The Black Phone – Nella bottega kinghiana ci si abbandona ai vecchi ricordi

Appena ho finito di vedere The Black Phone mi sono posto una domanda? Qual è stata l’emozione predominante durante la visione del film? La paura? Non molta, per la verità. La nostalgia? Sì, ecco.
C’è da un po’, nel genere horror in particolare, questo ritorno al passato dolciastro come l’odore delle carcasse nascoste a imputridire nel seminterrato del vicino sempre sorridente. E io ne diffido. Preferisco guardare al presente, ogni volta che vedo un horror mi aspetto che mi faccia riflettere sul mondo in cui vivo ora, non su quello in cui vivevo o peggio, non vivevo affatto, molti anni fa.

Di sicuro un buon horror cerca di raccontarmi la paura di oggi, non di ieri. E spesso un buon horror lo fa senza neanche troppo esserne consapevole. Voglio dire, bisogna studiare e interpretare socialmente un film come L’esorcista, anche a distanza di anni, approfondendo il contesto storico in cui è stato creato, per capire fino in fondo cosa stava dicendo al mondo e come mai il mondo fosse così interessato a vedere una storia su una bambina che si masturba con un crocefisso e vomita piselli in faccia a un prete.
 
Ce lo spiegò Stephen King nel suo saggio Danse Macabre perché: la piccola Reagan McNeil era l’emblema della paura che gli adulti di quegli anni avevano per i loro figli, così diversi, illeggibili, imprevedibili e aggressivi.
E cosa ci racconta The Black Phone su noi oggi?
 
Io credo qualcosa ce la dica: sulla paura che abbiamo del presente e soprattutto del futuro. Il film ha come oggetto magico centrale un telefono a muro, di quelli a cornetta e disco girevole, filo e tutto. Un modello di comunicazione che ci riporta a un tempo lontano, prima dello scisma sociale dovuto alla telefonia mobile. Ebbene, se è quello a doverci spaventare, allora è chiaro che stiamo scappando dal vero orrore, perché quel telefono ormai è fuori commercio, defunto, staccato per sempre.

Questo curioso reperto di un passato, che molti giovani nel pubblico non hanno neanche mai usato, è apparentemente, basandoci sui titoli di testa, un condotto tra il mondo delle tenebre e quello della luce. Poi scopriamo trattarsi di altro ma va bene così. Il male è incarnato nella figura misteriosa di un cattivone letale e piuttosto ciarliero. Compare sulla locandina e saprete già chi sia l’attore che lo interpreta: Ethan Hawke, esatto. La sua bravura è probabilmente la cosa più scontata dell’intero film; ma non riesce a salvarlo, sia chiaro, non è sufficiente.

A parte il telefono nero infatti, il film ricostruisce, fin nei minimi dettagli, la comfort zone dell’attempato fan di cinema horror: gli anni settanta americani. È un po’ quella che io chiamo la sbornia delle tre esse, vale a dire la sindrome di Stranger Things: il piacere non è solo nella storia o nell’interpretazione degli attori, ma si riversa sui costumi e le scenografie, la scelta dei brani in colonna sonora e la riproposizione ammiccante di vecchi stereotipi comportamentali e narrativi di anni lontani e soprattutto spaventosamente spensierati rispetto a quelli di oggi.

E così succede che un film che dovrebbe toglierci la comfort chair da sotto il comfort ass, lasciandoci tremanti in una stanza bianca a piena di scricchiolii, ecco che ci batte una calda mano sulla spalla, ci offre una Dottor Pepper, un mega-pacchetto di chips e ci apre il tendone sui bei tempi andati in cui le ragazzine ammazzavano le mamme con la telecinesi, un pagliaccio divorava i bambini da una grata del marciapiede e un cane gigantesco assediava una mamma e un figlio dentro una macchina. Erano gli anni senza parental control del dopocena di Italia 1, quelli dei video colorati ed entusiasti di Madonna e Duran Duran, gli anni di Karate Kid e Goonies, dell’hair metal e della nostra prima adolescenza, quando Freddy veniva a rimboccarci le coperte e sprofondavamo in un mondo benevolmente spaventoso. Erano soprattutto gli anni di Zio Tibia, vero?

Ovviamente agli italiani provocherà questo ritorno culturale ma in ogni paese occidentale i rimandi saranno variabili. Io parlo del mio di cui so meglio rispetto alla Francia o il Belgio. Noi eravamo dieci anni indietro e quindi un film tipo questo ci ricorda gli anni 80 e la TV, perché molto di quel cinema arrivò da lì nelle nostre vite, l’home video, i programmi della notte privata di Berlusconi.

Ma per dire, gli americani immagino abbiano sorriso quando hanno sentito i due piccoli protagonisti discorrere di Happy Days, o al momento in cui la chitarra di Edgar Winter esplode con Free Ride. Mi sarei aspettato più Don’t Fear The Reaper dei BOC e già che ci siamo una bella maglietta con i Kiss sopra e per un momento ho ceduto a scomposti entusiasmi quando è emersa On The Run dei Pink Floyd nel finale concitato.

