I vampiri di Richard Matheson o se volete Io sono leggenda

Oggi tutti lo conoscono con il suo titolo esatto: Io sono leggenda, ma in Italia il romanzo di Richard Matheson è uscito varie volte prima con il più banale I vampiri.
Stiamo parlando di uno stra-classico fottuto, quindi sarà difficile per me scrivere qualcosa di interessante che non sia stato già scritto o detto innumerevoli volte, ma ci provo lo stesso. In fondo attingo al mio cuore e ogni uomo ha un nero dalle sfumature uniche, a infestargli le volute del sistema coronarico; così come ha una sua unica esistenza fatta di cose che solo lui conosce, capisce, ama e odia a modo suo.

Ma bandolo alle matasse filosofiche e parliamo del libro.I vampiri… non vi seccherà se lo chiamo così, è un romanzo fantascientifico. Non è un horror ma la più sci-fiction novel mai scritta da Richard Matheson. Questo che dico l’hanno già dichiarato sia l’autore che Stephen King e vi sorprenderà solo se non avete letto il romanzo, cosa che vi consiglierei di fare prima di morire e diventare anche voi come quelle creature.

Perché la figura del vampiro è calata in un contesto estremamente realistico, in cui il protagonista, Robert Neville, studia e analizza ogni elemento materiale disponibile nel tentativo di ricavarne delle informazioni precise da cui partire per il raggiungimento di una cura sì, ma anche di una spiegazione scientifica all’intera apocalisse.

Matheson fa un po’ la stessa cosa in Casa d’inferno, quando opponendo la figura del medium a quella del parapsicologo con smanie cattedratiche, finisce per decretare un pari tra i due scrutatori dell’aldilà, ma non prima di averci assalito con una sfilza di teorie fisiche e meccaniche sulle manifestazioni ectoplasmatiche, gli spiritelli bricconi e tutto il resto del repertorio infestaiolo.

Badate però che nel romanzo I vampiri, Neville non è uno scienziato. Delle trasposizioni cinematografiche, in nessuna si ha avuto il coraggio di presentare il protagonista come un normalissimo individuo senza competenze da laboratorio. Sia il film di Ubaldo Ragona (L’ultimo uomo della terra con Vincent Price, 1964); quello di Boris Sagal (Occhi bianchi sul pianeta terra con Charlton Heston, 1971); sia quello di Francis Lawrence (Io sono leggenda con Will Smith, 2007) c’è sempre un dottor qualcosa, che sia Neville o Morgan il cognome, sia che si tratti di uno scienziato militare o di un normale ricercatore.

Questo probabilmente perché nel cinema volto alle masse, la cugina ormai acida e spigolosa della narrativa si sfruttava sì, ma preferendo semplificarne gli aspetti più contraddittori per i livelli cognitivi, stimati al ribasso, del grande pubblico, che più è grande e più è stupido.

E infatti nel libro di Matheson tutto il pubblico è così stupido da estinguersi.

Ma Robert Neville sulla carta è uno qualunque, non ha dottorati. E siccome rimane il solo umano in un mondo popolato da strane creature fameliche, proprio lui, dopo aver trasformato la casa in una fortezza e aver trascorso molto tempo a rifornirla di tutti i comfort e viveri possibili, prima di prendere a disperarsi e alcolizzarsi sui giganteschi traumi e lutti subiti e la realtà orrida in cui è condannato a sopravvivere, alla fine decide di farne qualcosa di se stesso e si mette a studiare. Recupera testi di fisiologia e di biologia alla biblioteca pubblica, si procura un microscopio e trascorre giorni e giorni a farsi una cultura scientifica, redigendo rapporti dettagliati di tutte le  scoperte in merito al sangue di “quei cosi” e alle cause della loro reattività all’aglio, alla luce del giorno e ai paletti di frassino.

E sebbene Neville abbia dei grandi complessi d’inferiorità, dopo tanti dubbi e frustrazioni, riesce a chiarirsi tutta una serie di questioni sui vampiri, sul loro funzionamento organico traendone delle conclusioni sconcertanti.

Ecco perché I vampiri, il romanzo, è fantascienza pura. Matheson spiega, o almeno ci prova, passando la realtà sotto la lente di un laboratorio improvvisato dall’uomo della strada.
E in questo Robert Neville ricorda un po’ Robinson Crusoe. Anche lui non era una cima di intellettuale, solo un ruspante giovinastro con desideri vaghi di viaggio e sfide eccitanti negli oceani, verso mete esotiche e misteriose. La solitudine sull’isola finisce per formare e sviluppargli un’auto-coscienza e trasformarlo in un pensatore.

