Savatage – Tonight They Grins Again – Speciale dedicato a Streets – A Rock Opera tra dipendenze tossiche e Dio

Comprai il mio primo Metal Shock nel gennaio del 1992. In copertina c’era Steven Tyler a petto nudo che alzava le braccia in alto e apriva la sua enorme bocca mimando una posa un po’ folle e ridanciana. Allora non sapevo chi fossero gli Aerosmith e non sapevo tante altre cose. Grazie a quel numero, che lessi e sfogliai un’infinità di volte prima di ridurlo a brandelli e tappezzarci la cameretta, iniziai a farmi la mia cultura musicale, e tra le altre cose, seppi per la prima volta dell’esistenza dei Savatage. Non è che andai subito in un negozio a comprare i loro dischi, per la verità le due pagine in fondo a quel Metal Shock, con le foto in bianco e nero, non mi colpirono granché, tranne per un particolare. Il volto un po’ smargiasso e supponente di Jon Oliva somigliava parecchio a quello di mia madre quando cercavo di convincerla delle mie attenuanti riguardo la nota che il prof di Matematica mi aveva messo.

In particolare mi colpì quel naso puntuto.

Lui ne parlava durante l’intervista. Appena apre bocca, fa notare a Carmelo Giordano di essere italiano come lui e gli suggerisce di guardare il naso, “dalla tipica forma mediterranea”. Ehm… Va beh.
Non mi rimase impresso altro di quelle due pagine. Avevo così tanto ancora da scoprire. Pensate che poche pagine prima mi ero imbattuto in certi Black Sabbath, negli Skid Row e i Love/Hate, per non parlare dei già detti Aerosmith.

Quando giunsi ai Savatage non mi tirarono granché e basta. Del resto, una promozione così sfuggente su un disco enorme come Streets rende l’idea di quanto in Italia fossimo recettivi nei confronti del gruppo e la sua viva storia. So che c’era un fan club dedicato ai Sava e che contava tipo duecento persone, ma per tutti gli anni 80, da Sirens fino a lì, gli Oliva non si erano mai esibiti sui nostri palchi e non ricordo di aver mai avvistato i loro dischi nei negozietti della provincia in cui ho sempre vissuto e sanguinato.

A riascoltare oggi gli album storici ho l’impressione che i Savatage fossero in ritardo su tutta la linea (ma anche in anticipo). Però non erano mai in sintonia con i tempi commerciali del metal di quegli anni. Sì, ottennero un contratto discografico con la Atlantic in poco tempo e con merito, mentre altri gruppi notevoli annasparono parecchio prima di affacciarsi a certi livelli di professionalità, questo ci parla di una indiscutibile predestinazione, ma la loro buona disposizione verso il vento che tirava si ferma lì, perché album come Power Of The Night e persino Gutter Ballet mancarono l’attimo propizio, o per assenza di singoli commerciali efficaci o perché tutto sommato produttivamente troppo indietro rispetto alle tendenze giuste.

Prendete Streets.

Arrivò tre anni dopo rispetto al concept metal per eccellenza, Operation Mindcrime. I Queensryche avevano avuto il tempo di doppiarsi con un altro best-seller del cosiddetto “metallo intelligente”, Empire, mentre gli Oliva, pur realizzando qualcosa agli stessi livelli di complessità, maturità e intensità di Operation, lo presentarono con un sound che era già superato.

Nel 1991 c’era stato lo spartiacque del Black Album, per non parlare di Nevermind. Persino il super-costoso sound dei Def Leppard, in procinto di deflagrare nelle spompe classifiche rock italiane con il dimenticato Adrenalize, sarebbe risultato superato, dopo che loro avevano dettato e laccato l’andazzo per cinque anni. E i Savatage vestivano il loro disco più ambizioso e riuscito di una confettura poco intrigante e classicissima, ma dall’odore un po’ stantio. Così come i Queensryche avevano tratto spunto da Pink Floyd e Rush per elevare la formula Iron Priest sintetica dei primi album a livelli da arena rock, anche gli Oliva si aggrapparono alle palle dei grandi del rock teatrale come gli Who, Alice Cooper e Queen e ai musical di Andrew Loyd Webber, e ne trassero una genuina ispirazione, ma pompando la grandeur in uno scenario rock che invece si stava spogliando di tutto fino al beggar-sound di Seattle.

