Non fare una mossa, non emettere un suono
Guardalo cadere, guardalo cadere
Senti (il mondo) mentre va giù, è bello lasciarlo andare
Io ho questa percezione della musica heavy metal. Fino ai primi anni 2000, ho visto un intero genere evolversi, ramificarsi, ingrandirsi con un andamento più o meno costante, che va, mettiamo da un punto A a un punto F. Dal 2006/7 circa, è accaduto qualcosa che ha interrotto questo viaggio. I gruppi, uno dopo l’altro, dai più spericolati e sperimentali ai più moderati e conservatori, sono tornati indietro, hanno invertito la rotta, dando il via a un ritorno a casa sempre più noioso e depressivo.
Itaca però non esisteva e non è mai esistita, se non nella testa di tutti questi Ulisse stanchi e impauriti di scoprirlo e ancora convinti che manchi un po’ di strada e ci siamo. Penelope, allarga le gambe che arrivo.
Non c’è mai un giorno uno o un giorno zero, nonostante Giovanni Loria abbia la certezza di sì. L’heavy metal, esattamente come ogni altra musica che oggi conosciamo, viene da molto più lontano delle date convenzionali appese sui pantaloni dell’archivista capo. Quindi il ritorno alle origini è per ogni band diverso e illusorio, ma una la direzione è vera: si torna indietro.
All’inizio degli anni 2000, poco dopo la musata che il Nu Metal diede ai gradoni più bassi delle classifiche di vendita e l’emergere dei cosiddetti “core” c’è stato un trauma che poche band sono riuscite a evitarsi, continuando a spingersi in un oceano sempre più freddo, brullo e minaccioso.
E quando io sento un disco di questi pochi gruppi, ho l’impressione che un ponte tra il 1978, il 1992 e il 2022 sia ancora possibile. Non c’è un tentativo di recuperare illusoriamente la voce iniziale, il rigurgito primordiale, e tanto meno la tendenza irritante e bimbesca di girarsi l’uccello tra le dita, osservandolo curiosi.
I Mastodon sono tra i pochi a poter vantare ancora uno status ulissiano, così come gli Avenged Sevenfold, nonostante la morte di The Rev, e soprattutto i Coheed & Cambria.
Bum, qui perdo la metà dei lettori ma va bene così.
I Coheed & Cambria sono ignorati dalla maggioranza dei metallari, almeno in Italia. Non so come li considerino, se una band rock per femminelle depresse o se li guardino con sospetto perché insieme a certe sonorità decisamente classic mettono cose che vengono da territori altamente infidi e paludosi, come l’emocore, lo screamocore, il mathcore o l’alternativo spocchiosettocore da universitari fuori-corsocore. Si tratta di un bel grappolo di pregiudizi perché i Coheed And Cambria sono solo un gruppo potente, coraggioso e profondamente moderno.
Non intendo una roba che finisca con core, ma una cosa che è radicata nell’oggi, tra saghe fumettistiche, produzioni pompose, una dimensione concept che si estende a ogni aspetto della band, e uno sguardo fresco e audace ai classici del passato, senza però scopiazzarli e fingere di essere la reincarnazione morale di qualcuno di quei grossi nomi.
Soprattutto i Coheed & Cambria sono loro. Non potete farvene un’idea guardandovi un paio di video e nemmeno sbirciando una copertina super-fantasy dei dischi che realizzano. C’è tutto un mondo in cui dovete immergervi, percorrere una strada che non pensavate ci fosse nemmeno e da cui tornare indietro sì, ma forse con qualche giorno o mese di ritardo rispetto a quanto credevate di concedervi. Io per esempio contavo di fermarmi una settimana e sono ancora nella periferia dell’Heaven’s Fence.
Vi diranno infatti un sacco di cazzate sui Coheed And Cambria. Per cominciare vi avvertiranno che sono una band emo. O peggio che sono progressive-emo. C’è chi addirittura vi urlerà sul cuore che si tratta dei nuovi Led Zeppelin ma più emo. E voi, mi raccomando, non dovrete ascoltare.
Ma se è troppo tardi e vi siete bevuti qualcosa e vi sta borbottando nello stomaco, allora cercherò di farvelo evaporare con un rutto di consapevolezza.
