Ho una mia teoria riguardo le storie dell’orrore. Più sono lunghe e meno sono spaventose.
L’immagine, una situazione circoscritta, possono terrorizzarci, e per questo un racconto di poche pagine è probabilmente la dimensione ideale della narrativa terrifica, ma se un’idea, anche la più spaventosa, finisce per essere stesa e gonfiata in un romanzone di settecento pagine, è difficile che ci tolga ancora il sonno la notte.
E questo perché? Semplice, l’horror una volta superate le venti cartelle diventa intreccio e quindi avventura, romanticismo, indagine. Ma soprattutto avventura. E l’avventura, come genere narrativo è avvincente, appassionante, ma di sicuro non spaventa, vi pare?
Non sempre è così. Shining di Stephen King resta abbastanza spaventoso nonostante la sua lunghezza. Una delle cose più inquietanti di Ramsey Cambpell è il romanzo La bambola che divorò sua madre. Ma in ogni caso queste storie mettono paura per via di alcune situazioni circoscritte, non tanto per l’intreccio totale.
Ghost Story di Straub mi fa venire ancora i brividi per una cosa che succede a un certo punto, ma ricordo con una grande insofferenza il dilungarsi della vicenda oltre le quattrocento pagine, fino all’epilogo della vespa intesa come insetto e non ciclomotore. L’intreccio è sempre avventura o addirittura, come per It, storia di formazione.
Quindi non mi sorprende che Cerimonia di sangue, comunque uno dei migliori romanzi horror mai scritti, finisca per depotenziare l’atmosfera e l’idea originale in una saga avventista di quasi settecento pagine. Mentre il suo nucleo originale, pubblicato alcuni anni prima e uscito col titolo The Events at Poroth Farm (edito in Italia sul primo numero della rivista Hypnos) mantiene ancora potenza e malignità a livelli di saturazione ossessiva, nonostante siano passati molti anni e la versione lunga abbia preso il posto del racconto iniziale, negli annali della letteratura lovecraftiana più spinta e ispirata.
Quello che voglio dire è: riuscirà il pavido e flaccido eroe (Jeremy Friers) a salvare la bella e implume (Carol) dalle grinfie del Grande Antico priapolipesco? Ma che mi frega!
Sospetto che tra le fonti d’ispirazione della cover di Fear of the Dark ci sia proprio il romanzo di T.E.D. Klein, Cerimonia di sangue.
E allora come ho fatto a finire il libro, così lungo, se non ero interessato al finale?
Perché è scritto davvero bene. I personaggi sono appassionanti, soprattutto la coppia di contadini devoti Sarr e Deborah Poroth. La tensione erotica tra loro, Friers e l’ex suora Carol, è deliziosa. Per non parlare della progressiva e inesorabile cerimonia, costruita come un castello di carte in un clima stagnante e afosissimo dal piccolo Rosie. Klein soprattutto grazie a quella ci seduce, sorprende e inquieta parecchio, soprattutto tenendo a distanza la solita paccottiglia da psico-dramma come altari e vergini, almeno fino alle ultime pagine. Conduce il lettore in un sentiero a sinistra che già conosce bene, ma glielo fa percorrere praticando strane danze, farneticando lingue antichissime e provocandogli strane erezioni nei calzoni umidi.
E a proposito di erezioni e ditalini, c’è chi ha criticato il libro di Klein per il trattamento sciovinista e violento della povera verginella Carol, ma credo sia una cosa inutile. Le polemiche sessiste, sollevate sul web da qualche femminista digitale, sono tanto tipiche di questa epoca cerebrotica quanto il sessismo è parte integrante della spensierata vivacità cul-turale degli anni 80, decade su cui il libro fa in tempo ad affacciarsi e che in parte anticipa, pur tenendo le proprie radici nodose nel suolo folk horror delle profonde insenature contro-culturali: passando tra Vietnam, Watergate, Greenwich Village e Charles Manson.
Ma cosa sappiamo di T.E.D. Klein? Poco. di lui non c’è quasi niente in giro per la rete sia in termini di pubblicazioni che di notizie. Tutto quello che so lo devo a dei libri che stazionano nella biblioteca di casa mia da trent’anni. Nei primi 90 infatti, grazie all’uscita di questo suo grande romanzo da Sperling, e di una raccolta di racconti lunghi negli Oscar Horror Mondandori di cui tratterò più avanti (Gli dei delle tenebre) di T.E.D. Klein si parlava abbastanza e il suo nome era frequente nelle antologie horror. Lippi e gli altri curatori nostrani, lo collocavano senza esitazione al livello di Clive Barker e Peter Straub (per non tirare in ballo il solito King).