Oh, stiamo parlando di uno dei dischi metal migliori degli anni 90, ma se vi dico così, anni 90, davvero pensate che abbia detto la decade giusta. Streets doveva uscire nel 1988, o anche prima, per fare il botto. L’approccio sinfonico e operistico dei Savatage ha un po’ quel piglio alla Saranno famosi che nel 1991 era ormai estinto con le treccine di LeRoy.

Cos’hanno i Savatage da spartire con l’anima bio-degradata degli anni 90? Persino Dead Winter Dead, Handfull Of Rain o Wake Of Magellan, spiccano per qualità ma come bolle vaganti in un oceano di sperimentazioni evolutive con un occhio al mercato, dissonanze blese e produzioni al limite della lapidazione.

Questo erano gli anni 90.

L’investitura massiccia, orchestrale e pomposa dei Savatage non c’entrava nulla con le tendenze di quel decennio, ma aveva guadagnato un distacco nobiliare rispetto alle classifiche e i miraggi di successo che fino a Edge Of Thorne erano state la sferza sul culo delle ambizioni opulente di Oliva e O’Neill e che grazie alla Transiberian Orchestra avrebbero concretizzato qualche anno più tardi.

I Savatage erano sempre stati avanti e indietro, in un tempo tutto loro, anche se messi a più riprese in un corteo di lacca e frange, virtuosismi al fulmicoglioni e batterie terremotappe che levati dalle palle, per la madonna.

Streets – A Rock Opera oggi si presentò al mondo incompleto, esattamente come ogni grande capolavoro. Fateci caso, non ci sono classici di qualsiasi genere artistico che storicamente abbiano avuto una chiusa netta e pacifica. Sono tutti stati sottratti a forza dalle mani dei loro creatori. L’ultimo capitolo di La Certosa di Parma di Stendhal, per dire, è il riassunto di come avrebbe voluto finire il libro e non l’ultimo capitolo del libro. Per Streets c’era ancora molto lavoro da fare, parecchio materiale in attesa di una sistemazione, ma un giorno Jon Oliva non ne poté più e decise di scappare in Florida di nascosto, lasciando Paul O’ Neill solo in studio con il resto della band. A riguardo spiegò che se fosse rimasto ancora, sarebbe lì adesso a tentare di finire quel fottuto disco.

Streets è meraviglioso ma pieno di lacune. Alcune benedette, come la storia d’amore che non c’è. Tra le bonus track usate in seguito compare una ballad, incisa e cantata successivamente da Zack Stevens, che si intitola Desiree e nasce dalle sessioni di Streets. In alcuni brani, il protagonista DT parla a qualcuno, specie in If I Go Away (Se me ne andassi ora rimarrei uno spettro nei tuoi occhi, un sussurro in ogni tuo sospiro) e si capisce che c’è una lei, da qualche parte del suo passato.

E che deve essere l’immancabile e devota crocerossina annessa al disperato caso maniaco-depressivo di quell’uomo. Lei è masticata e risputata dalle cazzate e le follie del povero DT, e lui, fantasma tra le rovine, la invoca, nei rari momenti di vitalità.

Poi però il dialogo prosegue non con una donna, ma con un Dio (St.Patrick) e certi momenti non si sa bene se stia parlando all’Onnipotente o a se stesso. Vedi Can You Hear Me Now. Il che è interessante perché in fondo ci sono alcuni Vangeli apocrifi che ci dicono esattamente questo: leggi Dio ma devi capire Io e da qui potrebbe aiutarci il detto “aiutati che dio ti aiuta”.

Secondo voi cosa significa, il detto “Aiutati che dio ti aiuta”?

Che se inizi a darti una mano da te poi arriva il Signore e ti domanda scusa tutto trafelato e ti chiede, “a che punto sei? Bravo, ti sei portato avanti, ti sei aiutato da solo, adesso per premio, finisco io”
No, vero?

Aiutati che dio ti aiuta significa che se non ti aiuti da solo, non arriverà nessuno a farlo e che il solo dio in grado di amarti e di salvarti sei il fottutissimo te stesso.

DT è nella merda all’inizio della storia di Streets. Ha avuto successo sia come spacciatore che come rocker e alla fine le due cose si sono fuse nella classica dipendenza ego-cida di cui è piena la storia dello spettacolo.