Per iniziare i Coheed And Cambria non sono emo. Con questo non voglio dire nulla di male sulle emo-band come i My Chemical Romance, che mi piacciono e rispetto, ma solo puntualizzare che l’elemento emotivo, molto presente nella musica della band, non è decisivo, solo genetico e generazionale. Potranno sembrarvi sentimentali, a tratti, ma quando penserete che non fanno per voi, vi arriverà sul cranio una tale massa di riff spessi e cazzuti, che vi domanderete cosa sia passato col rosso mentre attraversavate l’Abbey Road mascherati da zebre.
Sulla questione del progressive, anche qui, non è esatto. I Coheed And Cambria possono imbastire delle lunghissime suite e concepirle esattamente come dovrebbe essere il prog: vale a dire un viaggio in cui sai da dove parti ma non sai dove arrivi finché non ci sei giunto. Loro lo fanno così il prog, ma questo non accade di continuo, in ogni album.
C’è una fase della discografia del gruppo, verso il terzo e quarto titolo, in cui Claudio Sanchez, leader e compositore principe, ha deciso di iniziare a spingere un po’ di più sul lato tecnico e strutturale, ma lo fa a modo suo, creando e risolvendo problemi coerenti con lo stile Coheed. Di sicuro non troverete echi di Yes, i Dream Theater o Pink Floyd. Saranno solo i Cambria che si concedono qualche allungo inquieto e sinfonico, senza snaturare la formula emo-heavy-rock-sci-fi… e mi fermo qui.
Terza sparata. I nuovi Led Zeppelin. Credo l’abbia scritto un tizio di Rolling Stone e con questo dovrei avervi già persuaso che non si tratti di una cosa attendibile, ma vediamo nello specifico cosa potrebbe avvicinare i Coheed all’astronave madre degli Zep, così come decine di altri gruppi orbitali come i Greta Van Fleet (che pure loro a me piacciono). Forse la fantasia, l’irrequietezza. Soprattutto, quando i C&C ci si mettono, sanno essere pesanti, esoterici ed evanescenti alla bisogna, ma ancora, è più che altro una sparata di uno.
Ora che vi ho ripulito il cervello da certe scorie, possiamo entrare nel vivo del pezzo.
Allora, i Coheed & Cambria sono un’estensione arteriosa di Claudio Sanchez, il chitarrista e cantante paffuto e ricciolissimo che noterete subito in una foto o un video del gruppo. Lui è il messia, il Gesù martire del proprio mondo spazio-fumettistico. Dal primo disco, con una sola eccezione discografica che vedremo più avanti, non ha mai smesso di raccontare la stessa grande storia, aggiungendo tasselli, personaggi e fatti come fosse un serial da spararsi in streaming per tutte le ferie estive.
Claudio ha in mente questa saga che è la sua croce e la sua delizia. Sì perché se da una parte ogni arpeggio, melodia e verso che gli esce dal cuore, diventa tutto pulviscolo gravitazionale che si unisce al gorgo onirico dell’Heaven’s Fence, lui non può occuparsi di altro e la cosa è diventata la terra di mezzo per un sacco di persone, ma allo stesso tempo è il vero limite al successo dei Coheed And Cambria. Perché chiaramente, uno che si avvicini al gruppo dopo dieci album, non vorrebbe mai addentrarsi troppo e avverte una continuità pregna, afosa, che lo farà sentire escluso dal gigantesco disegno che si dipana dall’orecchiabile melodia di un singolo di quattro minuti intercettato sul tubo, fino alle origini di un universo lontano e per molti versi davvero ostile. In altre parole significherebbe comprare fumetti ormai esauriti da tempo sul mercato, libri, dischi e chissà che altro, per raccapezzarci qualcosa.
Ma si tratta di un falso problema e di quello pure parleremo più avanti.
Intanto diciamo che la band ha iniziato pubblicando non il primo ma il secondo atto della storia. Non a caso il disco si chiama The Second Stage Of Turbine Blade. Second e non First.
È del 2002, il gruppo emerge e si fa le ossa guardando come un oracolo prima al punk dei Misfits, poi agli At The Drive In e la scena indie del tempo, fino al cantautorato melenso e liceale degli Smashing Punpkins e il classic rock dei Police. Il disco d’esordio è stilisticamente già maturo, ma ha un suono appunto da “indie rock band”, con le chitarre troppo scarne per i riff corposi che emergono soprattutto nella seconda parte e Claudio che ha un’impostazione vocale lagnosa come un Bjork versione equina e senza immaginarlo neppure, la nostra Carmen Consoli.