Ciò che non sapevano era che Klein già allora aveva scelto non si sa quanto consapevolmente di pensionarsi.
Sia chiaro, è davvero un grande autore di narrativa horror ma si è esaurito prestissimo. Tutte le cose da lui pubblicate nel giro di pochi anni, sono straordinarie, per quanto siano derivative e omaggino con grande intelligenza gli autori che ama. Il dio di Nadelman è probabilmente la miglior cosa mai scritta in calce ai miti di Cthulhu. Purtroppo si è fermato subito. E di lui ora non si sa più nulla. È vivo, da qualche parte. Si è ritirato dal giro delle riviste specializzate e dal cinema. Ha diretto il magazine Twilight Zone per anni e pare che l’abbia fatto davvero in modo eccellente. Ha scritto la sceneggiatura di Trauma con Dario Argento e forse questo è uno dei motivi per cui dopo si è definitivamente ritirato dalle scene.
In una intervista che risale al 2016 e che ho trovato su google libri, Klein spiega la sua scarsa produttività con l’immane fatica che gli è costato realizzare ciò che è riuscito a concludere. A proposito di narrativa fantastica, sempre nell’intervista, si dichiara ormai fuori allenamento, disaggiornato sulle tendenze e le novità e alienato alle Convention degli addetti. “Leggo libri di storia e di scienza, saggi per lo più”.
Dopo l’uscita di The Ceremonies, pur ammettendo già di essersi sentito davvero sfinito da uno sforzo creativo così massiccio, aveva annunciato di essere al lavoro su un nuovo libro: Nighttown. Dagli anni 80 che lo cominciò, Klein probabilmente deve ancora finirlo. O forse l’ha finito e ha preferito non pubblicarlo perché gli fa schifo.
Poco importa.
T.E.D. resta un grande e Cerimonia di sangue uno di quei titoli obbligatori. Stephen King lo mette nell’elenco dei suoi dieci romanzi preferiti, quindi fate un po’ voi.
Vi diranno che ha un ritmo lento, ma io vi garantisco che è il ritmo giusto per la storia che racconta. Il passo indolente e un po’ assonnato della narrazione mi ha ricordato quello di un altro grande polpettone estivo da brividi, vale a dire L’altro di Thomas Tryon.
C’è chi sostiene che il finale sia un po’ sbrigativo e privo di passione, come se l’autore avesse deciso a chiudere la storia in modo frettoloso, anche se per chi ha fretta, un centinaio di pagine mi sembrano un po’ troppe. No, il finale può sembrare poca cosa, prevedibile e in anticipo sull’estetica nippo-porno dilagante, anche se a me non è spiaciuto.
È che Klein prende una tale rincorsa prima di arrivarci, che una volta lì, calciando finalmente la sua palla di cannone, oltre a fratturarsi l’alluce, si rende conto che non può buttare giù la montagna e che forse ha sbagliato a dedicare a un falso allarme tutte quelle pagine.
Chiude con una paginetta di Epilogo che è tutto tranne un lieto fine, anzi, sembra volerci ricordare che forse le cose non sono tornate a posto e converrete con lui che non potranno mai farlo davvero se avete visto quello che avete visto.
Ma è tutta una cosa al servizio dei bambini che necessitano di una storia. Per chi si accontenta delle sensazioni e colleziona ragnatele da mettere sotto al cuscino, bastano gli acquitrini di McKinney Neck e la donna nuda che striscia con una candela in mano.
Secondo me a T.E.D. interessavano molto di più le implicazioni collaterali che la vicenda centrale. Il vero bisogno alla base di un tale sforzo narrativo, non è stato quello di inscenare i preparativi per un’apocalisse lovecraftiana. Lovecraft, tra l’altro non è il fulcro del libro. The Ceremonies infatti omaggia, e per certi versi vendica, la narrativa di un altro grande incompreso della letteratura fatnastica: Arthur Machen. E con lui tutto il gotico letterario prima di arrivare a Lovecraft, che Klein non solo rievoca in modo divertito e sornione ma che prende letteralmente di mira con un certo piglio dissacratore.
