halo effect

THE HALO EFFECT – IL CULO DELLA NOSTALGIA IN FIAMME

Allora, io ho contato undici ex membri degli In Flames. Se tutti si aggregassero in band, potrebbero uscire fuori minimo tre gruppi in grado di giocarsela sul mercato in questo momento. Gli Halo Effect sono un po’ la nazionale di questi ex. Che poi a ben guardare, il signor Mikael Stanne, proprio proprio un membro effettivo, ufficiale degli In Flames, non lo è mai stato. Era un amico, un vicino di saletta, gli ha dato una mano scrivendo testi, cantando, incidendo e suonando dal vivo con loro quando non riuscivano a trovare un frontman adatto, ma… Va bene, va bene, dai, in fondo anche lui è stato parte dell’universo In Flames e ora è nei The Halo Effect e tutto è straordinariamente toccante. C’è questa avvincente trovata promozionale intorno, e sta funzionando, ma come tutte le buone strategie di marketing, rischia di mettere in secondo piano la cosa più importante.
In pratica il messaggio che gira è questo: gli Halo Effect sono “più In Flames degli In Flames attuali”. Sembra che questi “grandi ex” abbiano deciso di unirsi per dare una lezione alla casa madre e insegnargli la strada del ritorno che i poveri reietti Fridén e Gelotte non riescono più a imbroccare.

Ma Days Of The Lost è solo questo? Un disco paraculo e dalla deflagrante smaccata morale?
Direi proprio di no.
Intrigante è chi ha trovato il modo giusto per venderlo, ma Stanne e gli altri avevano solo voglia di scrivere qualche canzone insieme.
A leggere i commenti sotto i video pubblicati su you tube, la gente sembra entusiasmarsi non perché brani come Gateways e Shadowminds siano grandi, ma per le somiglianze con un momento perduto (come sembra alludere anche il titolo dell’album) che sia gli In Flames ma anche i Dark Tranquillity si sognano di riprendere.

A parte che, se ascoltiamo i primi singoli del nuovo album dei “veri” In Flames, quel passato sembra che l’abbiano riabbracciato definitivamente anche loro, ma è assai più facile per un musicista che fa parte di una band con oltre trent’anni d’esperienza, nel qual caso Stanne, riappropriarsi di un vecchio stile passando da una scorciatoia progettuale e non dal gigantesco e farragino meccanismo avviato con la band madre. Basti vedere Greg Mackintosh con i Vallenfyre e Nick Holmes partecipando al progetto Bloodbath. Non è un caso che dopo queste scappatelle verso i bei giorni, i Paradise Lost abbiano realizzato il loro disco più pesante dai tempi di Shades Of God.

Ma tornando agli Halo Effect, vincono a man bassa solo grazie a un meraviglioso effetto nostalgia, che essendo tale, è una fregatura, un auto-inganno e una cosa che loro per primi non si meritano. Io ricordo bene quando nel 2000, In Flames e Dark Tranquillity e una sfilza di altri svedesotti panciuti con la barba, pubblicavano ogni due anni, inesorabili dischi in stile Days Of The Lost. Ero talmente sazio di quel suono e quei giri di tastiera sulle chitarre, che da allora ho sviluppato una robustissima idiosincrasia ai riff tuppa-tuppa provenienti dalla fottuta Gotheborg.

Quindi perché Days Of The Lost mi piace così tanto?

È un lavoro ispirato e pieno di bei pezzi. Punto. Non me ne frega una ceppa del sound così fedele al periodo 1999-2003 o ai flash in area Colony-Clayman.

Sticazzi. Quello che vale davvero è la musica.

Ed è un peccato che un brano come In Broken Trust, con il ritornello melodico di Stanne che nel 2000 avrebbe fatto gridare all’eresia e che oggi è accolto con entusiasmo da tutti, produca spellamenti di mano solo perché somiglia o ricorda questo e quello. Ma cosa?
A parte che un pezzo del genere sarebbe stato impossibile nel 2000 e l’inserto canterino in clean avrebbe provocato scismi birrosi sotto al palco, questa reazione bonaria conferma come la nostalgia non sia un buon metro di giudizio perché inganna di brutto.

Ma il rimando a quei giorni è innegabile. Days Of The Lost è davvero un album rottoinculo e Stanne però ha sfruttato la cosa nel modo migliore. Ha intuito per tempo le conseguenze di un connubio così votato ai bei tempi e ha deciso di scrivere testi retrospettivi sui vecchi giorni in cui Strömblad o Peter Iwers o lui, erano solo dei ragazzini disadattati che a scuola non sapevano dove mettersi e si sentivano soli e diversi, ma che una volta suonata la campanella, correvano a casa a fare pacchetti da spedire in Norvegia o Brasile, con dentro i demo di oscure band death-metal svedesi. E dopo uscivano e si vedevano tutti, ascoltando Entombed e bevendo birra, parlando di metal e cazzeggiando.
Era questo l’underground per loro. E The Halo Effect riapre una porta su quegli anni duri, minacciosi, in cui gli ormoni famelici toglievano sonno ed energie, il mondo svedese fuori era indifferente e crudele, ma il death e il tape-trading salvavano il culo a quei pischelli sbiancati e con i capelli troppo lunghi. Però non è un discorso conchiuso sul passato. Per me in quattro brani specifici, Stanne realizza la Stand By Me del melo-death, spostando la prospettiva dalla cameretta alla sala prove, quando il death per lui e i suoi amici diventò da qualcosa per cui vivere a qualcosa che gli diede da vivere, con gli stadi pieni dello Sweden Rock Festival e infine, il ritorno alla cameretta durante il lock-down, con dei vecchi amici grassi e pelati che non trovano di meglio da fare a parte scambiarsi idee e demo, come all’inizio.

