Il periodo più felice della tua vita con i Crowes?
1992, senza dubbio. Avevamo un album numero 1 in America; eravamo una delle più grandi band. Southern Harmony è stato senza dubbio il nostro disco più forte. Non siamo entrati nelle arene quando lo facevano gli altri. Noi ci esibivamo nei locali, con l’aria rarefatta e quello fu il momento, amico. Ogni cosa era allineata. Tutti erano di buon umore e l’intero sogno si stava realizzando. Chris Robinson
Oggi vedersi davanti un gruppo come i Black Crowes, vale a dire ragazzini che si vestono e suonano la musica di una generazione o due antecedenti alla loro, non vi farà caso. Persino Amy Whinehouse, con le sue acconciature e gli arrangiamenti soul in bianco e nero, fingeva di essere una dea degli anni 60, anche se era cresciuta con il rap e veniva da un quartiere inglese alla Ken Loach anni 90.
I Greta Van Fleet sono un altro esempio (per non citare i Maneskin) ma non rappresentano una reazione all’ambiente, un gesto di ribellione al sistema, anzi.
Quando i Black Crowes spuntarono fuori come un residuato da arena rock del 1971, le radio trasmettevano i Bon Jovi, i Metallica e i Guns. Stava per arrivare il grunge ma nelle radio americane dominavano ancora i Nelson. Shake Your Money Maker, nonostante i suoi propositi retro-attivi, vendette uno sfacelo di copie, dando ragione a quei pischelli con le giacche di velluto, le sciarpe floreali e le pose dinoccolate da hippie fumatori d’erba.
La stampa inglese li stroncò dicendo che non stavano proponendo nulla di personale, solo vecchie idee rubacchiate da Humble Pie, Lynyrd Skynyrd e Stones, ma non si rendevano conto che sotto l’apparente celebrazione dei grandi padri del genere, non c’era il passato, bensì il futuro. Che poi è questo presente revivalista del cazzo.
Inoltre i Black Crowes, nonostante i mugugni di tanta critica, stavano scrivendo la propria musica usando una grammatica antica e una sintassi desueta, non si limitavano a riprodurre copie sbiadite dei classici. Potete spogliare i brani dei primi due album di quegli arrangiamenti vintage, ridurli all’osso di un’acustica e un falò, ma anche stasera, roba come Remedy, Thorn In My Pride o She Talks To Angels si reggono in piedi da sole ed emozionano. L’abito non faceva il monaco, lo vestiva soltanto.
Noi pensiamo che quelli che si lasciano manipolare dal produttore siano degli imbecilli. Io non conosco produttori come Bob Rock o giù di lì… sono sicuro che siano persone molto in gamba; però è stupido, secondo me, che il produttore abbia più importanza della band. Penso ci sia più soddisfazione ad ascoltare un disco che è una schifezza ma l’hai fatto tu, come lo volevi, invece di un disco di grande successo dove ha fatto tutto il produttore. CHRIS ROBINSON
Adesso molte case discografiche cercano quatto o cinque ragazzini con begli occhi e capelli fluenti, chiamano Desmond Child o un altro famoso hit-maker che gli scrive dodici canzoni per il disco, interpellano un famoso regista per filmare il video, lanciano il gruppo sul mercato; questo vende milioni di copie e tutti sono contenti. Alle case discografiche, nella maggior parte dei casi, non importa assolutamente niente di scoprire dei nuovi talenti, di dire “wow, questo gruppo è grande, sta facendo cose nuove, cerchiamo di farlo conoscere”. Se sentono odore di successo, allora lo prendono subito, sennò niente. RICH ROBINSON
Certo, allora i fratelli fecero tanto parlare i giornali, ma non sempre di musica. Cominciarono litigando con gli ZZ Top che poi li cacciarono a pedate dal tour. Se la presero con il grosso sponsor della birra Miller e spararono raffiche su tutti i marchi che al tempo finanziavano (e stra-lucravano) sui grandi eventi rock. Dissero male di molti colleghi e del sistema discografico. In occasione del secondo album Southern Harmony, cacciarono il produttore dallo studio e fecero il disco da soli. Inoltre erano capaci di picchiarsi a sangue, anticipando le colluttazioni da gossip dei fratelli Gallagher.