Già qui ogni brano parla della grande storia (un misto di “Star Wars, la Bibbia e Romeo e Giulietta” secondo Claudio Sanchez) che è incentrata sui due personaggi che danno nome alla band: Coheed e Cambria sono una coppia ispanica della classe operaia di un posto che è in un’altra galassia ma sembra New York. I due sono sposati, si amano e tirano avanti con il mutuo da pagare e quattro figli da mantenere. Tutto normale, da neorealismo novo, ma ecco che un tir di casini gli piomba in testa e sono spalmati sull’asfalto prima ancora di dire ochecazz.
Si ritrovano come pedine di un gioco troppo grande, che dalle forze politiche del primo emisfero, si estende a energie tanto più oscure e inimmaginabili che affollano le stelle. Ma non è una roba da bimbi in fissa con i modellini dei razzi Nasa e Star Trek. Vi basti sapere che nel giro di un paio di pezzi, da Time Consumer a Devil In New Jersey, ci troviamo con un infanticidio e uno stupro di gruppo. Roba decisamente tosta e metal, che ne dite?
Infatti, The Amory Wars, questo è il titolo del concept suddiviso nei quattro primi album del gruppo, tutto molto realistico e concreto in un arcipelago di sofferenza e violenze spinte tutto attorno. Il fumetto potrebbe essere un misto tra Will Eisner e George Lucas, con un po’ di Frank Miller nei punti giusti: quindi c’è sesso, romanticismo, ammazzamenti spietati, spionaggio cosmico, balle spaziali, predestinazioni evangeliche, cani speciali e serial killer che odiano visceralmente le donne che li illudono di capirli.
In Keeping Secrets of Silent Earth: 3 esce nel 2003, e come stile e suono siamo ancora incagliati nella confezione indie, ma a livello di contenuti la cosa si fa già più grossa. In particolare vi consiglio di porre attenzione alla trilogia del Camper Valeorium, con il personaggio di Al The Killer e, già che ci siete sparatevi pure in fronte la ballata, The Light And The Glass per capire che livelli di scrittura sia in grado di raggiungere Sanchez quando si avvicina il ciclo alla moglie.
L’elemento alternativo è ancora evidente. Le melodie ricordano le band punk rock all’acqua di rose, tipo Blink 182 ma su cavalcate alla Iron Maiden. Non scherzo, il brano In Keeping Secrets of Silent Earth 3 è davvero epico, comincia con gli A Perfect Circle e nel finale deflagra in un coro alla Heaven Can Wait.
Un’apertura simile porta i critici a gridare “ed è subito prog” perché davanti a un pezzo di otto minuti non c’è dubbio che si tratti di progressive, ma se così fosse, anche gli Iron Maiden degli ultimi vent’anni lo sono e sappiamo bene che non è così. A livello di umore il disco è ancora più variegato alla cannella del gas, nel senso che è caramellato di tristezza e accorato dolore sentimentale, che però trova vasta risonanza nelle intasate casse toraciche degli adolescenti americani, che comprano in massa l’album, decretando la fine dei tempi di magra, soprattutto grazie al punk lunatico di A Favor House Atantic. Da lì i Coheed si trasformano in ciò che sono anche oggi, una band dal seguito consistente e fideizzato. Quanti gruppi hard & heavy possono vantare uno status di culto senza snaturarsi in un riciclaggio di vecchia scuola e sterile coerenza?
Claudio: L’uscita di quel singolo ci ha sparato in alto e da lì invece di precipitare vertiginosamente sull’asfalto come è successo a tanti prima e dopo di noi, siamo rimasti lassù a galleggiare come i palloncini di It. Siamo rimasti decisamente sorpresi. Per noi, venendo fuori da una scena locale, in un contesto più grande ci sentivamo degli estranei. E forse è ancora vero oggi. All’epoca, sembrava che le possibilità di sfondare fossero davvero scarse, ma poi, all’improvviso, siamo diventati professionali, con una major alle spalle che puntava su di noi. Facevamo video e ascoltavamo le nostre canzoni in radio. Sai, mi piace pensare ai Coheed come a uno scarafaggio o a un parassita. Per qualche ragione, persistiamo, qualunque cosa accada.
