L’incipit per una quotidiana storia d’amore felice

Sto vivendo un periodo difficile. Mio padre dovrà affrontare una complicata operazione chirurgica piena di incognite. Mia madre è caduta fuori da un negozio, si è spaccata il gomito e, a quanto ci dice il chirurgo che l’ha operata, non potrà più vivere come prima. Dovrà affrontare una lunga riabilitazione di mesi e mesi, per riavere solo parzialmente la funzionalità del suo braccio.

Non vedo mia madre da una settimana. L’ho portata all’ospedale di Tarquinia, di sera, dolorante al punto da non riuscire a parlarmi. Da quel momento non l’ho più vista. Non mi è stato permesso di entrare. Ho trascorso ore e ore in piedi davanti alla porta dell’ospedale, in attesa. Il giorno dopo l’hanno accompagnata al Policlinico Umberto Primo per l’intervento. Da lì sono riuscito a parlarle al telefono due minuti circa, senza capire granché, fino a oggi.

Ma lunedì torna a casa e potrò riabbracciarla. Ho così bisogno di lei nella mia vita. Non mi vergogno di dirlo. Tutti qui ne abbiamo. Mia madre è un po’ il collante che tiene su l’intero condominio di cartapesta, agitato da urla e schiamazzi isterici della mia famiglia disfunzionata.

In più, ecco che è successa una cosa davvero balorda. Dopo due mesi di strana e inquietante quiete dalla chiusura della mia ultima relazione, un dolore profondo è scoppiato dentro di me, come una gigantesca e putrida vescica. Non so bene perché sia successo proprio ora, ma è così. E nonostante dentro mi dica di non farlo, ecco che invece ne scrivo.

Non è facile parlarne senza tirare in causa l’altro. Non voglio e non è giusto, quindi proverò a dire solo dei miei sentimenti, come se stessi stendendo una lettera a un amico.

A voi, se ci siete.

Vi prego, siatemi amici un momento e leggete fino alla fine questo sfogo. Non voglio rimanere solo ora e quando uno scrive è come se parlasse di spalle al mondo, sperando che qualcuno sia lì ad ascoltarlo e prima o poi gli poggi una mano sulla spalla.

Quando finisce un amore, finiscono di nuovo tutti gli amori precedenti. Un senso di incapacità, di fallimento, si spalma su anni e anni di scelte sbagliate, litigi, rotture, auto-lesionismi folli. Ho davanti a me un paio di croci pesanti che a volte, quando la notte è ben illuminata dalla luna, osservo dalla finestra, come se temessi e sperassi di veder tremare.

La fine di una storia è il risveglio da un sogno strano, lungo e intenso. E il risveglio è come in quei film in cui non sai se è ancora un altro sogno. La mente rovescia fuori un mare di ricordi, di dettagli dimenticati. All’improvviso una crepa sul muro, una maglietta impolverata dietro un comodino, un accordo di chitarra preso per sbaglio, proiettano istantanee a migliaia nel cranio. E ogni istantanea riporta dolcemente, acidamente, crudelmente, all’impetuoso fiume del dolore, che scorre dal passato nel futuro e si rigenera da chissà quale fonte sconosciuta. Due terapisti hanno provato a individuarla senza riuscirci.

La fine di un amore è tormento nel petto, alla gola, in fondo agli occhi. Le labbra si serrano forte e non riesci all’improvviso a rispondere alla domanda di una commessa del supermercato perché se lo fai, se lasci uscire un fiato, temi di andare in pezzi davanti a lei. Gli occhi pizzicano sempre e, dallo specchietto retrovisore della tua auto, valuti se sia il caso di scendere o restare nascosto ancora un po’ prima di affrontare la strada.

E questo caldo di luglio neanche lo senti. C’è un pezzo di Gaber tra i miei preferiti. Si intitola Addio Cristinia, un pezzo di prosa. Parla di un uomo  che viene lasciato dalla compagna proprio durante un’estate afosa come questa. L’uomo di Gaber passa dal rallegrarsi di essere stato lasciato, alla disperazione per la perdita subita mentre sprofonda sempre di più nel caldo di uno stanco e vuoto pomeriggio di luglio senza speranza. Ora so, riascoltandola, che il caldo era un disperato tentativo di sfuggire al dolore di Cristina che non c’è più e stavolta è andata sul serio. Il caldo è una scusa perché quando soffri d’amore, sei come isolato dal clima, dalla fame, dal piacere. Non hai scampo.

Confesso di aver provato un inspiegabile sollievo nel momento in cui ho deciso di chiudere la mia storia. C’era in me una insolita risolutezza. Ma ora soffro. Soffro perché ho amato e probabilmente ancora amo. Non si finisce mai di amare qualcuno. Ho amato e “amo” tutte le donne della mia vita, specie quelle che mi hanno osservato senza esprimere alcun sentimento, mentre mi dirigevo nell’angolo più sporco della cucina a piangere come un coglione.