Neville non è uno stupido, durante le lunghe nottate a combattere l’ansia e gli impulsi erogeni, ascolta una sinfonia classica dietro l’altra, legge, riflette e si trincera il cervello. Le sinfonie, esatto. C’è tutto un bell’elenco, in parte reale e in parte inventato da Matheson, per trasformare I vampiri in un romanzo sonoro, con una colonna di pezzi d’accompagnamento, che io, durante le letture, mettevo a suonare dal tubo, nello stesso momento in cui Neville le faceva girare sul piatto, che fosse roba di Ravel o Bernstein.

Però non si capisce bene cosa ne stesse facendo Neville della propria vita prima dell’ecatombe vampirica. Lavorava in fabbrica assieme al vicino di casa, il corpulento e gioviale Ben Cortman, il cui aspetto ricorda Oliver Hardy e che dopo la pestilenza, si trasforma nella nemesi del protagonista, aggirandosi ogni notte intorno a casa sua e richiamando altri vampiri a unirsi a lui alla persecuzione dell’umano rimasto.

Neville sembra uno che si accontenta di fare un lavoro regolare, di avere una brava moglie e una figlia in salute. Non ha grandi ambizioni, non sente di possedere capacità elettive, talenti speciali. Almeno finché lo stato di unico sopravvissuto non lo spinge a combinare qualcosa, togliendogli prima il quadretto borghese sotto cui riparava il testone prima di ridursi a una solitudine totale.

Ecco, l’ho detto. I vampiri è un romanzo sulla solitudine e come tale ho potuto percepirlo fin dall’inizio in un momento in cui sto soffrendo molto un isolamento emotivo succeduto a una storia d’amore finita da poco. Il mio dolore mi ha fatto accorgere subito di una cosa scontata, se volete, ma che negli anni non avevo mai notato davvero. Mi distraevano i vampiri, l’ecatombe e non mi soffermavo troppo sul fatto che, ma per la maggior parte del tempo, Neville è un uomo sideralmente solo. Vaga per le strade vuote, tra auto abbandonate e centri commerciali in rovina, sempre più privo di speranza che ci sia qualcuno come lui ancora in giro.

C’è un aspetto che nei film non è mai stato davvero affrontato, e su cui Matheson invece insiste parecchio: la lussuria inappagata. Il sesso per Neville è un accessorio oberante ma che non può più investire in niente, nella non vita che gli resta. Di notte, le donne vampiro usano la propria fisicità per stanarlo, si struggono di desiderio lascivo sapendo che lui è rattrappito dietro lo spioncino della porta a guardarle e fremere di un desiderio schifoso verso di loro.

E l’impulso lo tormenta. Matheson non ci dice che si ammazza di pippe, ma non ne abbiamo bisogno per capirlo, però allude a qualche idea davvero estrema che Neville ha sull’uso dei corpi delle stesse vampire, quando durante il giorno le scova nei loro rifugi improvvisi, sotto una scala o in un armadio che sia. Pensa quindi, prima di impalarle con legno, di usare il proprio paletto di carne.

Solo che c’è un problema, e quello salva Neville dalla necrofilia, da infezioni veneree mai sentite e dall’esaurimento del già poco rispetto che nutre per se stesso: alla luce del giorno le donne vampiro sembrano in tutto e per tutto dei pupazzi, non sprigionano nessun fascino vitale, per quanto un po’ opacizzato dalla non morte. Tanto vale farsi i manichini nelle vetrine.

Così, come il cinema sottovaluta l’intelligenza del grande pubblico, così sopravvaluta le sue pudicizie, evitando al Morgan di Price, di certo con una fisicità intellettuale e tragica, all’aitante e nerboruto Heston di Occhi bianchi e il fisicato e dottoricchio Will Smith, le angosce di Pierino.
Ma non lo rinfaccio per pruderia. Non mi interessa guardare Smith che si masturba sul corpo della vampira che ha trascinato in laboratorio. Si tratta di una domanda scientificamente molto interessante che i film evitano. Cosa diventa il sesso se non hai più una donna o un uomo e nemmeno un cane, nell’arco di miglia e miglia?

Matheson risponde che si esaurisce. Dopo un lungo tratto di sofferenze indicibili, l’impulso si quieta e svanisce, trasmutato energicamente in qualcosa d’altro.
Una volta che Neville ha smesso di pensarci, è diventato quasi uno scienziato brillante. Trascorre ore e ore al microscopio e traducendo con la sicurezza e la competenza di un Will Smith e di un “dottor Heston”, le mappe batteriche e genetiche del vampiro.
Ma non se ne fa un ciufolo, perché il mondo è in mano a una nuova razza. L’evoluzione di una specie passa dalla degenerazione della precedente. E Neville realizza, nel finale ancora così evocativo, che è diventato leggenda, un mito.