Dal terzo album, uscito nel 2005 e intitolato con bombola d’ossigeno in dotazione: Good Apollo, I’m Burning Star IV, Volume One: From Fear Through the Eyes of Madness, i Coheed diventano in tutto e per tutto i Coheed che dovreste davvero conoscere, con la loro voce multistrato e l’afflato da colossal lacrimale nello spazio profondo, che è il comun denominatore dei successivi otto album. Qui l’alternativo indie va giù nello sciacquone dell’astronave con tutte le scorie del caso. Ci sono gli assoli, un suono finalmente corposo e le canzoni decisive: come Welcome Home e The Suffering.
E da qui le cose proseguono allo stesso livello anche con il quarto e conclusivo capitolo della prima saga di The Ivory Wars: Good Apollo, I’m Burning Star IV, Volume Two: No World for Tomorrow. Siamo sull’heavy a calci rotanti, con il brano No World For Tomorrow in apertura che è un incipit decisamente metal e mi ha ricordato i Dokken più crepuscolari dei primi 2000 (ma con una produzione decente e senza quella ragnatela di grassa depressione tipica del post-alcolico destino degli ultimi Dokken).
I singoli sono ancora eternabili (The Running Free e Feathers) ma in ogni nuovo album è come se Claudio spostasse un bagaglio sempre più pesante, col rischio di mandare la navicella fuori orbita. Sono sempre di più gli elementi da tenere d’occhio, è ogni canzone più grande il mondo da cucire un accordo dopo l’altro. Lui però ha bisogno di quel bagaglio e di quell’ordito voluminosissimo. È la sua mappa creativa. Con la sua saga non può perdersi o mollare la tensione giusta della propria creatività. Peccato che si cominci ad avvertire un certo affanno, con arrangiamenti epifanici sempre più isterici e un cantato che sfiata di sospiri d’enfasi non sempre comprensibile e soprattutto sopportabile.
Il quarto album ha momenti più spinti e spacconi e un tiro generale molto alto (penso a Justice In Murder, Radio Bye Bye). Le quattro parti della suite conclusiva The End Chapter, passano da un incipit alla Blind Guardian a un lento alla Goo Goo Dolls passando ancora una volta da cori alla Iron Maiden e fraseggi scippati al vecchio Nu Metal. Alla fine però, dopo quattro lavori così intensi e sempre più “larger” è chiaro che il gruppo abbia bisogno di rifiatare e di voltar pagina.
Di un cambiamento che, nonostante gli slittamenti della sezione ritmica (Todd e Josh Eppard sono fuori) non arriva. Sanchez infatti, nonostante le aspettative sempre più alte intorno a lui, si accorge, soprattutto dopo l’esperienza di un musical su Dorian Grey abortito, di non andare granché avanti senza la sua Storia di Amory Wars. C’è ancora tanto da raccontare. Non è finito un bel niente. O meglio, qualcosa si è concluso, ma c’è tutto un prima e tutto un dopo che bisogna ancora scoprire.
E così ecco che il successore di Good Apollo II è un prequel della serie intitolato Year Of The Black Rainbow, vale a dire la parte della saga che precede i fatti di The Second Stage Turbine Blade.
E dopo questo antipasto, Sanchez attacca un’altra placca tettonica della storia con il doppio e sfiancante: The Afterman: Ascension e The Afterman: Descension.
Il gruppo continua a viaggiare su un doppio canale fruitivo. Torniamo alla questione del concept e chiariamola una volta per tutte. Non può essere un deterrente per i neofiti potenziali. Se ascoltando i Coheed vi si accende la lucina sul cuore, allora buttatevi dentro, perché questo loro mondo di space-romance, appartiene anche a voi. Se invece preferite restare fuori dall’Heaven’s Fence e pensate di annegare ancora nel vostro vetusto sistema solare, poco male, avrete comunque testi e musiche adatti ai momenti più truci della vostra romantica vita in coppia o da scapoloni.
C’è gente che sui forum, da circa vent’anni, si accapiglia sul significato dei testi di ogni singola canzone dei primi quattro dischi, e sul preciso momento in cui collocarli all’altezza del fumetto o dei libri di Amory Wars, ma c’è tutto un altro mondo che ascolta i Coheed e trova nelle parole il senso che gli serve e nelle loro canzoni, le melodie giuste a cui aggrapparsi nei momenti difficili. Anche all’interno della band non tutti hanno sempre pensato alla storia, fin dall’inizio. Ci sono delle dichiarazioni dell’ex bassista Michael Todd che ammette di non amare la fantascienza e di fregarsene del racconto, ma di essersi sempre focalizzato sui grandi riff e le melodie meravigliose.