La tensione tra i fratelli è sempre esistita. Era lì prima che facessimo il nostro primo disco. L’unica differenza ora era che c’erano molte persone nel mezzo: manager, avvocati, ragazzi dell’etichetta. Questo rovina la comunicazione. Quindi, quando c’erano delle fratture, era più difficile rimetterle insieme. Le spaccature erano reali? Sicuro. Ma ai giornalisti piaceva trasformarli nei nuovi fratelli Davies. Ne hanno ricavato molto di più di noi. Siamo cresciuti nel sud, una cultura in cui le persone si prendono a pugni in bocca quando sono arrabbiate. JOHNNY COLT
E poi dichiararono di amare le droghe, presentandosi alle interviste in condizioni a dir poco trascendentali, al punto che un bel giorno, i genitori delle due coriste nere costrinsero le figlie a licenziarsi dal tour di quei “miseri fattoni”.
In quel periodo c’era un bel ritorno all’attitudine originale del vecchio rock. Il cantante dei Blind Melon pisciava sulle prime file ai concerti, ricavando con suo disappunto solo denunce e conti della lavanderia. Axl Rose lasciava il pubblico in attesa per tre ore prima di salire sul palco e quando arrivava, il pubblico era ancora lì. Gli Alice In Chains si facevano le pere e non lo nascondevano.
E i Black Crowes si sentivano molto a loro agio in quel contesto, dichiarandosi sodali con l’attitudine fuckista dei Guns e cacciando i falsi e viziati Ugly Kid Joe dalle loro feste.
In realtà i fratelli Robinson sono realmente antipatici e un po’ saccenti e i loro album un palese elenco di citazioni pedisseque, ostentate senza alcun pudore dai signori in questione. È vero che Chris Robinson compone spesso buon materiale, ma per mettersi al riparo da qualsiasi tipo di strale dovrà prima trovare quell’identità sonora che al suo gruppo (a prescindere dal successo) ancora manca. (HM – Roberto Gandolfi – 1992)
Esatto, c’era il successo e non li mollava. Anche se i giornalisti li smerdavano e i critici sollevavano più di un sopracciglio davanti ai loro dischi, i Black Crowes vendevano e vendevano senza svendersi. Nel 1992 poi, come dice Chris all’inizio, le cose andarono tutte nella buca giusta e c’era poco da fare per gli altri. Era il momento dei sogni che si avverano. E che finiscono per diventare incubi. Perché dal successo iniziarono a girare sul serio le droghe pesanti e una gigantesca fauna di parassiti, ladri e puttane invase i camerini del gruppo dal giorno alla notte, trasformandosi nel solo mondo in cui potevano muoversi.
Dopo quarant’anni, Southern Harmony resta con le chiappe in sella al toro del tempo, anche se ascoltandolo mi sono accorto di quanto fosse rivelatore di certe cose che allora nessuno poteva notare. Per cominciare è un disco incredibilmente pudico.
Sì, ok, ci sono le uscite rock and roll lascive:
Will you let me show you what I mean?
Will you let me come on inside?
Will you let it glide?
Ma se vi scandalizzate per così poco allora non avete mai sentito le cose che nello stesso periodo pubblicavano i Love/Hate, per dire i primi che mi vengono in mente.
Ma a parte il sesso, ancora oggi quasi ogni verso di Southern Harmony è interpretato dagli esegeti della rete come un incoraggiamento a farsi di eroina, non sto scherzando. Brani come Remedy sono diaboliche trappole multi-strato, ma è negli scorci esistenziali più mesti e cupi come Bad Luck Blue Eyes Goodbye e Hotel Illness, che si capisce quanto i Crowes fossero ancora dei ragazzini acerbi che guardavano il mondo strabiliati dal treno dei desideri.