È un romanzo sulla solitudine, che è tremenda da principio, ma che dopo un po’ diventa accudente e rassicurante più di un rapporto di coppia spalmato negli anni. Una volta superate le crisi d’astinenza sociali e fisiche, l’uomo solo inizia a respirare meglio che mai e a godersi una soporifera tranquillità. Al punto che quando ricompare una donna, Ruth, altra possibile sopravvissuta, una nuova Eva con cui ricominciare una storia umana, Neville scopre di avere più paura di scoprire che sia davvero umana che una vampira; perché questo significherebbe innamorarsi ancora, riemergere dalla calma piatta del superamento emotivo per i subbugli violenti del cuore. Lo stesso capita nel romanzo L’invasione degli ultracorpi. Lì, Miles è angosciato dalle possibili implicazioni sentimentali con la sua amica d’infanzia Backy più del grande casino con i baccelloni che sta affrontando. E voi e io lo sappiamo quanto tutto ciò sia plausibile.

Poiché l’amore, come scriveva Petrus Borel nell’Ottocento: “è per me odio, gemiti, urla, vergogna, lutto, ferro, lacrime, sangue, cadaveri, ossa, rimorsi… non ne ho mai conosciuto un altro” E dopo un elenco simile metterci vampiri affamati e ultracorpi è davvero troppo.

Parliamo del finale. Nonostante la chiusa del film di Lawrence (Io sono Will Smith la leggenda), col vaccino che arriva agli uomini ballando al ritmo di un disco di Bob Marley, il finale del libro è senza speranza. A meno che non vogliamo dare fiducia alla nuova razza nottambula in ascesa, che Neville ci avverte, ricorda nell’azione militare con cui viene catturato, la goliardia nazista della Notte dei cristalli, tutto è finito.

La Nausea di Sartre è l’incipit dell’esistenzialismo letterario novencentesco. I vampiri di Matheson ne è l’epilogo plausibile. Non è un caso che anche Camus, l’altro faro bleso di questa filosofia dura, abbia scritto La peste. E non è un caso che una fitta schiera di vampiri abbia popolato le classifiche pop anni 80, basandosi sui decadenti e sulla Nausea francese. Ma nessuno di loro citava mai Matheson, forse perché sapeva troppo di paperback e di serie B e non gonfiava la snobite di quei giovani virgulti pallidi del post-punk e del goth.

Neville è l’ultimo scampato a una peste mondiale come quella di Camus. Ma cosa vuoi che ci sia dopo una peste che ha sterminato tutti quanti tranne te. Ci sei te e basta. Che vuoi farci? Matheson paragona Neville a un Robinson Crusoe moderno, in un’isola metropolitana, non fertile ma resa sterile e venefica dal nucleare e dai secoli di azioni rapaci di quella borghesia della ragione, che DeFoe guardava con ottimismo nei primi decenni del secolo illuminato. L’isola di Crusoe Neville ora è fatta di sobborghi e di centri commerciali in rovina, di villette a schiera divenute tombe e di strade che non portano più da nessuna parte.

Ma l’eroe di DeFoe non aveva solo un radioso futuro industriale e schiavista, lui aveva la speranza. C’era ancora un dio e c’era anche la ragione umana a cui attingere. Inoltre il mare poteva portargli in ogni momento qualche aiuto dal mondo. Qui il mondo è dei non-morti e il cielo è espressivo come un soffitto di cemento.

Ormai lo sanno anche i sassi che George Romero ha preso l’idea centrale di I vampiri per La notte dei morti viventi. Il moderno horror comincia da questo romanzo e ancor prima dall’idea avuta da Richard Matheson nell’infanzia, quando uscendo dal cinema dopo aver visto Dracula si domando: “se un solo vampiro mette così paura, come sarebbe se ce ne fossero milioni in giro?”

Ma mentre qui germoglia il seme marcescibile del nuovo terrore, allo stesso tempo, sempre in questo libro muore un sacco di altra roba.

Muore la scienza, muore l’uomo, muore la ragione e muore pure la morte. E noi abbiamo la sfiga di sopravvivere a tutto questo.

Cosa ci rimane?

Una profezia. Su un nuovo mondo reale, che Matheson appunta a partire dal 1975 (il libro è del 1954) e ci dice essere in arrivo da quei giorni. Un mondo dove l’uomo è isolato, senza figli e senza compagne, disperato per la morte di un cane come fosse l’ultimo pezzetto di mondo amoroso. Là fuori c’è solo una folla infettiva, brulla, spenta, che vaga e anela la tua carne. Davanti a te ci sono giorni afosi da trascorrere ad accumulare beni materiali e lunghe notti a ubriacarti di serie televisive e messaggi al nulla rivolti ad altri zombie come te. Siamo tutti in  attesa, come Robinson, di una risposta dal cielo o dal mare. Mentre Neville sa bene che la sola risposta già l’abbiamo avuta, ed è insufficiente a farci qualsiasi cosa.