Il protagonista della vicenda, Jeremy Friers, è infatti un raziocinante, giovane professorino di città, che decide di trascorrere le vacanze estive in una vecchia fattoria lontano da tutto, in una comunità religiosissima in prossimità delle paludi del Jersey. Siccome ha una ferita da ingiustizia (questa non la capiranno in molti) porta con sé una sfilza di romanzi gotici da studiare in vista del corso che terrà l’anno successivo all’università. Friers è il protagonista ma non vi risulterà simpatico e non farà nulla per esserlo. Grazie a lui e il suo ripasso ripercorriamo anche noi, tutti quei titoli che hanno segnato la nascita e l’evoluzione del genere che amiamo, di cui Klein è uno degli ultimi e più ispirati prosecutori.
Mentre Friers stronca Dracula e Melmoth, si appassiona a Walter De La Mare e si domanda chi abbia spostato sugli scaffali Saki alla S, visto che lui l’ha messo alla lettera m di Munro, c’è tutta una cosa tremenda che si sta preparando intorno al misero pollaio reinventato come appartamentino dai contadini puritani, tra la pergola mangia-muri e il denso fogliame boschivo nel retro. Una roba davvero grossa che è stata avviata oltre un secolo prima e che ha già prodotto due ammazzamenti rituali persi nelle vecchie cronache, un incendio terribile scaturito proprio dalla fattoria molto tempo prima e soprattutto una serie di omicidi e terremoti inspiegabili che da New York si propagano fino a quel buco di culo campagnolo in cui Friers langue leggiucchiando, desiderando la bella affittuaria, lamentandosi delle zanzare, del caldo e della propria scarsa determinazione a perdere qualche etto.
Leggendo il romanzo ho notato una cosa che mi permette di fare una piccola deviazione necessaria. La storia è ambientata nel 1975 ed è ricca di rimandi culturali. Al contrario di come si fa oggi però non sono mai contemporanei. Si accenna alla primavera di Stravinskij, alle sinfonie di Dvorak, a scrittori dimenticati dell’ottocento più nero e un film sulla scoperta della morte che fareste bene a recuperare, Giochi proibiti di René Clément. A proposito di cinema, Friers a un certo punto, attacca un manifesto di Providence di Resnais alla parete del suo alloggio in campagna e guarda caso è un film del… 1977. Errore dovuto al fatto che Klein ha iniziato a scrivere la storia nel 1975 e ha deciso di ambientarla in quell’anno. Potrebbe essere stato uno degli anni con un mese di due lune o forse no, il 1975… comunque ne ha impiegati altri cinque per finire l’ampliamento dei Fatti accaduti alla fattoria Poroth in quel romanzo pingue; deve essersi inserita un po’ della realtà successiva al ‘75, quindi.
Ma non conta. Ciò che vorrei far notare è come in un libro realmente scritto negli anni 70, esista la musica ed esistano altri richiami storici, ma non rappresentino quel tempo. Come avviene nel mondo reale, siamo persi a sentire e vedere e consumare cose antecedenti ai nostri giorni. Oggi però, un romanzo o un film ambientati nel 1975 sono un catalogo dei film, i telefilm e i singoli che uscivano allora; prendi Black Telephone di Scott Derrickson o la versione anni 80 di It di Muschietti. Che due palle. Sta cosa mi infastidisce quasi quanto il politically correct di Netflix.
Il libro è anche una riflessione su come immaginiamo l’orrore e sui “reali” veicoli che il mostro sceglie per manifestarsi a noi. Per esempio, i riti per l’apocalisse, potreste trovarli, non negli antichi libroni impolverati sepolti tra le grinfie di qualche vecchio stregone, ma in un banale tomo sulla danza agrese, in edizione economica, poiché “non esistono veri segreti, l’Antico lo sa. È, in definitiva, troppo difficile nascondere i segreti. Le chiavi ai riti che trasformeranno il mondo non sono né celate né rare, e neppure costose. Sono accessibili a chiunque. Si possono trovare sulle rastrelliere che ospitano le edizioni economiche o in qualunque libreria che smerci libri usati. Bisogna solo sapere dove guardare… e come fare combaciare i pezzi.
E l’aspetto di un demonio non sarà quello di un torreggiante e arcigno puntaspilli umano, con buona pace di Clive Barker, ma un ometto simpatico e sorridente con l’aspetto di Michey Rooney. Mi riferisco al personaggio dell’Antico. Si fa chiamare Rosie, sembra l’essere più innocuo del mondo ma strozza gattini e li butta nel cestino dopo colazione.