Quando lo stronzo si accorge di galleggiare nelle fogne e di essere proprio lui a ritrovarsi lì, allora inizia un viaggio di ritorno fino alle punte delle scarpe della propria umanità perduta. Nonostante faccia le cose per bene per risalire la china, però a DT gli dice male e così ripiomba nella fogna (Sammy & Tex).

Da lì, il disco è straordinario, nessuno discute questo, ma sul piano narrativo non accade più granché. È una lotta introspettiva tra il tossico e il bambino da salvare dentro di lui e a dire il vero non si capisce neanche tanto bene, nonostante le fanfare e gli svolazzi un tanto al chilo del finale, se ce la faccia o no.

Statisticamente chi soffre di una dipendenza pesante non ne esce mai del tutto. Vedi Jon Oliva stesso, recentemente inguaiato per uso e possesso di stupefacenti.

Ma Streets è più di un racconto urbano di alienazione tossica. È un viaggio dantesco tra Satana e Paradiso, con momenti in cui Oliva e O’Neill non hanno remore a passar da retorici e leccare la figa al sublime.

Ma il messaggio del concept è chiaro. Non c’è un dio a cui dare la responsabilità se ti massacri con le tue stesse mani e nemmeno se il tuo migliore amico muore per causa tua e tu non riesci a impedirlo. Le chiese sono rifugi tiepidi in una fredda notte in città, ma lì puoi trovare solo il sottile bandolo del te perduto e rinnegato, non un’entità barbuta con le mani sanguinanti che ti vogliono afferrare in un orgasmico abbraccio astrale.

Ci sei tu, da qualche parte di te. In qualsiasi fogna tu sia, si tratti pure del peggior casino possibile. E come un dio, il te stesso vero, autentico, profondo, può salvare baracca e burattini, se riesci a convincerlo che gli darai ascolto e ti affiderai a lui. Cioè al te più puro e sano, per quanto incagliato in un roveto di visioni agoniche e farlocche estasi chimiche.

Madonna come scrivo bene.

C’è chi sostiene che Streets sia ispirato alle vicende reale di Jon Oliva anni 80. Lui è sempre stato un personaggio eccessivo che ha mostrato un indiscutibile istinto mortifero, specie durante il tour con i Megadeth al tempo di Hall Of The Mountain King, ma il libretto alla base dell’album, Paul O’Neill (che per chi non lo sapesse è il produttore, autore dei testi e ispiratore totale dell’ispirazione definitiva dei Savatage post Fight For The Rock) lo scrisse molti anni prima di assistere via Atlantic a un concerto della band e comprenderne la vera essenza mancata.

C’è da dire che nel momento in cui Jon iniziò a musicare e intonare i testi di Tonight He Grins Again e la battistiana A Little To Far, c’è da credergli sul posto che sa di cosa sta cantando, ma DT non è lui. DT è chiunque di noi.

Streets – A Rock Opera è anche uno dei più autentici resoconti su quanto il talento vero non sia solo un modo di far soldi e avere fama, ma sia un pegno divino di cui dobbiamo rendere conto, prima o poi.

Il mondo del rock ha sperimentato molto in fatto di dipendenze. Dietro le quinte della Stonehenge di carta pesta formato naturale dei Black Sabbath o nelle bocche affamate dei giganteschi alto-parlanti dei Kiss pittati e zatterati, c’è un gigantesco asilo di bambini folli, abbandonati, forgiati a morte da famiglie disfunzionali e adottati dal paese dei balocchi collodiano, desiderosi di affetto e soggetti a miriadi di compulsioni, attaccamenti e tremende delusioni, talvolta suicide, diventando carne da cannone per la cima delle classifiche.

“Sapevano a memoria ogni parola/Ma non mi hanno mai ascoltato davvero/Perché non sono mai cambiati dopo”. Questo canta Jon in Can You Hear Me Now e c’è tutta la verità dietro la morte dei troppi poeti sfollati, profeti pazzi e dei lucertoluti che si sono immolati per anni sui palchi, facendo il bagno nella vergogna e nel ludibrio, vedendo appannarsi ogni sera di più la sclera vetrosa che separava il loro sguardo da quello della folla incitante e assordata dalle proprie stesse urla idolatre.
Tené!