Tra lui e il gruppo ci sono state ben altre incongruenze che hanno finito per sbatterlo fuori, ma non è questo il punto.
Un brano come Far, su Year… potrà parlare di chissà quale punto della saga, ma si può scorporare dal grande disegno di Sanchez e quello che rimane è la voce di un uomo che spiega alla donna che ama come si sente ora che la loro storia sta finendo. Gironzolando per la rete ho scoperto che proprio Far, è stato il brano che ha permesso a un tizio, un soldato americano in missione, di spiegare alla moglie, inviandole la canzone e dicendole di ascoltarne attentamente le parole, i propri sentimenti di sofferenza per la lontananza da casa e per le difficoltà di lei ad accettare che lui fosse ancora una volta via a rischiare il culo a millemila miglia dal suo lettone freddo. Se sono ancora insieme, il soldato e la casalinga, forse un po’ è anche merito di quel segmento emotivo della saga di Amory Wars, di Far, che è una ballata space-rock molto dolce e commovente.
Nella gran parte delle canzoni dei Coheed non ci sono mai fatti raccontati con precisione, qualche dettaglio sì, e su quelli si lanciano i geek-nerd, ma le loro discussioni non hanno fine, e per un motivo preciso che gli sfugge: i testi parlano dei sentimenti dei personaggi e non delle azioni. Sanchez canta di cosa vivono dentro, delle loro emozioni in conseguenza degli eventi e delle scelte compiute o subite. Non c’è narrazione diretta. Per quella avete i fumetti e i libri, sempre che riusciate a trovarli su ebay a un prezzo decente.
I testi raccontano quindi un’altra storia, quella all’interno di Claudio Sanchez stesso, che è un tipo molto particolare, per niente avvezzo alla comunicazione, timido, incasinato, con una famiglia che cerca di tenere unita nonostante la vita in tour e le lunghe sessioni in studio siano la cosa meno adatta a tenere in piedi una famiglia.
E allora ecco i sentimenti universali dell’amore e della solitudine, i suoi filtrati in decine e decine di personaggi, che gli ascoltatori possono comprendere e “usare” senza neanche sapere se a quel punto c’è un’astronave che esplode o il figlio di tizio che muore massacrato da un certo cattivone.
Ecco perché esiste questo doppio canale ed è fantastico.
Personalmente mi è successa la stessa cosa del soldato e la casalinga, quando ho sentito questi versi, nel brano Gravity’s Union, dall’album The Afterman: Descension. A quel punto della storia, un tipo di nome Sirius perde la donna che ama in un incidente, dopo aver appreso da lei che la loro storia è finita. Ama un altro e porta in grembo il figlio di quell’uomo. Lui non regge a una rivelazione così tremenda e come se non sia già abbastanza un dramma, ecco che Sanchez, gli fa perdere il controllo della macchina e boom, incidente, lei muore. E Sanchez la canta così:
E ho sbagliato a lasciarti andare
Accetto il mio errore, ma non lo saprai mai
Questo è il mio amore in un camion da dieci tonnellate
Tesoro, per favore ricordati di me
Beh, erano le esatte parole che avrei voluto cantare io alla donna che amo e che ho dovuto lasciare pochi mesi fa. Quando le ho sentite sono finito anche io sotto il camion con Sirius, la moglie e il bambino nel suo ventre. Ecco di cosa sto parlando. In un certo senso l’accostamento che Claudio fa con la Bibbia non è sbagliato. Si può prendere un pezzetto e interpretarlo nel modo in cui il proprio cuore sente di poterlo decifrare, che è il solo in cui può anche servirsene.
Sul piano musicale, il periodo di Years Of The Black Rainbow e dei due Afterman è caratterizzato da qualche nuovo ingrediente nel sound, due nuovi produttori al timone, Atticus Ross e Joe Barresi, e una confettura più cinematografica. Sul web però si diffonde sempre di più una certa insofferenza per la tristezza che assedia il cuore di tutte le canzoni più recenti. I personaggi sono tutti molto depressi. Il cuore di Sanchez pesa troppo anche con un cast così grande.
Year Of Black Rainbow è stato pure criticato per l’inserimento dei synth, autentico tabù immarcescibile nel mondo rock. Eppure in uno scenario di fantascienza spinta, quale è la serie di miti ideati da Sanchez, un po’ d’elettronica non guasta e non avrebbe mai guastato. Ma c’è chi parla di Michael Bay Of Coheed & Cambria riferendosi a questo periodo discografico della band. Quindi fate un po’ voi.