La tetralogia nostalgica si consuma in quattro passaggi. La title-track, in cui Stanne canta proprio di trovare un posto nel mondo e trasformare l’emarginazione in un modo personale di sopravvivere; Last Of Our Kind che è ancora più specifica sul discorso dell’underground metal come àncora di salvezza (anche se comincia con dei violini che sembrano scippati alla pageboard di Games Of Thrones); The Needles Ends, una riflessione su cosa abbia portato cinque ex In Flames a fare un disco molto In Flames; e per chiudere il quadretto, The Most Alone, che estende il discorso dal generazionale all’universale, rendendo la riflessione sulla dolorosa presa di coscienza della propria individualità una dimensione universale dell’uomo, condannato al gelido abbraccio della solitudine. The Most Alone per Stanne non è però, come diceva Ibsen “l’uomo più forte, che è tale in quanto indipendente e di conseguenza il più solo di tutti”. Siamo tutti soli dice Mikael e non in senso figurato. Lo siamo davvero, per via dell’esperienza Covid, che ha costretto all’isolamento anche i più deboli e bisognosi. Ci sono persone che si sentono più sole di altre e forse una di loro sei proprio te e lui.

Ma a proposito del Covid. Essendo Days Of The Lost un lavoro realizzato a cavallo tra il 2019 e il 2020, può essere diviso principalmente in due parti: quella che parla della situazione mondiale con cognizione di causa e quella che ne parla in anticipo, senza saperlo, credendo di parlare d’altro.

La prima parte si muove tra A Truth Worth Lying For (bellissima) e In Broken Trust. Mi interessa ma non quanto la seconda che è rappresentata da tre brani specifici:
Sono i tre titoli realizzati ancora prima che il gruppo diventasse tale: Shadowminds, Gateways e Feel What I Believe.
Stanne parla di questi tre pezzi come dei cardini dell’album e dei tre passi da cui si è formata l’identità degli Halo Effect come band. Per farvi capire, quando lui e Niclas Englin (non Jesper, lui è venuto molto dopo) hanno iniziato a pasticciare per esempio su Gateways, Mikael aveva preso in seria considerazione di seguire la direzione stoner. A sentire il pezzo direi che siamo più sul goth tipo Endorama/Judas Christ, ma vai a capire che intenda Stanne con Stoner. Magari per lui i Paradise Lost sono una stoner-goth band.

In ogni caso questi tre brani sono le ossa della creatura Halo Effect e da essi è venuto fuori tutto il resto di cartilagine, viscere e plasma che oggi vi sorride e dice di sì allo specchio, mentre ascoltate la tirata Conditional e pensate ai giorni del liceo (terribili).
Questi tre pezzi in fondo sono lanci al buio dal cuore proficuo di Mikael Stanne, sempre pronto a parlare di crescita e reazione all’oscurità dilagante che ci assedia.

Eppure, sono convertibili senza problemi alla questione Covid. Il video di Shadowminds mostra un mondo in panne, fumo grigio che sale dalle città, una voce radiofonica in svedese che dice: “Questo è un messaggio al pubblico di Göteborg e dintorni. Chiediamo a tutti voi di tenere le finestre chiuse, rimanere all’interno e attendere ulteriori istruzioni”.
Poi il pezzo comincia con un riffone di due accordi (immenso e totale) e Stanne grugnisce una roba su “un momento spartiacque” e la paura di affrontare la realtà, di doverlo fare con “la rassegnazione logica di ciò che sappiamo” e il pensiero che “è solo, con i demoni della mente”
“Che l’adesso abbia inizio. Un rapido addio al passato”

Vedete, Mikael sembra ci dia un buffetto sulle palle per ricordarci che le abbiamo e ci esorti a voltare pagina, senza piangere una vita che non c’è più, un mondo che non è quello che conoscevamo. Ma è un’illusione. Nel 2019 lui pensava al tour con i Dark Tranquillity e alle solite cazzate. Non poteva immaginare le nostre palle nel 2020. Sono certo che non si riferisca a nulla di preciso, però ci prende. Il titolo Shadowminds, sembra alludere a delle figure ostili, capaci di mandare il mondo a puttane e che (beware!) questi esseri vivono dentro di noi. Siamo noi quando pensiamo di non farcela, quando ci diamo dei falliti. E chi se non questi esseri possono determinare la caduta definitiva dopo l’immota primanera del 2020?

E lo stesso accade con le parole di Gateways, che è uno dei brani più fichi e slanciati, con quella chitarra dolce nel ritornello, che come un vecchio theremin scivola sulle acque ghiacciate di un lago pieno di bambini morti. E come sopra per Feel What I Believe, con il chorus che le palle ce le prende a calci.

Se solo potessi vedermi ora
Se solo tu potessi sapere
E sentire quanto io ci credo
di riuscire a renderlo vero
Ora sono proprio ciò che dicevo di essere
Anche se perso nel vuoto che ancora mi perseguita
Mentre l’impotenza mi spezza

Porcatroia. Ma non vi si chiude la gola? Siate autentici, nel vuoto e nell’impotenza che vi spezzano. Fanculo, siate proprio chi dite di essere, per una volta.

Let the now begin today