Pensavo che avrei vissuto l’intera mia vita con questa donna. Vedevo nella mente inverni lontani, canuti, in una grande casa, con figli e nipoti. Vedevo notti calde come queste, passate sotto le stelle a chiacchierare, in un vasto giardino, sdraiati su vecchi asciugamani a confessarci piano piano l’infinita rivelazione che l’uno fa all’altro e un po’ anche a se stesso, dal momento in cui smette di spararle grosse e capisce che con lei/lui può davvero parlare di ciò che ha dentro.

Ma ci sono ombre terribili in questa estate così arroventata, sapete? Perché oltre le malinconiche rivisitazioni di luoghi, canzoni, che riascolto seduto accanto a una sedia adesso vuoto, o rimirando le spalle sconfitte di grucce spoglie in un armadio. Oltre questa straziante nevro-machìa, c’è la paura di non aver capito, di non aver visto tutto, di non aver compreso qualcosa di essenziale, di terribile forse. Essere vissuto come un bimbo fiducioso, accanto a un moribondo.

Al fondo di una notte d’amore, in coda a una bella scopata, ecco che affiorano altri silenzi, altre occhiate non viste ma registrate in quei momenti che sembravano tanto lieti, tranquilli, rassicuranti. Lasciavo esplodere l’orgasmo senza alcuna paura di essere divorato o ucciso.

Ho dormito accanto al suo corpo caldo e morbido così tante notti. Mi manca moltissimo. Era come un falò sempre vigoroso che mi proteggeva dal buio, dalle fiere, dal freddo. Ho cercato un’altra madre in lei, e pensavo di averla trovata. Una mamma che non mi colpevolizzava e che anzi, mi guardava orgogliosa, che mi stringeva tanto al suo petto, come la mia non ha mai fatto, chissà perché. Ma non era lei la mia mamma. Mia madre è in ospedale, col braccio rotto. In ospedale e non mi parla perché soffre troppo.

Mia madre è una donna dolcissima, attenta, generosa, puntuale e forte. L’avrò vista piangere cinque volte in tutta la vita. La psicanalisi dice che dovrei accusare lei di tutte le mie storie d’amore finite e di tutto il dolore che vivo per via delle donne. Ma inizio a pensare che non ci sia nulla di vero in quest’idea.

Durante questo amore non ho mai sofferto la mancanza di sonno. Ho dormito come un angioletto mentre accanto a me, lei spesso vegliava inquieta per ore e ore, come una lupa ferita. Immaginavo mi proteggesse, ma non era così. In quel tormentoso accapigliarsi di pensieri che le impedivano di dormire, ora riconosco le sinuose serenate dei suoi cari demoni, che pazienti hanno atteso, guardando la porta di tanto in tanto, specie nei momenti in cui la stanza si riempiva di risate e di musica dolce.

Quando ci si mette insieme, dopo una certa età e una serie di scelte decisive, si portano magari nella relazione i figli avuti da altre unioni, i fantasmi viventi degli ex, ma soprattutto i reciproci diavoli. Partoriti nell’infanzia, ereditati dalla famiglia, adottati durante la crescita, covati e nutriti. C’è chi dice che li abbiamo e li produciamo perché servono pure loro a qualcosa. Questa idea mi piace, così come quella della madre castratrice, ma sospetto pure qui che sia una cazzata.

Ce li siamo presentati reciprocamente i nostri demoni: ecco qui, cara, questo è il mio demone della gelosia. Tu invece chi mi fai conoscere? Il demone della rabbia? Bene, speriamo non bisticcino troppo.

E’ questo uno dei buoni sviluppi di una storia promettente. Quando i demoni, come bimbi, giocano felici in una cameretta, insieme, mentre gli adulti sorridono silenziosi, in ascolto. “Si piacciono” le dico, “possiamo sperare che andrà tutto bene”.

E quei demoni hanno giocato alla grande per anni. Sembravano non voler uscire più dalla cameretta. Hanno giocato anche al dottore e l’infermiera, partorendo altri demoni che alla fine della relazione, ci siamo spartiti, come ennesimi figli della nostra fertilissima oscurità.

Quell’oscurità in cui io dormivo gonfio di carboidrati e di buoni propositi per il giorno dopo e lei invece guardava fissa la TV spenta, scorgendo chissà quali orrori spielberghiani. Il giorno dopo a volte provava a raccontarmi della sua paura e capitava che piangesse pur di riuscire a dirmi cosa avesse visto nello schermo nero. Io sorridevo come a una figlia che ha avuto un incubo. La rassicuravo, le illuminavo le stanze del cuore, spalancando le sue finestre sui rumori del mio mattino, cominciato molto prima del suo risveglio agitato. E questo per me era un ottimo incipit per la mia quotidiana storia d’amore felice. Una storia che sta sanguinando incessantemente ricordi, paure, rimpianti e che prima o poi seppellirò accanto alle altre due croci di cui ho detto sopra.

Allegri, eh? Mica è morto nessuno. Battisti cantava che d’amore non si muore. E solo da morti non si ama più, alla faccia di quel vecchio necrofilo di Théophile Gautier.