Ma insomma, The Black Phone è tutto un “ma ti ricordi?”
“Sì, io mi ricordo”.
Come fa un horror a spaventare se ci regala un viaggio nel tempo caramelloso verso il nostro tempo perduto preferito?

Come fa a darci i brividi un vecchio telefono che squilla nel silenzio? Anche lì, era spaventoso, certo. Ma era. Quel telefono, cari uanini, non c’è più, quindi dormite tranquilli. Tutti quelli che come me hanno vissuto negli anni 70 e 80 la propria giovinezza, possono raccontare esperienze inquietanti legate al telefono di casa. Suonava nella notte, magari puntuale alle 3 e poi nessuno parlava dall’altra parte. Non si poteva scoprire chi fosse, forse il vicino burlone oppure il Mostro di Firenze. Anche se succedeva di pomeriggio, quando mamma e papà non c’erano, non era meno spaventoso.

Il telefono nero e quel drin la cui eco risuona anche molto dopo essersi esaurito, stregando il buio di una stanza, è davvero lugubre, vero? Ma è un lugubre nostalgico, perché non esiste più e fa parte di un mondo che non possiamo più recuperare, se non grazie a questo cinema rincoglionito che usa tranci narrativi di ieri per raccontare quanto siamo spaventati oggi.

Siamo così spaventati che preferiamo spaventarci con i vecchi mostri e non pensare a quelli nuovi.
Sono sempre gli stessi? Forse è vero, ma c’è modo e modo di rivenderceli.
In The Black Phone è tutto un amarcord kinghiano. E il figlio Joe Hill, mente creativa della storia ha ormai cinquant’anni, quindi temo ci sia più poco da aspettare per vederlo finalmente spiccare il volo. Si presentò con un nome diverso ma ormai abbiamo capito (vedi anche Nell’erba alta) che è chiaramente l’amministratore ereditario di una bottega horror ormai consolidata, generazionata, stilisticamente calcificata, che avrà sempre un modo preciso di spaventarci, con determinati ingredienti e uno scorcio temporale chiaro e riconoscibile.

Nel film potete trovare i ragazzini di Stand By Me, perché Finney e Robin, chi altri sarebbero se non Gordie Lachance e Chris Chambers? La sorellina è cuginetta di Carrie e di altre piccole eroine parapsichiche di King. E il loro avversario è sempre il solito vecchio It.

Dunque, a Stephen King, venne l’idea del pagliaccio assassino dopo aver letto le vicende aberranti del serial killer John Wayne Gacy. Era un uomo molto rispettato e attivo nella comunità dove abitava, si mascherava da clown animatore alle feste dei bambini e nel tempo libero ammazzava, sodomizzava e seppelliva nel seminterrato di casa sua, giovani ragazzi sbandati.

Chiaramente il cattivo di The Black Phone deve molto alla figura di Gacy e anche a quella circense di It: ci sono i palloncini neri e uno stile d’assalto molto vicino, se non ai clown, alla figura del mimo Marcel Marceau di Shanks mescolata a quella di Lon Chaney, l’uomo dalle mille maschere. Ma nonostante l’imput raffinato di un talento incontestabile come Hawke, la materia che gli è stata fornita è sempre un’appendice di Gacy/It. Ma pure qui a ben guardare c’è un sottile legame con l’attualità. Il Grabber infatti è un perfetto franchise da sfilata cosplay. Sembra tagliato su misura per le action figure e l’armamentario culturale dei nerd.

Quando poi nel finale i poliziotti scoprono tumuli e tumuli di terra nella casa dell’assassino, c’è un rimando documentaristico, stile docu-fiction di Netflix, a quel momento fatidico in cui, in un sobborgo di Chicago, gli agenti con le torce in mano sbiancarono davanti a un orrore a cui non erano preparati… La verità dietro il pacioso Gacy.

Il pacioso volto dell’America di Jimmy Carter che allo specchio scopriva gli schizzi di sangue su fronte e guance. C’è un sapore storico ben preciso alla fine del film e diciamo che affiora pure qui e là anche prima, che però fa a pizze con l’atmosfera super-naturale della vicenda. It era un mostro millenario. Qui il Grabber è solo un disadattato maniaco che agisce disinvoltamente nella totale indifferenza bonaria degli Stati Uniti.

Come se Scott Derrickson (io adoro il primo Sinister) voglia raccontare l’innocenza perduta degli USA anni 70 e i propri figli maciullati in una giungla lontana e allo stesso tempo anche nei sottoscala del vicinato all’America di oggi. Perché?

Beh, ci sarà un perché.

“L’America perdette la propria innocenza in quel tempo”.

Quante volte l’avete sentito dire? Sembra sempre che ciclicamente gli americani si sveglino dalla bambagia mentale e realizzino cose. Nel 2001 capirono di non essere così amati e temuti. Negli anni 70 di non essere così forti e infallibili, onesti e uniti. Oggi non sanno più nemmeno se potersi fidare del proprio presidente, che scatena colpi di stato dall’interno. Ed è forse questo il recondito senso di The Black Phone: l’America torna a sconvolgersi in casa propria, massacrandosi ancora una volta con le sue stesse mani.