel metallo, molto più delle tematiche e dei riff.
Certo, Conspiracies Of The Flesh sembra a tutti gli effetti thrash metal. Potrebbe rappresentare la versione swedish dei Testament; mentre Awakening è senza dubbio un deatthone roboante e poco oltre. Ma è difficile individuare altri brani confinabili in uno di questi comparti, proprio grazie al costante cambio di registro vocale di Mackrory, che prima urla in faccia a qualche vecchio maestro delle elementare tutta la sua travagliata individualità e poi sprofonda nei sotterranei più indecenti della sua stessa catarroide tenebra interiore.
Ma se scrivo di un gruppo su questo blog che puzza di stabbio, sesso deviato e pizza ai peperoni, è perché ho trovato delle canzoni vere nel disco Inhuman Spirits, mica cazzi. Roba che avrò voglia di riascoltare nei momenti speciali della mia vita di merda.
Ne segnalo addirittura tre di canzoni vere, e di questi tempi è raro come trovare uno scroto con tre palle in una palestra di selvaggi bodybuilders affetti da vigoressia.
La ticketetrakkete, Inhuman Spirits, di cui potete gustare anche un video sul tubo…
e meravigliarvi della nuova circonferenza e anemia adiposa del cotozzo di un quarantanovenne britannico. È un pezzo tuppattupa fino a una melodia centrale drammatica in cui si alzano, come maestose ali di pelle morta, tastierami oscuri, degni di un compleanno di Skeletor. Per intendersi, una roba tra Ennio Morricone preso male e il Danny Elfman di Bat-Man del ‘90.
Poi c’è Mansion Of Torture,
che è sempre un tupatupa svervegico e in quanto tale corre e corre ma dove? Di solito da nessuna parte, ma in questo caso va a tuffarsi nella gigantesca vagina candidosa di una melodia decadentissima, sempre con le ali, Skeletor, i festoni fatti con budella facsimile del Principe Adam e Morricone invitato pure lui, che si aggira con un piatto di rognoni di Battle-cat e una voglia matta di passare al lato oscuro della Mattel.
E che ritornello, gente. Capace di cambiarci i reattori biochimici. Per dire, invece di fare il solito sì e sì con il cranio, vi ritroverete tutti a mandare avanti col mento un cavallo invisibile in una selva in fiamme da cui spuntano galline affumicate e pugili italo-americani ustionati al seguito.
Terzo brano fighissimo: The Quintessence Of Evil.
Parte come un’ipnotica serraglia di chitarre piene di pioggia nera anni 90 e poi scatarra giù riff stoppati che a ogni giro si inquartano di peli schifosi sotto la lingua e visioni di zabaioni scaduti ficcati a forza nella gola di qualche vecchia e tirannica zia defunta. Diciamo che è la versione arena di un brano thrash-death, con il ritornello che sale e sale, inseguito dalle miriadi di mani di famelici zombi verso pencolanti bistecche alla dopamina cotte a puntino su una graticola alla rete mobile.
E c’è un fraseggio finale che sa di egizi volenterosi che leccano personalmente ogni singola garza prima di avvolgerla intorno al culo del faraone.
Vorrei essere inequivocabile. Non stiamo parlando di un capolavoro. Non fraintendete il mio modo figurato di esprimere ammirazione. Io sono fatto così. Mi metto sempre davanti allo schermo. È solo un discreto album di metallo. L’ottavo album dei Darkane, un gruppo di cinquantenni con la barba e la pancia, da aggiungere alla vostra collezione spossante e ingorda di gruppi pelati con la barba, cinquant’anni e la pelata anemica.
Però è un disco mai sfatto e tanto meno strafatto, capite? C’è dramma, amore, assolutamente niente sesso e dei fottutissimi climax da apocalisse in Mi minore. E anche dei gran pasticci. Prendete il minuto 3 di Awakening. Io non riesco a capirlo. Sembra come se sotto alla batteria ci sia una traccia di un altro pezzo che non c’entra una ceppa e che manda a puttane le chitarre sopra. Ma è un momento, diciamo, che ci fa sentire vivi. Siamo lì e ci chiediamo, cosa sarà successo? Quanto avranno bestemmiato dopo aver sentito il master ritornato costosamente dall’Australia? Poi invece prendete, sempre al minuto 3 (occhio, per quasi in ogni pezzo del disco, il minuto 3 è il momento in cui strutturalmente accadono cose) dicevo, il minuto 3 di Cospiracies Of The Flesh, quando il pezzo compresso e riffoso si dilania con le sue stesse unghie e sbrodola poetico succo di ferita allo stomaco. Non è mica male, no?