Non è vero che facciamo dischi sempre uguali. Per esempio in questo nuovo, Alissa canta anche pulito sul primo brano, poi non c’è un’introduzione strumentale in apertura. Ne creo sempre una ma qui manca e se fai attenzione, il brano Sunset Over The Empire ha un inizio mai usato da noi: prima c’è il basso, poi entra la batteria e poi le chitarre a chiudere. Sono piccole cose ma di sicuro fanno la differenza, per noi la fanno, anche se tu non te ne accorgi – Mike Amott
In pratica sembra di giocare a “trova le differenze”, con i dischi degli Arch Enemy, vi pare? Ne producono con insopportabile regolarità, paciosi e rispettando la formula con tutti gli ingredienti consueti e sempre graditi. Come la Nutella, che fa ingrassare e venire, carie brufoli e diabete.
Deceivers è senza dubbio un buon lavoro, con il solito tocco caramellato di Mike Ammott, il quale resta uno dei chitarristi e compositori più riconoscibili e ispirati in circolazione. Mescola vecchi riff dei Priest, Carcass, Accept e melodie neoclassiche scippate a qualche festival di San Remo anni 60, con la disinvoltura degli dei, impastando la farina primordiale e gettando nel mortaio spezie e bestemmie di svariati colori in una notte di ottimale tregenda. Me lo immagino in saletta come un fornaio alla Bonci, un po’ sovrappeso ma generoso e felice nell’attitudine alla ricca porzione. La radio suona su una stazione di vecchi successi, stando in guardia a cambiare o spegnere appena arriva il bollettino con i morti e i contagiati.
Gli Arch Enemy ormai sono inappuntabili. Hanno la più versatile, carina e cazzuta front-girl del metal estremo, Alissa eccetera eccetera. Possono permettersi il lusso di usare come turnista Jeff Loomis, che ricordiamocelo un attimo, era il compositore principale dei Nevermore. Cazzo, i Nevermore!
E dietro le quinte, Angelona Gossow non smette di amministrare alla grande gli interessi del gruppo, che è a tutti gli effetti una gran bella famiglia tra birre, rimmel e grandi festival.
Cosa troviamo nell’uovo di cioccolato Deceivers? Uhm, per esempio, si parte della grossa con Handshake With Hell, che è una specie di piccola suite progressiva per i livelli molto inquadrati della band: parte con la solita intro (non c’è un intro cosa?) ma inglobata nel brano e prosegue passando da Painkiller fino ad arenarsi nel sinfo-medol alla Nightwish. Piaccia o meno, è un bel movimento in generale. Alissa canta pure in clean, cavandosela benissimo come sempre. La melodia portante del pezzo è il consueto omaggio inconsapevole di Mike a Umberto Bindi e la scuola genovese. Da paura.
Poi che altro arriva? Più o meno le solite cose fino a House Of Mirrors, che oltre al verso più significativo dell’intero album (“in una casa di specchi non sei mai solo”), poggia su un bel fraseggio e così anche la satanesca Spreading Black Wings.
Però la produzione, stavolta a opera di Jacob Hansen, resta troppo levigata e discreta come dal 2005 a oggi.
Dai, non c’è mai nulla che pugni e graffi davvero in un disco degli Arch Enemy, tutto è educato, mirato, smussato fino a livelli da filodiffusione aziendale. E tutto è noiosamente impeccabile, come quasi tutto il metallone istituzionalizzato che esce in questo 2022.
I Kreator e le menate contro i totalitarismi, i Belphegor e i soliti pasticci tra satanassi e diavolesse, gli Amon Amarth con gli infiniti saccheggi vichinghi, i Coheed And Cambria e le loro interminabili seghe melo-spaziali. E gli Arch Enemy e la distruttività in prima persona plurale (noi famo questo, noi famo quello)… Cazzo, gente, finalmente sono ricominciati a uscire i dischi grossi, ma sono stati scritti in media tre anni fa. Vale a dire prima che succedesse quanto è successo col Covid.
Prima del grande sconquasso. In condizioni così particolari uno si aspetterebbe qualcosa di anomalo, come le uova deformi e molli nella fattoria Poroth durante l’avvento del Dhol. Ma in questi album, realizzati quasi tutti in grande differita rispetto alla realtà in cui escono, non c’è nulla che lasci presagire ciò che stava per succedere e sembrano essere stati impermeabilizzati a ciò che succedeva mentre succedeva. E ora con il ritorno dei concerti, i festival e i soliti nomi, tutto sembra come prima. Soprattutto ascoltando le “nuove” canzoni di Arch Enemy e co, non c’è nulla che ci aiuti ad affrontare quello che abbiamo attraversato e stiamo davvero ancora attraversando.
L’arte prima della tempesta è prevedibile, abitudinaria, solo una canzone e poi un’altra per un nuovo disco da pubblicare e un tour da fare. Ascoltando il nuovo degli Arch Enemy, che ci parla comunque di apocalisse, di imperi che implodono e stermini di massa, continuo a pensare che il metal, come tutto il resto, nel 2019, si sia fatto trovare a braghe calate e ora pubblichi l’istantanea di quella totale incapacità profetica. La cosa imbarazzante però non è l’aver composto musica qualsiasi prima che il mondo cambiasse di brutto, quello che non accetto è che ci servano fredda quella cena sciapa a che noi affamati di nostalgia fingiamo ancora di goderne, come se dal 2019 non fosse cambiato nulla, incluso il nostro palato, che non dovrebbe più sentire i sapori.
E invece è cambiato tutto, non ci prendiamo per il culo. Le band dovrebbero mettere da parte le session del 2019, per quanto buone e ricominciare da zero, come hanno fatto gli Immortal Guardian, per dire. E partire da ora a raccontarci la vera apocalisse. Non è giusto che riceviamo lettere dal male così in differita. Abbiamo bisogno di nuovi aggiornamenti dalla cloaca nera che ci circonda e che avanza.