Chris l’avrebbe ammesso due anni più tardi, in occasione delle interviste promozionali per Amorica, che nel 1992 non sarebbe mai riuscito a cantare frasi come “ti amo, ti voglio”, perché la cosa l’avrebbe fatto sentire troppo in imbarazzo.
E in effetti i ritratti femminili che infestano il cuore di Chris nei primi due album sono un misto di Albechiare e le solite ancelle destabilizzate che un tempo si chiamavano groupies e che lui stringe al petto tutto dubbioso, prima di vederle scomparire dal riquadro di vetro del lussuoso bus pagato dalla Def American Records di Rick Rubin.
Pochi anni fa, parlando di un brano ormai entrato a forza nei repertori dei matrimoni, She Talk To Angel, Chris ha ammesso che quando lo scrisse era un ragazzo ingenuo e inesperto su tutto, quel pezzo era solo un tentativo di realizzare una sceneggiatura per un film di Robert Altman usando il testo di una canzone. “Non mi sarei mai fumato nulla allora. Non mi drogavo. Immaginai questa ragazza senza averne mai conosciuta una così nel mondo reale”.
Un pischello che allora veniva dall’ascolto non dei Bad Company o gli Zep, ma dal goth rock e il post-punk inglese. Anche se nel 1992 non lo avrebbe ammesso neanche davanti a un fucile spianato, era così. Chris e gli altri Crowes avevano iniziato con l’hardcore e si erano imbrigliati appresso a Siouxie & The Banshie, i Sex Pistols, i Dream Syndicate e l’indie rock dei REM prima di scoprire Otis Redding e Rod Stewart.
Non avevamo ancora trovato la nostra connessione con la musica roots, non avevo davvero trovato la mia voce. Non lo sapevo. Sono cresciuto ascoltando P-Funk, Prince, Lakeside e SOS Band. Venivo da Atlanta e dalle mie parti c’era anche molta musica black. Sly And The Family Stone, James Brown e poi la roba R&B, Otis (Redding), Sam & Dave, Chuck Berry, Bo Diddley, Buddy Holly, tutte queste cose. Quindi iniziammo a lasciare che queste cose entrassero nella musica che creavamo, ma fu George Drakoulias, il nostro produttore che un giorno mi suonò “Miss Judy’s Farm”, dei Faces, e per me fu la fine. Conoscevo Rod Stewart da altre cose, non sapevo nulla dei Faces. Non li passavano mai su 96 Rock ad Atlanta. E non hai mai sentito quella musica nemmeno nella nostra scena punk/new wave. Da lì iniziai a usare la mia voce in modo completamente diverso identificandomi via via con tutto quel mondo rock/soul. Alla fine di una serata mi si avvicinava qualcuno e mi domandava, “ehi, conosci Terry Reid, Lowell George, Steve Marriott?” E io: “certo, poi però correvo a comprarmi tutti i loro dischi e mi dicevo, ehi, ecco la strada. CHRIS ROBINSON
Quando uscì Southern Harmony, nessuno parlava di “Southern Rock” e in effetti non ricordo di aver mai letto negli articoli dedicati ai Crowes, di qualche tentativo di etichettarli. Erano una rock band, tutto qui, anche se finivano pure sulle riviste metal. E non si capisce la ragione. Non capitava mai di trovarsi davanti a un bel riffone sostanzioso.
I brani del loro secondo disco in particolare erano tutti piuttosto rilassati, anche se Rich avrebbe sempre parlato di “otto giorni rabbiosissimi” in cui il gruppo era entrato in studio a testa bassa, dopo aver trascorso mesi a comporre e arrangiare fin nei minimi dettagli l’intero album. A tratti sembra che il silenzio tra un pezzo e l’altro non sia vuoto, si sente la band che finita una canzone si prepara a fare quella dopo, come in un live in studio. Per loro era fondamentale non tergiversare in sala d’incisione, magari rintanandosi mesi e mesi a cesellare ogni cosa. Doveva cavarsela in pochi giorni, come una vera rock band al tempo in cui il rock cambiava davvero la vita alla gente.
