I Conjurer e i piccoli fuochi dell’underground

I Conjurer (che significa prestigiatore) sono quattro uomini piuttosto brutti e fuori forma, giovani ma non si direbbe, che suonano un misto di Gojira, Meshuggah e Black Daliah Murder. Non lo dico io, ma loro. Mi sorprendono quelle band che hanno un così chiaro identikit delle proprie influenze predominanti. In effetti i Conjurer sembrano piuttosto consapevoli di ciò che fanno e buon per loro. Il primo album, che risale al 2018 si intitola Mire e pare sia stato una notevole epifania nel bicchiere di underground in cui sguazzano certe paperelle djent-stoner-doom metal. Anche qui mi sorprendo: avvengono alle mie spalle tutte queste piccole epifanie. Come Bloem dei Flusteraars, per dire, ma io non mi accorgo di nulla.

So che esce un nuovo e inutile lavoro dei Trivium o degli Slipknot, ma sonnecchio mentre alle mie spalle della controinformazione recensoria schizza di faville emesse dalla fucina dell’underground. Mi rendo conto di cosa è successo, sempre che accada, molto tempo dopo che il metallo emerso dalla brace e battuto con vigore, ha sfrigolato a contatto del sangue nemico.

Purtroppo o per fortuna, l’underground è un territorio così vasto, in cui esistono piccole e diffidenti tribù che salvaguardano la propria verità.
In qualità di scrittore heavy metal mi impongo di gironzolare fuori dalla mia zona di conforto (non so più quale sia), convinto che un album davvero buono, debba esserlo per chiunque, non solo gli avvezzi a quel micro-sottogenere del cappero.

E infatti, i Kardashev qualche settimana fa o appunto ora i Conjurer, hanno da offrire qualcosa anche a me, non solo ai patiti del djent.
Ho ascoltato Mire e non l’ho trovato così strepitoso come raccontano certi recensori dalla memoria schifosamente archivistica, ma sono conquistato, almeno in parte, dal nuovo Páthos.

Per la verità non succede granché all’inizio. Ci sono le vocione catarrali in stile “ucci ucci dove ho messo il fottuto paracetamolo?” e altre di uomini che stanno subendo una castrazione sul più bello. E queste voci si smanacciano le lingue su un elettrocardiogramma di accordi tipo 000 001 000 00001 e per un po’ è tutto qui. Vedi It Dwells e Rot.

Poi però le cose si fanno più sfuggenti e insinuanti. Tra un accordone e l’altro, cominciano a prendere sempre più spazio gli arpeggi di tipo “vado male all’università e ho un’alimentazione pessima, mi puzza il fiato e la ragazza mi sta lasciando, temo”. E per un altro po’ è un rimpiattino abbastanza deprimente di elefanti che cadono sul proprio culo e disagio tardo-adolescenziale, molto tardo.

Ma ecco che la polvere sollevata si dirada e assistiamo a cose più atmosferiche. E in un brano come All You Will Remember, il basso fraseggia circospetto una danza dell’amore intorno alle movenze civettuole di una chitarra lagnosa che non sa cosa vuole, mentre la batteria sospinge l’aria intorno come un eunuco fa con la palma nel tedio pomeridiano di un harem. E poi giù con un bel blast-beat che mette pace e allegria.

So che fino a qui non vi sto trasmettendo una gran voglia di ascoltare Páthos e neanche di finire l’articolo, ma nelle mie intenzioni, come sempre, è il contrario. Vorrei che lo provaste o che almeno non smetteste di leggere. Fate come ho fatto io, seduti su un cuscino, mentre fuori la giornata passa dal meriggio alla sera, osservando in modo critico le crepe sui muri della vostra camera o le ragnatele robuste che pendono come festoni demoniaci da non si sa quanto, sparatevi l’intero bolo tallaro dei Conjurer. Vi prometto che alla fine sarete diversi.

Páthos colerà catarro da quelle crepe sul muro, sbufferà le altalene dei vostri ragni domestici e vi siederà sullo stomaco come un gatto grasso, con brani tipo Basilisk, che è tipo uno spiraglio di luce che trafigge la vecchia carcassa robotica di qualche golem da dopo-bomba.

Ma soprattutto arrivate fino al riffone di In Your Wake, che è davvero un riffone di quelli autentici, da canticchiare. Come un gigantesco essere peloso che cammina sulle case dell’intero vicinato, scrocchiandole con la stessa allegria di bimbi con le vecchie noci marce dell’albero dello zio.

E tenetevi un po’ di malinconia residua per la conclusiva Cracks in the Pyre, dove le onde di un mare freddo e nervoso schiaffeggiano le scogliere suicide di qualche sperduto anfratto costiero del grande nord. E dalle ceneri di un falò sulla spiaggia di sale, cerotti, stecchi di cremino e siringhe, una chitarra arranca fino a sprofondare in un pozzo di sabbia pieno di rimpianti, scricchiolanti come artritiche mani di strega patentata. Ed ecco che dal buio umido della buca sabbiosa, emergono palette e secchielli di estati rubate da qualche dio balneare della memoria, agli infelici adulti che ora siete.

Perché se state passando un pomeriggio seduti al buio ad ascoltare i Conjurer, è chiaro che non vi resta molto di che sperare.
Ma anche gli ultimi scampoli di un’esistenza appesantita e bronchiale, vanno onorati con le canzoni giuste. E Páthos vi permetterà di tenere la vostra mesta cerimonia come si deve.

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Una menzione per la copertina, che è un dipinto del francese Jean Luc Almond. Sapete a cosa mi fa pensare? Alla vostra faccia dopo che avete tolto una volta per sempre la mascherina FFP2.