I due Afterman rappresentano una ripartenza gagliarda con la saga. Sono dischi di qualità ma personalmente trovo che già Year Of The Black Rainbow rappresenti un po’ quel confine in cui si smette di seguire una serie dopo averla apprezzata molto (ma la si ritiene conclusa perché si è sazi così e si vuole fare altro nella vita) oppure si decide di proseguire, ingurgitando ancora a lungo tutto ciò che viene fuori, con nuovi personaggi e nuovi colpi di scena, spin-off e prequel a cascata perché non si riesce a smettere di vivere dentro quel mondo narrativo. Comprensibile, sia chiaro. Ma non è il mio caso.
Con i dischi realizzati dal gruppo negli ultimi dodici anni siamo sempre oltre la media creativa generale, sia chiaro, sono freschi, schietti e soprattutto ricchissimi di ingredienti usati non per suscitare nostalgie o dichiarare appartenenze temporali e generazionali, ma per realizzare la propria visione e basta. Almeno per quel che mi riguarda però avverto una certa stanchezza di fondo, la mia, non loro. I Coheed potevano fare qualsiasi cosa dopo la saga The Amory Wars, chiusa con il quarto album, ma hanno preferito non uscirne, per motivi che vanno oltre il reale bisogno di aggiungere cose che potessero “chiarirci chissà cosa”.
Trovo che i Coheed abbiano realizzato ancora cose molto interessanti, come il sottovalutato e in sordina intermezzo autoriale slegato dal concept di Sanchez: The Color Before The Sun, in cui l’autore preferisce dismettere i panni spaziali e concentrarsi sulle proprie sensazioni di futuro padre e sulle vicissitudini casalinghe, con un trasloco dalla città alla campagna (Island) e una triste vicenda di droga legata alla casa di proprietà che aveva affittato (Young Love). Mr. Coheed si mette quindi a nudo davanti al pubblico e questo rimane forse un po’ inorridito dalla sua pinguedine sentimentale, ma per quanto mi riguarda è una strada che il gruppo avrebbe potuto permettersi di inforcare senza problemi, risparmiandoci tutto quel corollario di spin-off.
Se guardiamo alle canzoni di The Color Before The Sun, che è un po’ il “Nebraska dei Cambria”, c’è più di asciuttezza nelle strutture e una maggiore sobrietà negli arrangi perché i temi e l’andazzo generale del momento reclama un’intimità e un tono diverso, ma non ci discostiamo granché dallo stile degli altri dischi, sia per le melodie che gli incastri ritmici o l’afflato romantico di certe “ugolalìe” di Sanchez, di cui superati i sette album si potrebbe essere un po’ saturi.
Chiusa la parentesi genitoriale e cantautoria, i Coheed ripartono a capofitto, più euforici che mai con un nuovo segmento a puntate della mega-saga di Amory, con il doppio segmento intitolato Vaxis.
Esce prima del Covid, nel 2018, Vaxis – Act 1: The Unheavenly Creatures e nel 2022, Vaxis II – A Window Of The Waking Mind.
Entrambi rappresentano in parte una summa riepilogativa di tutta la produzione dei Coheed dall’inizio, la fase compositivamente più matura e decisiva, senza le sorprese di chi pasticcia con la materia primordiale del proprio sogno melodico. Ormai sanno come dominare il drago e fargli fare tutto ciò che desiderano. C’è un nuovo collasso saturante di galassie, amori implosi nel silenzio spaziale e astronavi sornione che gongolano tra le stelle di Rockland.
Sanchez è ben piantato nella sua zona di conforto e non schioderà mai. Avremo ancora nuovi innesti complementari della sagona, in doppi o tripli album, zeppi di accorati lirismi autobiografici, intrecci sempre più oliati e funzionanti e produzioni bombose tra elettronica e vintage.
Quindi vi consiglio di non iniziare dalla fine. Prendetevi i primi quattro album. Saranno più che sufficienti per capire la grandezza e la vastità dell’impero Coheed. Vaxis I e II ne rappresentano invece le maestose e durissime mura di confine rappresentate dalla progressività hollywoodiana del gigantesco Ladders Of Supremacy e della toccante melodia finale di Rise Naianasha (Cut The Cord). Non c’è un picco così dolce e deflagrante in questo 2022 di gesso.