Non si avverte la tensione, devo dire. C’è un’atmosfera densa, ma tutto sommato soffice e leggera. Soprattutto Southern è suonato in modo diverso rispetto alle cose che il rock produceva nel 1992.
Più avanti la cosa sarebbe diventata evidente grazie all’album Amorica, ma già lì c’è un lavoro molto rischioso e indisciplinato nelle esecuzioni. In particolare mi riferisco al cantato. Provate a seguire Chris e ve ne accorgerete. Vi sembra che ripeta sempre le stesse due o tre melodie portanti in ogni brano, ma fa così tante variazioni che dopo un po’ non riuscirete a stargli dietro. E il produttore George Drakoulias, su Shake Your Money Maker lo strigliò parecchio per questa sua tendenza a non seguire la linea della chitarra di Rich, ma Chris istintivamente, proprio come i grandi rocker, sapeva che poteva permettersi quella libertà. E infatti nessuno si accorge di nulla finché non prova a fargli il verso ancora oggi, di quanto è folle e selvaggio come interprete.
Ma se in studio c’era voluto un disco e quattro milioni di copie vendute per poter dare ai Black Crowes il diritto di fare ciò che sentivano senza interferenze di nessun genere, dal vivo erano stati un macello da prima. Non nel senso che non sapessero suonare i pezzi degli album. Gli piaceva improvvisare parecchio. Si ispiravano agli Zep e reinventavano le canzoni condividendo con il pubblico il fenomeno dell’ispirazione; quindi sì, avevano la scaletta con le hit e tutto il resto, ma poteva capitare che un brano come Thorn In My Pride durasse venti minuti e non i sei e tre secondi dell’album.
Ecco uno stralcio di un report del 1991 per farvi capire meglio:
“I Black Crowe non stanno collaborando. Dopo aver aperto con due nuovissime canzoni di sei minuti, suonano i successi Hard To Handle e Twice As Hard , ma poi tornano subito a materiale più sconosciuto. Questo è il genere di cose che ha fatto impazzire i loro manager nell’ultimo anno. Già prima che la band passasse allo status di headliner, mentre aprivano i concerti per Robert Plant, Aerosmith e ZZ Top il loro manager, Pete Angelus, spesso stava dietro le quinte, urlando: “Suonate il dannato disco!”
Ma questa anarchia sul palco non infastidiva tanto il pubblico, magari lo confondeva un po’. Gli sponsor però impazzivano di rabbia. E a fine esibizione tiravano le orecchie al gruppo ordinandogli di fare i brani famosi e nella lunghezza che il pubblico conosceva. Ecco come mai i Crowes avevano dichiarato guerra alla Miller.
A quel tempo avevano le palle e vendevano, quindi erano completamente fuori controllo. Il colosso della birra gli intimava di fare esibizioni normali? Fanculo, o così o potete cacciarci! Dopo averli cacciati li ritrovavi comunque sul carrozzone del Monsters Of Rock, mica in qualche localino di Atlanta a piangere miseria. E di fronte a migliaia di fan acclamanti, si sganasciavano alla faccia degli ZZ Top. Il gruppo texano, i simpatici veterani barbuti che quei ragazzi ammiravano tanto, erano colpevoli di aver chinato la testa e ubbidito a tutto ciò che la Miller chiedeva. Allora fanculo anche loro.
Ma oggi di tutto questo non resta più nulla, a parte i dischi. E i Black Crowes, al tempo ne erano già fortemente consapevoli. Per questo ce la misero tutta a realizzare il meglio che potessero. Dei primi due preferisco Southern Harmony And Musical Companion a Shake Your Money Maker. Magari questo elettrizzante e più solido, ma ha più anima e non ha mai smesso di dare il buon esempio su come si scrive grande musica anche utilizzando suggestioni di un’epoca in cui non si è cresciuti.